«Urgono nuove immagini. Immagini per un mondo senza dio», si legge proprio all’inizio del nuovo romanzo di Salman Rushdie, Shalimar il clown, appena uscito da Mondadori nella traduzione di Vincenzo Mantovani (pp. 480, euro 19). Se nella produzione narrativa antecedente la fatwa del 1989 era centrale la figurazione del vuoto lasciato dall’assenza di Dio, nei romanzi successivi a imporsi è piuttosto il tentativo di dare forma a un immaginario per un mondo privo di divinità. Con una sola eccezione: la favola Harun e il mare delle storie, primo lavoro pubblicato dopo la condanna a morte, nel 1991, ambientata in un mondo magico dove non è questione di fedi e dei. […] E come Harun appare, nella sua calviniana leggerezza, l’opera più riuscita del periodo della cattività, Shalimar, nel suo intreccio di «territori che si sovrappongono e storie che si intrecciano» (per dirla con Edward Said) è, senza ombra di dubbio, il miglior lavoro di Rushdie dai Versi satanici a oggi. Certo questa favola terribile, che parte e si chiude in una Los Angeles molto simile a quella vista in Crash, («una città nascosta, una città di estranei») dopo aver toccato sperduti villaggi del Kashmir, la Strasburgo del periodo bellico e la swinging London degli anni ‘60, riesce nell’intento di creare un immaginario per un mondo sconvolto da cattive interpretazioni del divino, lacerato da guerre di religione e da fondamentalismi. Storia della genesi di un angelo sterminatore […]
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