Quanto può essere pacchiana la rappresentazione del sacro? Affronta il tema le storico dell’arte Mosè Viero sul numero 3/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Il concetto di kitsch è squisitamente contemporaneo. Ad aver sdoganato il termine nella critica d’arte ufficiale è il saggio di Gillo Dorfles Il Kitsch: Antologia del cattivo gusto, pubblicato nel 1968. Scrive Dorfles che il kitsch è «un’operazione apparentemente artistica che surroga una mancante forza creativa attraverso sollecitazioni della fantasia per particolari contenuti (erotici, politici, religiosi, sentimentali)».
Questa definizione sembra implicare che per creare arte “vera” non sia sufficiente sollecitare la fantasia del fruitore, e che anzi questa sollecitazione sia una sorta di scorciatoia, inforcata dall’autore per coinvolgere il suo pubblico facendo appello più alla chimica che alla ragione o al sentimento. Se accettiamo questa chiave interpretativa, possiamo avvicinare il cattivo gusto alla pornografia: non è un caso che tra i “particolari contenuti” che Dorfles indica come privilegiati nel mettere in atto il kitsch vi sia al primo posto l’erotismo.

Quel che più ci interessa in questa sede, però, è quel che viene dopo: anche il contenuto religioso è tra i maggiori veicoli del cattivo gusto. La motivazione è facilmente comprensibile: l’arte religiosa, o forse dovremmo scrivere la pseudo-arte religiosa, viene spesso prodotta non in seguito a una ricerca estetica, ma solo per offrire al fedele un’immagine davanti a cui pregare. Il cattivo gusto, in fondo, non è altro che il subordinare l’estetica alla “pratica”: mentre la grande arte è la concretizzazione dell’equilibrio perfetto tra questi due fattori. Esistono capolavori di arte erotica, religiosa, politica, sentimentale: il punto non è la scelta del tema, ma il modo in cui quest’ultimo è fuso con la ricerca.
Opere d’arte sacra di basso livello, caratterizzate da puro e semplice didascalismo, esistono da sempre, fin dai tempi del paleocristianesimo. Il senso estetico d’oggi però difficilmente ci fa inorridire di fronte a un brutto resto di affresco medievale: il nostro approccio è inevitabilmente condizionato dalla storia del gusto. Che alcune epoche siano esteticamente primitive è accettato e considerato quasi “giusto”.
Se le incertezze del linguaggio medievale trovano infine una sistemazione equilibrata e razionale nel cosiddetto Rinascimento, è la deviazione dal canone stabilito dagli artisti maggiori di quel momento a essere considerata oggi la maggiore incarnazione del kitsch religioso. Più esplicitamente, il cattivo gusto nell’arte sacra viene individuato anzitutto, dal senso comune contemporaneo e anche in forza delle dure prese di posizione a riguardo di Benedetto Croce, nell’arte barocca e soprattutto nelle sue propaggini successive.
Il termine “barocco” nasce in epoca neoclassica e, come era stato per il termine “medioevo” nel Rinascimento, viene utilizzato in senso dispregiativo, a indicare un momento caratterizzato da sovrabbondanza decorativa, disarmonia, eccesso.
Si potrebbe scrivere a lungo riguardo alle motivazioni storiche che portano allo sviluppo di questo linguaggio, tuttora considerato dal pubblico medio degli appassionati come pesante e sgraziato. La lettura più comune è che si tratti di un effetto collaterale della cosiddetta controriforma, ovvero delle istanze prodotte dalla chiesa cattolica in risposta agli scismi che portano alla nascita delle Chiese riformate.
Di fronte alle guerre di religione che ridisegnano il volto dell’Europa nel XVII secolo, il clero cattolico romano è costretto a cercare solide alleanze politiche, ovvero ad abbandonare definitivamente l’idea di farsi interprete di un approccio esclusivamente spirituale: per sopravvivere e prosperare, la Chiesa deve occuparsi delle “cose mondane”, solleticando anche il gusto per il lusso, il piacere terreno, l’ostentazione.
Non mancano però interpretazioni storico-sociali più ardite, come quella già ormai classica di Arnold Hauser, secondo cui il barocco è anche un effetto degli sviluppi della scienza e in particolare dell’affacciarsi delle teorie di Copernico: se l’uomo non è più al centro dell’universo, può smettere di essere “misura di tutte le cose” come nel Rinascimento, e l’arte può permettersi la libertà di sfidare l’irregolare infinità del cosmo attraverso istanze che abbandonino la continenza e la misura.
L’architettura barocca è dominata dunque dalle linee curve, dal ritmo sincopato, dagli andamenti sinuosi che rendono la geometria degli spazi quasi indecifrabile. La rinuncia alla pulizia delle linee porta, di converso, alla possibilità o necessità di esagerare nell’ornamento: le chiese barocche danno spesso una sensazione di stordimento dovuta all’accumulo e all’eccesso.
Nel momento della nascita e dei primi sviluppi di questa nuova sensibilità l’ispirazione autentica è evidente: si vedano ad esempio gli interni della chiesa del Gesù a Roma, che possiamo considerare quasi il prototipo della nuova architettura contro-riformistica. Il problema è quando il linguaggio barocco o la sua evoluzione chiamata rococò, altrettanto iper-ornata ma più leggera e frivola, diventa di maniera: in quel caso siamo chiaramente di fronte a una scorciatoia verso lo stordimento di cui sopra, atto a veicolare senza troppi sforzi creativi il potere e la magnificenza dell’istituzione-chiesa.
Per molti versi, l’approccio iper-decorativo del barocco è l’incarnazione più ovvia e diretta del kitsch nella definizione data da Dorfles da cui siamo partiti. Si confronti la citata chiesa del Gesù con la Asamkirche, ovvero la chiesa di San Giovanni Nepomuceno a Monaco di Baviera, che pure è considerata tra i capolavori del rococò. Oppure si confronti l’imponenza ancora in qualche modo ordinata della basilica di San Pietro a Roma con l’horror vacui della chiesa di San Francesco a Salvador in Brasile.
Nel momento in cui l’iper decorativismo viene sdoganato, l’arricchimento delle chiese con oggetti sempre più pacchiani non trova più ostacoli: se in quelli che vengono considerati veri e propri monumenti si presta un minimo di attenzione a non esagerare col cattivo gusto, nelle piccole chiese di provincia ci si può trovare di fronte a piccoli capolavori dell’orrore.
Statuette prodotte in serie, presepi di carta stagnola, stazioni della via crucis che sembrerebbero fuori posto anche nei libri per bambini: talvolta finanche gli altari sono decorati con dipinti così derivativi e privi d’ispirazione da far inorridire perfino gli stessi fedeli. Forse l’apice del brutto lo raggiungono però le raccolte di ex voto, che riempiono pareti e angoli delle chiese: oggettini di produzione industriale o artigianale, in metallo o ceramica, raffiguranti spesso un cuore (il “cuore sacro”) ma a volte altre parti del corpo per cui si cerca una benedizione (gambe, mani, braccia).
Anche i reliquiari possono essere ottima testimonianza del cattivo gusto nelle chiese: se non siamo disturbati dall’idea stessa dell’esposizione macabra di resti di antichi cadaveri, a respingerci possono essere i contenitori stessi, quasi sempre irrimediabilmente sgraziati e pacchiani.
Tra i credenti più consapevoli, il problema del kitsch nelle chiese è al centro di dibattiti e confronti pubblici di cui è interessante dare brevemente conto anche dalla nostra prospettiva razionalista. Il cattolico ultra-conservatore Camillo Langone, editorialista de Il Foglio, è da sempre in lotta col cattivo gusto nelle chiese, che a suo parere andrebbe stroncato con apposite iniziative dall’alto: se l’estetica svela l’etica, accettare arte dozzinale in un edificio di culto provoca non innocuo squallore ma perdita “vera” di sostanza teologica.
Prescindendo da quest’ultima affermazione, il concetto è potenzialmente allargabile a tutti gli spazi che ospitano qualche forma di vita collettiva: e infatti quando progettiamo uno spazio pubblico ci appelliamo a esperti urbanisti e paesaggisti, che non di rado prendono ispirazione dall’idea del bello più radicata in quel momento storico.
Il paradosso del ragionamento di Langone è che qualunque appello alla ragione e al buonsenso è destinato, in un contesto religioso, a essere contraddetto dalla necessità da parte della Chiesa di dare spazio anche e soprattutto all’elemento irrazionale, istintivo, ingenuo di chi professa la fede talvolta proprio perché incapace di “regolare” la sua esistenza e darle un senso restando nell’immanenza.
Chi progetta uno spazio laico non ha bisogno di stordire il fruitore per dargli il senso dell’onnipotenza di Dio e/o della Chiesa: non ci serve, o ci serve di meno, la scorciatoia rappresentata dal cattivo gusto perché i nostri obiettivi sono razionali e non metafisici. Lungi dal rappresentare un limite, questo ci permette il lusso di curare l’estetica senza che a qualcuno venga in mente di accusarci di essere dittatori del gusto.
Mosè Viero
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Religione e ‘religioso’ sono kitsch.
È assurdo affermare che il mondo sia bello o armonioso in sé. Bellezza e armonia sono nozioni umane soggettive, non categorie oggettive che vanno oltre il mondo e gli conferiscono dall’esterno le proprietà che scopriamo e le qualità che ci ispirano.
Il musicista Gustav Holst celebra il pianeta Giove come “colui che porta allegria” nella sua famosa opera orchestrale Th Planets : suona al centro del brano una melodia di grande bellezza che diventerà il maestoso inno patriottico britannico. Ma questa musica non dovrebbe essere intesa come proveniente dallo spazio e che riflette l’essenza del pianeta. L’inno mi tocca profondamente, la visione del pianeta mi seduce, ma è irragionevole vedere Giove come un inno alla natura. L’inno alla natura è infatti l’umano che lo canta, non Giove…..