L’ottimismo può essere umanista? Come possiamo agire per migliorare il mondo senza illusioni o dogmi ma affidandoci a responsabilità, impegno civile, razionalità? Affronta il tema Paolo Ferrarini sul numero 2/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Chiunque abbia a cuore, anche senza feticizzarla, la propria razionalità, avrà più volte fatto l’esperienza di sentirsi indisposto dalla domanda del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Ci si può sottrarre all’imbarazzante estorsione di identificarsi su due piedi come una Cassandra o una Pollyanna facendo notare che quella tra pessimismo e ottimismo è una falsa dicotomia, con infinite sfumature e definizioni nel mezzo, oppure si può giocare di riflesso la carta del “realismo”.
Tirare in ballo il realismo significa però eludere la domanda, perché ottimismo e pessimismo sono disposizioni d’animo che per quanto possano poggiare sull’analisi più o meno lucida, più o meno informata, dei fatti del mondo, comportano per definizione una presa di posizione in ultima analisi irrazionale, una scommessa personale sul futuro basata sui propri istinti.

Potendo prevedere con certezza come andranno le cose, non ci sarebbe bisogno di assumere posture pessimiste o ottimiste: lo sapremmo e basta. In questo senso, gli unici qualificati a usare il termine “realista” sono forse i nonni che, sfogliando compulsivamente le pagine dei necrologi sui quotidiani locali, hanno inventato il doomscrolling.
Certo, con l’orologio dell’apocalisse appena aggiornato sugli 89 secondi alla mezzanotte, l’ordine mondiale sul punto di rottura a causa dei populismi e dei venti di guerra, e una crisi climatica che ormai sembra inarrestabile e foriera di un futuro di morte e violenza su scala globale, è difficile, “realisticamente”, sforzarsi di guardare al mondo con le metaforiche lenti rosa.
C’è chi ha già gettato formalmente la spugna, come gli hikikomori in Giappone (Nessun Dogma 6/2021) e la cosiddetta generazione N-po in Corea, ossia coloro che, in cinque gironi di disperazione, hanno rinunciato nell’ordine a sposarsi e fare figli, a trovare lavoro e comprare casa, ai rapporti personali e alla speranza per un futuro migliore, alla salute e all’apparenza fisica e, all’ultimo grado, alla vita stessa.
Chi ha a cuore la propria razionalità, tuttavia, non può semplicemente accontentarsi di cadere nelle braccia dei profeti dell’apocalisse e vivere nella paura, nella rassegnazione e nella convinzione, a volte peraltro pigra e comoda, della propria impotenza. Prima di abbracciare e argomentare una visione positiva o negativa del futuro è necessario quantomeno fermarsi a riflettere e includere nell’equazione anche i bias e le influenze culturali che ci portano a propendere per una o per l’altra.
Innanzitutto, ci sono gli aspetti biologici. L’evoluzione ci ha fatti in modo da reagire molto più energicamente agli stimoli negativi che a quelli positivi. Come nota anche Schopenhauer: «Noi sentiamo il dolore, ma non la mancanza di dolore», e i segnali positivi non richiedono particolari reazioni da parte nostra.
È il motivo per cui dobbiamo decidere coscientemente di fermarci a menzionare e celebrare le cose positive, che altrimenti tenderemmo a dare completamente per scontate. Già da bambini rispondiamo più attivamente alle voci arrabbiate e identifichiamo più rapidamente i volti corrucciati. Il sistema limbico fa sì che ricordiamo meglio gli incidenti rispetto a quando le cose ci sono andate bene nella vita.
Evidentemente si tratta di un adattamento che ha dato un vantaggio evolutivo alla specie: conviene prestare più attenzione alle minacce, ricordarle e saperle prevedere per avere più possibilità di sopravvivenza. Ma in una società moderna, dove i livelli di pericolo fisico sono drasticamente ridotti, l’imprinting a vivere come se ci fosse sempre un predatore in agguato può portare alcuni a soffrire patologicamente di ansia e stress cronici. In questi casi, le terapie cognitivo-comportamentali aiutano a riconoscere tra le altre cose che queste persone stanno sperimentando, nelle parole del professor Bruce Hood, «i postumi dell’ubriacatura di negatività che preistoricamente ci teneva in vita nella savana».
Altri esperimenti, come quelli dello psicologo Martin Seligman, hanno dimostrato che il pessimismo, definito come pregiudizievole e inibente accettazione della propria impotenza, è legato alla percezione anche illusoria di avere o non avere il controllo sulla situazione. Manipolando elementi nell’ambiente in modo da sottrarre questa percezione di controllo è possibile condizionare dei cani ad abbandonare ogni speranza e a subire le circostanze (le solite scariche elettriche particolarmente di moda nei laboratori degli anni ‘60) anche quando la via d’uscita è sotto il loro naso. Il risvolto più problematico e patologico, nella specie umana, emerge quando il senso di impotenza condizionato, oltre a indurre una disposizione pessimistica nei confronti della vita, assume dimensioni tragiche nei contesti di abuso domestico, o sui minori.
Il bias di negatività che tutti ereditiamo evoluzionisticamente si riflette anche nel modo in cui giudichiamo gli altri. Se la prima impressione che abbiamo di una persona è negativa – e ci basta un decimo di secondo per inquadrare qualcuno in termini di fascino, simpatia, affidabilità, aggressività e competenza – difficilmente quella persona riuscirà a fare abbastanza per convincerci della sua bontà.
Al contrario, una persona giudicata positivamente a prima vista può uscire dai nostri favori al primo sgarro. Secondo John Gottman, esperto in relazioni matrimoniali, sono necessarie cinque azioni riparatrici per ogni torto affinché un rapporto sopravviva. Uno dei motivi per cui chi si sposa deve avere un’enorme disposizione all’ottimismo, o una fede cieca nell’istituzione.
Amiamo essere negativi. Per costituzione. E c’è pure un’aura di prestigio sociale nell’ammantarci pubblicamente di questo bias. Negare automaticamente qualsiasi cosa venga detta da altri in uno scambio di opinioni online, lamentarci e assumere atteggiamenti polemici nei confronti di tutto, dispensare frecciatine e commenti sarcastici, usare un linguaggio scurrile e toni sopra le righe, fare battute ciniche e umorismo nero, sminuire le persone secondo l’ipotesi operativa che “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”… sono tutte posture che ci fanno sentire e in certi casi anche apparire moralmente e intellettualmente superiori, creando però un clima in cui magari chi tenta di essere positivo, conciliante, propositivo finisce per essere bullizzato e bollato come un ingenuo o un fesso.
La politica e l’informazione sono fra i principali responsabili della stigmatizzazione culturale dell’ottimismo. Le condotte dei governi hanno abituato molti cittadini a deridere le prospettive irrealisticamente rosee sbandierate durante le campagne elettorali, da «Yes, we can» di Obama, all’«Abolizione della povertà» dell’M5S.
Del resto la storia recente insegna che aderire ciecamente a quel tipo di ottimismo può risultare gravemente deleterio. Nel Regno Unito, un atto di fede nel miglior futuro possibile per il Paese al di fuori dell’Unione Europea ha portato a risultati disastrosi, mentre l’ottimismo antiscientifico propalato da certi regimi populisti circa il fatto che il Covid-19 sarebbe scomparso rapidamente, senza conseguenze e senza la necessità di implementare misure di contenimento, è costato la vita a migliaia di persone.
Suona poi eminentemente sciocco dichiararci ottimisti quando i cicli di notizie a cui siamo esposti con martellante insistenza sono insanabilmente funesti. Qui però una mente razionale deve riconoscere che giornali, telegiornali e programmi di opinione per necessità di mercato devono inseguire il sangue, perché le buone notizie – per i bias che abbiamo visto sopra – semplicemente fanno meno audience.
Dobbiamo quindi evitare di farci risucchiare in una camera di risonanza inquinata dall’illusione che vada tutto molto più male di come stanno realmente le cose e che si possa solo cadere dalla padella alla brace, portandoci da un lato a essere generalmente più infelici e dall’altro a votare male alle elezioni. Un sondaggio di YouGov ha rilevato nel 2016 (annus horribilis del populismo in occidente) che il 65-70% delle persone intervistate in Uk e Usa erano convinte che il mondo stesse peggiorando, contro il 4-6% convinti del contrario.
Per tentare di decostruire questa tossica camera di risonanza, gruppi di intellettuali denominati informalmente “New Optimists” – tra cui spiccano Steven Pinker, Hans Rosling e Max Roser, fondatore di Our World in Data – negli ultimi 10-15 anni hanno iniziato a sommergerci di statistiche che evidenziano come, a discapito delle nostre percezioni negative, la popolazione globale stia meglio oggi che in qualsiasi altro periodo storico, con dimostrabili miglioramenti lungo tutti gli indicatori di benessere, dalla diminuzione dei tassi di povertà a quelli di criminalità e violenza.
È probabilmente anche in previsione delle critiche da parte della maggioranza degli scettici urtati nella propria sensibilità che Steven Pinker ha sentito di dover infarcire all’estremo con dati, grafici e argomentazioni il suo libro più ottimista e controcorrente, Il declino della violenza, di gran lunga il più voluminoso della sua bibliografia.
A riprova del fatto che il pessimismo ha più a che fare con bias ed euristiche che con un supposto “realismo”, la prospettiva si ribalta quando si passa dalle valutazioni su ciò che in astratto accade nella vastità del mondo a un ambito in cui abbiamo considerevolmente più competenza e controllo, ossia la nostra vita.
150.000 cittadini intervistati in tutto il mondo nel 2005 riguardo alle proprie prospettive per il futuro hanno dichiarato di vedersi in media al gradino 7 di una scala dove 1 rappresenta la peggior vita possibile e 10 la migliore. La maggior parte delle persone, tendenzialmente catastrofista circa il futuro della specie in generale, ha quindi un bias ottimista riguardo alla propria vita.
Un bias che può generare anche pericolose dissonanze in coloro, per esempio, che credono di poter smettere di fumare quando vogliono, o di essere magicamente immuni a malattie sessuali, infarti, perdite al gioco d’azzardo, incidenti mortali, incendi, alluvioni, e a tutte le disgrazie che colpiscono soltanto le altre persone.
Guardare sempre al lato positivo della vita, come suggeriscono di fare i Monty Python nell’ultima scena di Life of Brian, può quindi essere una mossa irresponsabile, e tradursi in distorsioni come la positività tossica (discussa sul numero 6/2023 di questa rivista). Tuttavia, guardare un po’ di più al lato positivo della vita può contribuire, secondo psicologi come Bruce Hood, a renderci più felici, fisicamente sani, socialmente attraenti e addirittura a vivere più a lungo.
Questo perché, oltre a sentirci meno stressati e succubi delle preoccupazioni, essere ottimisti ci dà lo stimolo e la fiducia necessari a intraprendere stili di vita sani, a fare movimento, a mangiare bene, nonché a raggiungere i nostri obiettivi lavorativi o sentimentali.
Filosoficamente, poi, per quanto in ultima analisi sia irrazionale, credere che le cose possano andare meglio è il presupposto minimo per poterci alzare dal letto, correre qualche rischio e agire per cambiare in meglio le nostre circostanze e le circostanze del mondo. Si tratta di “ottimismo disposizionale”, una presa di posizione pragmatica, programmatica, operativa, che prescinde dalla nostra lettura positiva o negativa dei trend globali. Abbandonare ogni fiducia nelle possibilità di successo significa infatti cadere nella “trappola del pessimismo”, garantire cioè che il fallimento diventi una profezia autorealizzante.
Lo afferma anche Noam Chomsky, a dispetto delle sue analisi sempre profondamente deprimenti della geopolitica: «Abbiamo due opzioni. Possiamo essere pessimisti, arrenderci, e contribuire così ad assicurare che il peggio si realizzi. Oppure possiamo essere ottimisti, afferrare le opportunità che sicuramente esistono, e forse contribuire in questo modo a rendere il mondo un posto migliore. Non c’è molta scelta».
Addirittura, per Karl Popper, «l’ottimismo è un dovere. Il futuro è aperto. Non è predeterminato. Nessuno può predirlo, se non per coincidenza. Tutti contribuiamo a plasmarlo attraverso ciò che facciamo. E tutti siamo ugualmente responsabili per il suo successo.»
In questo spirito, il nostro «agire laico per un mondo più umano» è un manifesto di ottimismo disposizionale, un ottimismo in chiave squisitamente umanista, disincantato ma non cinico, né ingenuo né panglossiano, lontano da fuorvianti, illusorie nozioni tipiche della fede come la “speranza”, o la “provvidenza”, ma espressione di un impegno civile abbracciato a ragion veduta che ci permette, nonostante le difficoltà e la magnitudine delle sfide, di fare del nostro meglio come individui e come organizzazione.
Paolo Ferrarini
Approfondimenti
- Sumit Paul-Choudhury, The Bright Side: Why Optimists Have the Power to Change the World, Canongate Books, 2025
- Bruce Hood, The Science of Happiness: Seven Lessons for Living Well, Canongate Books, 2025
- Our World in Data
- Steven Pinker, The Better Angels of Our Nature, Penguin Books, 2012 (Il declino della violenza, Mondadori, 2013)
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….Tuttavia, guardare un po’ di più al lato positivo della vita può contribuire, secondo psicologi come Bruce Hood, a renderci più felici, fisicamente sani, socialmente attraenti e addirittura a vivere più a lungo…..Dice l’articolo
Chi sarebbe colui che non vorrebbe essere « più felice », « fisicamente sano », o « vivere più a lungo » ?
Concretamente : Basterebbe VOLERE fare qualcosa per POTERE fare qualcosa ? Chiaramente, è quando puoi che, eventualmente, vuoi fare qualcosa. Non di certo il contrario. Inoltre, se bastasse di volere fare qualcosa per fare qualcosa, pochi sarebbero infelici….
La ragione è un meccanismo di inferenza intuitiva in cui la logica gioca, nella migliore delle ipotesi, un ruolo marginale. Sono le ragioni a guidare i nostri pensieri e le nostre azioni, e quindi a spiegarli. Queste ragioni sono aperte alla valutazione: possono essere buone o cattive. Le buone ragioni giustificano i pensieri o le azioni che spiegano. Questa descrizione del ruolo delle ragioni nella spiegazione e nella giustificazione può sembrare ovvia. In realtà, si tratta di una comoda finzione: la maggior parte delle ragioni sono razionalizzazioni ex post. Questo uso fittizio delle ragioni svolge tuttavia un ruolo vitale nelle interazioni umane, dalle più banali alle più drammatiche.
La conoscenza immaginata, più o meno illusoria, è probabilmente molto più condivisa della ragione nella specie umana…..Inoltre, l’impressione che una persona normale ha nel poter dirigere o eliminare i suoi pensieri, è pura illusione ! A questo livello l’osannato Libero Arbitrio fa cilecca…
NB : Un’illusione non è né un errore né una verità. È effettivamente impermeabile alla confutazione intellettuale. Come l’allucinazione, che è “vera” per il soggetto – una sensazione molto reale e vissuta – ma falsa rispetto all’oggetto, poiché il correlato percepito non esiste materialmente.