Qualche riflessione sull’avvio della campagna ateobus UAAR

«Qualcuno può stupirsi di fronte all’affermazione che in Italia non si è liberi (o lo si è molto scarsamente) di essere atei, eppure è una verità tra le meno difficili da dimostrare». Sono parole del giurista Carlo Cardia, e risalgono al 1973. Nonostante dal 1984 non vi sia più una religione di Stato, e nonostante la Corte Costituzionale abbia stabilito che «il nostro ordinamento costituzionale esclude ogni differenziazione di tutela della libera esplicazione sia della fede religiosa sia dell’ateismo» (sentenza 117/1979) e che «il principio supremo della laicità dello Stato è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica» (sentenza 203/1989), la situazione sembra purtroppo la stessa di trentasei anni fa, salvo il fatto che ora Carlo Cardia scrive per Avvenire. Gli ateobus UAAR sono stati per ora bloccati.
Negli ultimi decenni la società italiana è diventata sempre più plurale e, soprattutto, secolarizzata. I non credenti italiani sono diversi milioni, molti di più di tutte le confessioni religiose di minoranza messe insieme. Sono in aumento, ma sono in aumento anche i messaggi che lo sportello UAAR S.O.S. Laicità riceve quotidianamente. Le discriminazioni segnalate sono di tutti i tipi: atti di culto a scuola, crocifissi e altre suppellettili religiose negli edifici pubblici, ora alternativa negata, sbattezzi negati, pillole del giorno dopo negate, campane amplificate a livelli degni di un concerto heavy-metal, matrimoni e funerali civili effettuati in luoghi incivili… e non è che la punta dell’iceberg, perché non tutti conoscono questo servizio e, purtroppo, non tutti trovano il coraggio di contattarlo.
Del quotidiano impegno dell’UAAR per assistere i cittadini non credenti (e non solo) alle prese con gli spaventosi deficit di laicità, se non di civiltà, di una buona parte dell’establishment non parla nessuno. Delle sue campagne informative… spesso nemmeno. La popolazione italiana, la classe politica, i mass media non sembrano nemmeno rendersi conto che nel nostro paese vivono (e vivono serenamente!) milioni di atei e agnostici.
L’idea di avviare una campagna di ateobus rispondeva a questa semplice esigenza: dar loro visibilità, fungere da antidoto al condizionamento sociale. Un non credente che sa di non essere solo è più stimolato non solo ad affermare pubblicamente le proprie convizioni, ma anche a segnalare eventuali discriminazioni. E un clericale a conoscenza dell’esistenza di un’associazione come l’UAAR può forse pensarci due volte, prima di porre in essere una sopraffazione.
A differenza di altre iniziative UAAR, quella degli ateobus ha ricevuto un’immediata e cospicua attenzione da parte dei mezzi di informazione. Ma dalle vicende di questi giorni, e dalla modalità di copertura che hanno riscosso, si può trarre un’amara riflessione: gli atei possono pure continuare a vivere serenamente, purché non esprimano pubblicamente le loro opinioni. Parafrasando Benedetto Croce, il messaggio che li raggiunge sembra essere «perché vi costringiamo a dirvi cristiani».
Non vogliamo tappare la bocca alla Chiesa cattolica. Il cardinal Bagnasco deve godere di libertà di parola. Quasi sempre, però, il cardinal Bagnasco è il solo ad avere la parola. Paradossalmente, è proprio grazie all’annuncio del lancio nella sua diocesi di una campagna ‘atea’ che l’UAAR e i non credenti si sono potuti riprendere un po’ di par condicio. Prevedibilmente, è stato proprio l’operato del cardinal Bagnasco e della sua curia, ben evidenziato dall’iniziale aperta contrapposizione alla campagna e dalla successiva «soddisfazione» per la sua bocciatura, a ripristinare lo status quo. Nel mondo della comunicazione si deve ascoltare un solo Verbo.
È poi discutibile che di vera e propria par condicio si sia trattato. Sull’UAAR sono piovute accuse di tutti i tipi: di aver offeso i credenti, di averli turbati, di aver proposto una pubblicità ingannevole, di aver osato voler parlare di religione su mezzi inadeguati, di arrecare danno alla società di trasporti genovese. Mostrare l’inconsistenza di queste accuse è semplice, specialmente dopo lo slogan dei Cristiano-Riformisti («Dio esiste… e anche gli atei lo sanno»: per dargli un senso occorre sostituire «atei» con «Satana»). I non credenti si sono sentiti offesi? Turbati? Ingannati? Ritengono che sia una pubblicità dannosa, promossa su supporti sbagliati? No. Ecco che un semplice confronto evidenzia quanto diverso sia l’approccio alla convivenza civile da parte di laici e clericali: i primi ritengono che ogni organizzazione possa esprimere la sua opinione, i secondi vorrebbero invece che si possa esprimere soltanto la loro.
Oltraggioso il nostro slogan? Molto probabilmente, se si presta ascolto a Fabrizio Du Chène de Vére, amministratore delegato della IGPDecaux, secondo il quale, potendo «essere offensivo per gli appartenenti alle grandi religioni monoteiste», ha deciso di respingerlo. Sicuramente, se si condividono le dichiarazioni del cardinal Bagnasco, che l’ha definito «una ferita alla sensibilità religiosa di tanta gente, e non soltanto dei cattolici». Eppure tale campagna è nata sulla scia di quella inglese, concepita dalla scrittrice Ariane Sherine dopo che, avendo visto due teobus, ben lungi dal restarne «ferita», ha pensato bene di ribattere con gli ateobus. Altro ottimo esempio di quanto siano diversi laici e clericali: i primi, di fronte a un’affermazione che non li convince, cercano di rispondere argomentando; i secondi cercano di far sparire l’affermazione, di modo che anche altri non patiscano la medesima «sofferenza». Le affermazioni di Du Chène e quelle di Bagnasco attestano inequivocabilmente quanto i credenti siano molto più permalosi dei non credenti. E forse anche molto più offensivi, a giudicare dal tenore dei messaggi che riceviamo in questi giorni da loro: il 95% è costituito da insulti.
Abbiamo turbato alcuni credenti? Certamente, come ad esempio ha sostenuto il vicesindaco di Roma, Mauro Cutrufo («si tratta di una chiara turbativa della pubblica opinione… Un’amministrazione pubblica deve tenere conto di questa sensibilità diffusa nella collettività»). Gli atei e gli agnostici non si turbano davanti a una scritta che inneggia a Dio. Forse, contrariamente a quanto si pensa comunemente, sono proprio loro ad essere più sicuri delle proprie convinzioni. Un sospetto che sembrerebbe allignare anche tra le gerarchie ecclesiastiche, osservando quanto temono che il proprio gregge sia esposto anche solo a una pubblicità ‘comparativa’. Curiosamente, il turbamento manifestato dai credenti sembra dar ragione a quanto afferma il nostro slogan: per vivere serenamente non c’è bisogno di Dio e, anzi, facendone a meno si è probabilmente anche più sereni.
Abbiamo ideato uno slogan ingannevole? Siamo stati accusati anche di questo: anzi, per la precisione, è questa l’accusa con cui la nostra campagna è stata denunciata all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato da parte del senatore Bornacin. Qualcuno, anche da parte laica, ha sostenuto che l’UAAR ha diffuso un’affermazione assertiva che, tra l’altro, era assente nell’originale inglese (peraltro a sua volta denunciata all’Autorità garante britannica per pubblicità ingannevole!). Ma la frase «Dio non esiste» è un’opinione per definizione, proprio perché qualsiasi affermazione attinente alla sfera religiosa non è provata né provabile empiricamente, siano esse frasi pro o contro l’esistenza di Dio. Ma ci immaginiamo un missionario evangelizzare il prossimo suo affermando che «Dio probabilmente esiste, ma probabilmente non esistono né Krisna né Buddha, né tutte le altre divinità che la mente umana ha mai concepito»? E se agli atei è vietato dire pubblicamente che Dio non esiste, un divieto analogo non deve essere esteso ai credenti che sostengono l’esatto contrario?
Ci rendiamo conto benissimo – io stesso l’ho scritto in un libro solo pochi mesi fa – che il nostro slogan non ‘sconvertirà’ nessuno, in quanto le scelte personali in favore della religione o della miscredenza vengono quasi sempre compiute durante l’adolescenza, e tendono a restare stabili lungo il corso dell’esistenza. Uno slogan pubblicitario, peraltro anche ironico (dovrebbe essere evidente il fatto che, per l’UAAR, l’inesistenza di Dio non rappresenta una cattiva notizia), andrebbe però valutato in quanto tale. E continuo quindi a trovarlo onesto, sicuramente più onesto di quello spot, ricordato da Curzio Maltese, in cui la Chiesa cattolica si vantava di aver destinato i fondi raccolti con l’Otto per Mille per le vittime dello tsunami nel Sud-est asiatico, omettendo di precisare che quella campagna era costata il triplo della somma effettivamente inviata alle popolazioni disagiate. Le donazioni raccolte dall’UAAR saranno invece integralmente utilizzate per dare visibilità alla miscredenza.
Un’altra accusa ricorrente sostiene che avremmo causato un danno alla società di trasporti. Nella versione proposta dall’impagabile Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, gli ateobus avrebbero un’alta possibilità di incorrere in incidenti, in quanto autobus gestiti direttamente dal demonio. Dal canto suo don Silvio Grilli, direttore del giornale della Curia di Genova il Cittadino, ha chiesto agli amministratori se ritenessero «davvero vantaggioso» accettare la pubblicità atea sugli autobus, «un bene per la comunità e per la città». La miglior risposta a Grilli è stata già formulata da Corrado Augias, su Repubblica: la sua è «un’allusione che ricorda da vicino l’ambiguo linguaggio della mafia».
Più in generale, la vicenda si inquadra in un panorama politico che, a destra come a sinistra, sempre più identifica il cattolicesimo con una sorta di religione civile. Quando Maurizio Gasparri, presidente dei senatori PDL, si è dichiarato «sconcertato e rattristato» dalla campagna UAAR, non ha avuto bisogno di precisare perché: ha semplicemente pensato che fosse dato per scontato. E se anche il PD, a parte la sindaco di Genova Marta Vincenzi, ha mantenuto l’ormai consueto silenzio di tomba che riserva a ogni questione laica, non si può non rilevare come alcuni suoi autorevoli maîtres à penser, come Giancarlo Bosetti e Massimo D’Alema, intervenendo su altre questioni, abbiano esposto un’opinione sostanzialmente analoga: la religione è un fattore di coesione sociale, ergo (implicitamente) l’ateismo è fonte di divisione. Peccato che gli studi esistenti affermino il contrario. E peccato che, volendo, non ci sarebbe nemmeno bisogno di accedere a ricerche accademiche: basta un manuale di storia mondiale o una mappa dei conflitti in corso sul pianeta per constatare quanto le religioni siano divisive. Le parole di Gasparri, Bosetti e D’Alema costituiscono ragionamenti da palazzo del Potere, propri di chi pensa di usare la religione come instrumentum regni, senza avvedersi (o, più probabilmente, facendo finta di non vedere) che è la Chiesa cattolica a usare la politica come instrumentum religionis.
Quanto alla seconda parte dello slogan, anziché il concetto, forse un pochino troppo edonista, trasmesso dal messaggio inglese («enjoy your life»), abbiamo preferito puntare sull’autosufficienza, sull’autonomia e sull’autodeterminazione degli individui: tre atteggiamenti decisamente poco praticabili all’interno di un gregge. Il cielo si è aperto comunque: è ormai conclamato che in Italia, più di tre secoli dopo Pierre Bayle, si deve ancora dover spiegare, a politici e mezzi di informazione, che non avere una fede non significa essere immorali o delinquenti, non significa spingere la società verso il precipizio. Banalmente, basterebbe confrontare la percentuale di non credenti che vive nei dieci paesi che, secondo l’ONU, hanno il più alto indice di sviluppo umano con quella dei paesi che si trovano agli ultimi dieci posti.
La vicenda, da qualunque angolazione la si osservi, mostra dunque inesorabilmente quanto è decaduto negli ultimi tempi il nostro paese. Il nostro slogan è stato rifiutato facendo riferimento non a una normativa, ma a un codice di autodisciplina: anzi, citando un articolo di quel codice che riguarda la sola pubblicità commerciale. Ne dovremmo trarre la convinzione che anche i messaggi religiosi sono definibili «pubblicità commerciale»?
Peraltro, da un punto di vista legale l’affermazione «Dio non esiste» non è un’offesa per le convinzioni di nessuno, ma una convinzione che si contrappone a convinzioni altrui di segno opposto. La manifestazione di tali convinzioni è un diritto costituzionalmente riconosciuto e protetto, senza che sia mai stato (finora) considerato un’offesa.
E allora perché è accaduto? È accaduto perché esiste un Potere incurante del fatto che i messaggi che trasmette riceveranno critiche e provocheranno inquietudine nella popolazione. E perché si tratta dello stesso Potere che, non poi molti secoli fa, organizzava pubblici autodafé ai quali tutta la popolazione era obbligata ad assistere, pena il rinvio all’Inquisizione. Un Potere che può anche concepire che si possa concepire un pensiero non ortodosso, ma che ritiene che non si possa (che non si debba) manifestare alla luce del sole.
Se fossero certi della bontà delle proprie idee e dell’ampiezza del consenso che ricevono, le gerarchie ecclesiastiche non avrebbero certo bisogno di imporre divieti. Il loro comportamento denota invece, sempre più spesso, sia la paura della concorrenza (significativo lo ‘stop’ ai minareti recentemente chiesto dal cardinale Poletto), sia, ancor di più, la paura per la progressiva secolarizzazione del mondo occidentale: secolarizzazione che, come ben hanno mostrato i risultati dell’ultimo Eurobarometro, non risparmia affatto il nostro paese.
Ma le religioni non sono solo divisive: spesso sono anche invasive. Le gerarchie ecclesiastiche, sentendo franare il terreno sotto i propri piedi, consapevoli di non poter incidere sulle coscienze attraverso argomentazioni convincenti, tornano ancora una volta a comprimere la libertà di espressione con l’aiuto del braccio secolare e del condizionamento sociale. Le difficoltà della famiglia Englaro nel trovare una clinica disposta ad accogliere la figlia Eluana costituiscono, da questo punto di vista, un caso esattamente identico a quello degli ateobus.
Si potrà non condividere lo slogan scelto dall’UAAR, ma pensiamo sia difficile negare che si sia rivelato la miglior cartina di tornasole per conoscere di quale effettivo grado di libertà dispongono i cittadini italiani. La vicenda ha già raggiunto un punto fatidico: è possibile, in questo paese, godere degli stessi diritti nel voler dire che Dio c’è o che Dio non c’è?
Se la risposta sarà «no», allora avremo la prova provata che non siamo più un paese europeo (dove slogan analoghi non hanno avuto problemi), che non siamo più un paese laico (ammesso che lo sia mai stato), che non siamo più un paese civile dove si rispettano i diritti dell’uomo, ma verrà sancita, nero su bianco, l’abrogazione de facto degli articoli 3 e 21 della costituzione.
Sono questioni fondamentali che non riguardano ormai solo l’UAAR, o solo la laicità. Oggi è capitato a noi, domani potrà capitare a qualcun altro. Sono queste considerazioni che ci spingono a ribadire che l’UAAR si impegnerà con tutte le sue forze per l’affermazione di una piena parità di diritti tra credenti e non credenti. Se tanti si uniranno a noi, ce la faremo senz’altro.

Raffaele Carcano
Segretario UAAR

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