La storia recente del Bangladesh vede il rischio di derive autoritarie e laicità in crisi, tensioni religiose e violenze contro minoranze e atei. Affronta il tema Raffaele Carcano sul numero 4/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Se non ci fossero i loro negozi di alimentari aperti fino a tardi, detti non a caso “bangladini”, del Paese gli italiani non saprebbero nulla. La sua storia è del resto recente, più recente di Italia-Germania 4-3. Anche se, ovviamente, ci si vive da tempo immemorabile. E ci vivono in tanti: quasi 180 milioni di persone, il triplo dell’Italia.
Ma poiché l’Italia è grande il doppio, la densità in Bangladesh è sei volte quella (già alta) italiana. È una popolazione abituata a vivere pigiata su un territorio che, con il riscaldamento climatico in corso, tra non molto tempo potrebbe in gran parte finire definitivamente sott’acqua. Cosa che talvolta succede già ora durante la stagione dei monsoni, o per qualche tsunami.

L’economia è ancora agricola, e agricola di altri tempi, e l’unica industria di rilievo, seconda al mondo per esportazioni dietro alla Cina, è quella tessile, che produce a bassissimo costo per Paesi più ricchi – ovvero quasi tutti, visto il reddito pro capite. «Un posto sfigato per gente diversa da noi», lo definirebbero alcuni connazionali, ignorando che i bengalesi sono come loro di origine indoeuropea, costituendone la propaggine più orientale. Ma ai neo-razzisti interessa poco, visto che il loro sguardo non va quasi mai oltre il campanile.
Anche in Bangladesh, purtroppo, in tanti non vanno oltre il minareto. Tanti problemi nascono dalla religione, e dai suoi rapporti con la politica. A essere precisi, il Paese è addirittura nato per motivi religiosi. Il Bengala si trova nella parte nord-est del subcontinente indiano, ma non tutto il Bangladesh coincide con il Bengala: ne rappresenta solo la parte orientale, a maggioranza musulmana. Quella occidentale, a maggioranza induista, fa invece parte dell’India.
Nel 1947, con la fine del dominio coloniale inglese, nel subcontinente nacquero due Stati: l’Unione Indiana (formata dai territori i cui formali regnanti erano induisti) e il Pakistan (musulmani). La cosiddetta partition provocò la migrazione forzata di milioni di persone (c’è chi dice venti) che avevano il difetto di non condividere la fede del loro principe. Gli scontri furono violenti e almeno un milione di esseri umani (c’è chi arriva a due) trovò la morte, a cui seguì l’anno dopo un conflitto frontale tra i due nuovi Stati. Una catastrofe umanitaria su base religiosa.
Il Pakistan era anche una bizzarria geografica. Era diviso tra la parte occidentale, confinante con l’Iran, e quella orientale, il Bengala musulmano, distanti però fra loro oltre 2.000 chilometri occupati dall’India. La parte occidentale – più grande, più popolosa, più “storica” (vi scorre l’Indo) – divenne rapidamente quella che comandava.
Il padre fondatore del Pakistan, Muhammad Ali Jinnah, era un simpatizzante di Atatürk: voleva uno Stato (moderno) per i musulmani, non uno Stato “tradizionalmente” islamico. Ma morì presto, e già nel 1956 il Pakistan era, fin dal nome, diventato una repubblica islamica. Nel 1959 fu fondata la sua nuova capitale, naturalmente a ovest, e fu chiamata Islamabad. Negli anni seguenti, di pari passo con il succedersi delle dittature militari, l’islamizzazione si fece sempre più insistente (e continua martellante tutt’ora).
Nel Pakistan orientale nacque e prosperò un’opposizione che era insieme etnica, linguistica, democratica e anti-fanatica. Vi diede corpo la Lega musulmana Awami (che strada facendo perse il riferimento alla religione) guidata da Sheikh Mujibur Rahman. Quando nel 1971 fu arrestato, la situazione precipitò. La giunta militare pakistana lanciò una vera e propria guerra contro la parte orientale dello Stato, costringendo i bengalesi a creare una forza armata di resistenza.
Trattandosi di un conflitto anche etnico, qualcuno lo definisce un tentato genocidio, ma l’aspetto religioso fu nondimeno rilevante: a sostegno dell’azione bellica, il Pakistan creò milizie islamiste che compirono numerosi massacri, tanto che la stima dei civili morti nel conflitto va dai 250.000 ai tre milioni, senza dimenticare i combattenti e le decine di milioni di rifugiati. A fine anno, il decisivo sostegno militare indiano consentì al Pakistan orientale di secedere da quello occidentale. E di diventare il Bangladesh.
Sheikh Mujibur Rahman ne divenne primo ministro e collocò il Paese all’interno del movimento dei “Paesi non allineati”, stringendo inevitabilmente una forte alleanza con l’India. Tra i quattro principi fondamentali della costituzione introdusse anche la laicità. “Laicità”, va precisato, in senso gandhiano-nehruviano, anziché alla francese: pluralismo confessionale, libertà di fede, e mano ferma contro gli estremisti religiosi. Ma, quindi, anche libertà di espressione per i non credenti, a condizione di non esagerare nelle critiche.
Il premier si fece però prendere la mano. Cominciò a farsi chiamare Bangabandhu, ovvero “amico del Bengala”: un riconoscimento solo leggermente meno encomiastico di quello ottenuto da Mustafa Kemal (Atatürk significa “padre dei turchi”). Nel gennaio 1975 creò un regime a partito unico, una Lega Awami allargata. Otto mesi dopo fu assassinato durante un golpe, che insediò alla presidenza della Repubblica un ex ministro molto vicino ai centri di potere islamici. Meno di tre mesi dopo, un altro colpo di Stato insediò alla presidenza un alto giurista, a capo di un governo capeggiato dai tre capi delle forze armate. Dopo altri diciotto mesi arrivò alla presidenza direttamente un generale.
E non un semplice generale. Zia ur-Rahman era ai vertici della gerarchia militare, “amministratore-capo della legge marziale”. Assunto l’incarico, depurò l’esercito dai potenziali rivali, sottopose la sua presidenza a un referendum (ovviamente stravinto, perché si poteva votare solo “sì” o “no”) e l’anno dopo conquistò agevolmente anche le presidenziali, in cui l’unico rivale era un altro generale. Fondò il Partito nazionalista del Bangladesh (Bnp) e si presentò alle elezioni politiche dopo aver formalmente ripristinato la democrazia: ottenne il 41% dei voti, che gli valsero però una maggioranza parlamentare superiore ai due terzi.
Zia tolse dalla costituzione il riferimento alla laicità, ne inserì diversi all’islam e stabilì che l’educazione religiosa doveva essere materia obbligatoria per gli studenti musulmani, perché l’identità della popolazione andava preservata. Era un nazionalista musulmano non molto diverso da quelli cattolici al potere oggi in Italia. Analogamente, sdoganò le fasce estremiste della religione, assegnando loro incarichi istituzionali.
Zia fu a sua volta assassinato nel 1981. L’anno dopo, un ennesimo colpo di Stato portò al potere il generale Ershad, che divenne amministratore-capo della legge marziale, e in seguito presidente. Creò un proprio partito, organizzò elezioni in parte boicottate, ma sicuramente contestate, e proclamò l’islam religione di Stato. Il Bangladesh, nato per differenziarsi dal Pakistan, aveva seguito la medesima deriva.
Nel 1991 anche Ershad perse il potere. Ma non per mano militare. Dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Urss, le dittature e le autocrazie non erano così apprezzate, nel mondo. A portare al suo arresto erano state le proteste popolari guidate da due donne. No, non fu l’effetto di una svolta femminista della società bangladese. Le due donne (entrambe velate) erano infatti Sheikh Hasina, figlia di Sheikh Mujibur e nuova leader della Lega Awami, e Khaleda Zia, vedova di Zia e nuova leader del Bnp.
Va riconosciuto che hanno interpretato da protagoniste il loro nuovo ruolo, forse persino meglio dei rispettivi congiunti: una volta rovesciato Ershad sono state a lungo acerrime rivali, al punto che giornalisti e storici hanno definito il loro duello come “la battaglia delle begum” (parola che in bengali significa “musulmana di alto rango”). E così il Bangladesh, a parte qualche interregno di governi tecnici, per un trentennio ha avuto una donna premier: Zia ha governato dal 1991 al 1996 e dal 2001 al 2006, Hasina dal 1996 al 2001 e dal 2009 in poi. In quell’“in poi” è racchiusa la storia più recente, e molto critica, del Paese.
I primi quindici anni hanno tuttavia rappresentato una democrazia accettabile, pur con tutti i suoi problemi. Tra cui la contesa su quale dei due illustri parenti sia stato il vero “padre della patria”, il trattamento più o meno discutibile dei loro assassini e l’alleanza con l’India anziché con l’Internazionale islamica. Nel 2011 Hasina ha ripristinato la laicità nella costituzione, senza però eliminare il ruolo privilegiato che attribuiva all’islam. Considerata la crescente libertà di cui hanno goduto, proprio in virtù di tale status, gli estremisti musulmani (e persino veri e propri terroristi), è evidente che la struttura costituzionale lascia molto a desiderare.
Sheik Hasina ha dunque continuato a rappresentare la laicità alla subcontinentale. Troppo poco, anche se c’è molto di peggio. L’omosessualità continua a essere potenzialmente sanzionabile fino all’ergastolo, e il diritto familiare continua a essere applicato secondo la legge religiosa della confessione di appartenenza, penalizzando gravemente le mogli. Ma vuoi mettere la soddisfazione di vivere in un Paese guidato per un trentennio da donne?
Il trattamento riservato a chi non crede è quasi sempre un affidabile metro di valutazione dell’effettiva libertà dei cittadini. Negli anni ‘10 c’è stato un boom di blogger laici(sti) o esplicitamente atei. Un fenomeno, beninteso, ristretto al web, ma che per la prima volta dava l’idea che anche in Bangladesh fosse possibile abbandonare senza problemi la religione.
Gli islamisti scesero in strada in massa (in un’occasione, la massa era costituita da un milione di facinorosi) chiedendone la condanna a morte per la presunta “blasfemia”; le autorità di sicurezza fecero capire che erano i giovani increduli che «se la stavano andando a cercare»; Sheikh Hasina decise di censurarli e ne fece arrestare tre. Abbandonati a loro stessi, i blogger potevano contare esclusivamente sulla solidarietà internazionale: anche l’Uaar lanciò una petizione e organizzò un presidio davanti all’ambasciata romana. Qualcuno riuscì a rifugiarsi all’estero. Ma una dozzina di essi fu brutalmente uccisa.
Soltanto nel 2021, quando gli islamisti arrivarono alla violenza contro la residuale minoranza induista, Sheikh Hasina minacciò di cancellare lo status di religione di Stato (forse per le pressioni del potente vicino indiano). Ma la sua credibilità democratica era ormai già da tempo ai minimi, dopo l’arresto, la condanna e la carcerazione di Khaleda Zia e del figlio-erede Tarique, e la mancata partecipazione del Bnp (e di gran parte dell’opposizione) alle due ultime elezioni.
Finché, dopo qualche avvisaglia nel 2018, nel luglio 2024 si è scatenata un’ondata di proteste studentesche, dando luogo alla “rivoluzione del monsone”. Inizialmente repressa nel sangue, il 5 agosto la settantottenne Sheikh Hasina ha finalmente mollato la presa ed è fuggita in India. Il presidente Mohammed Shahabuddin ha sciolto il parlamento e ha incaricato Muhammad Yunus di formare un governo a interim.
Per chi non lo conoscesse, è un economista ottantacinquenne, anch’egli devoto musulmano, che nel 2006 vinse il premio Nobel per la pace per aver inventato il microcredito (concesso preferibilmente a donne, ritenute più capaci di restituirlo). Subito dopo il Nobel aveva provato a creare un suo partito, ma fu convinto a desistere. Successivamente finì anche lui nel mirino di Sheikh Hasina, e fu inseguito dalle più svariate cause giudiziarie. Il nuovo governo, che aveva ricevuto un mandato limitato ai tre mesi necessari per convocare nuove elezioni, comprendeva due studenti, quattro donne, un generale, alcuni tecnici.
Quasi un anno dopo, la “commissione per il consenso nazionale”, di cui fanno parte 30 partiti, non ha raggiunto il consenso su nulla. Le elezioni non si sono ancora svolte, rimandate a un indefinito momento del 2026. Le accuse legali contro Yunus sono state archiviate. La riscrittura della storia continua anche con il nuovo governo, che ridimensiona la figura di Sheikh Mujibur.
La Lega Awami è stata messa fuori legge in base alla legislazione antiterrorismo che essa stessa aveva introdotto: i suoi militanti sono oggetto delle frequenti attenzioni delle forze dell’ordine, e alcuni di essi sono morti durante la custodia carceraria. Khaleda Zia è stata liberata, ma sono stati liberati anche i leader dei partiti e dei gruppi più estremisti, compresi quelli accusati di terrorismo e genocidio e già condannati a morte. Nel frattempo, il procuratore generale dello Stato ha esplicitamente proposto di togliere dalla costituzione il riferimento alla laicità. E non è l’unico a chiederlo, anzi.
Anche il tentativo del governo di riconoscere qualche diritto in più alle donne si è arenato, dopo l’ennesima manifestazione di protesta degli islamisti. Sta reggendo a fatica la moratoria contro l’applicazione della legge che criminalizza la “blasfemia”, mentre branchi di fanatici continuano a perseguire le vie di fatto. Non ha certo aiutato a stemperare il clima una delle liberazioni più controverse, quella (su cauzione) di mufti Jasimuddin Rahmani, leader spirituale dell’Ansarullah Bangla Team, ritenuto l’ideologo della mattanza dei blogger atei.
Furenti attacchi per il suo atteggiamento pro-islamista sono stati indirizzati a Yunus anche dalla nota scrittrice atea Taslima Nasrin, che per le sue critiche all’estremismo religioso (e al governo che non lo combatteva) si beccò una fatwa già nel 1993, e da allora è costretta a vivere in esilio – dal 2005 in India. Paese, oggi guidato dal fanatico induista Narendra Modi, in cui la menzione costituzionale della laicità è a sua volta a rischio. I rapporti con l’ingombrante vicino si sono ovviamente deteriorati, e la minoranza induista bangladese lamenta di subire attacchi ormai quotidiani.
Anche l’esperimento-Yunus non sta dunque dando i risultati sperati. Il fatto che le elezioni non siano imminenti è forse, brutto a dirsi, una buona notizia. I crimini della Lega Awami hanno reso detestabile la parola “laicità”, anche se ben poco della sua azione di governo può essere interpretato come tale, secondo i nostri standard. Ma non vuol dire che, se i “laici” sbagliano, gli altri rappresentano la parte giusta. Il Bnp, che spinge per votare subito, promette di rafforzare i “tradizionali” valori musulmani e di cancellare dalla costituzione la laicità.
Lo fa anche perché dovrà affrontare la concorrenza elettorale degli islamisti. Jamaat-e-Islami, affiliato alla Fratellanza musulmana, potrebbe raccogliere molti consensi semplicemente perché non è stato compromesso con le politiche del passato o con il disinvolto e perdurante trasformismo: è ancora vivo e vegeto persino il partito di Ershad, presieduto (c’è bisogno di dirlo?) dalla vedova, e il presidente della Repubblica è ancora Shahabuddin, anche se era stato nominato dalla Lega Awami – ma, chissà, magari anche lui si metterà in proprio. Magari lo farà anche Yunus. Non sono situazioni esattamente sconosciute, in Europa. Sono le stesse che fanno prosperare la sfiducia nella democrazia e il non voto.
Gli studenti hanno a loro volta dato vita al Partito nazionale dei cittadini. Giovani utopisti contro vecchi arnesi della politica e nuove belve religiose: il loro leader, il ventisettenne Nahid Islam, evoca fin dal nome l’anima ambigua del Paese. Ma anche il governo ad interim finisce per riproporre al suo interno istanze (moderatamente) laiche e istanze (talvolta estreme) islamiche, quasi a inverare l’ossimorica costituzione del Paese e a ribadire quanto le leggi, belle o brutte che siano, quasi mai riescono a concretizzare interamente i propositi dei loro estensori. In un mondo che è tornato ad apprezzare dittature e autocrazie, il Bangladesh è un Paese da osservare con molta attenzione, e qualche legittimo timore.
Raffaele Carcano
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