[…] Nel pieno di un’offensiva ideologica che non risparmia argomentazioni le più stravaganti, per sostenere la tesi di una “par condicio” costituzionalmente improponibile, ci pare già di sentire i fautori della equiparazione: «Visto? Non è vero che con i pacs o assimilati si esigono soltanto diritti e non si accettano i doveri connessi. Quando occorre, siamo pronti anche a pagare…». In realtà, da questo punto di vista l’innovazione è relativa, perché già oggi, sulla base della legislazione vigente in materia di anagrafe, la convivenza tra persone legate da vincoli affettivi dichiarati implica la sommatoria dei singoli redditi, al fine di conseguire certi sgravi o benefici previsti dalla legislazione sul welfare. Ma aldilà dei paradossi, l’aspetto che qui ci preme segnalare, con tutto il disagio che provoca, è l’ennesimo strappo culturale proveniente da un’istanza deputata, per definizione, a giudicare se i processi di primo e secondo grado siano stati condotti secondo i codici (il cosiddetto giudizio di legittimità). Non quindi ad entrare nel concreto delle vicende che stanno all’origine del procedimento. Tanto meno a valutarne la latitudine in termini di accettabilità sociale. Intendiamoci, non è la prima volta che le “toghe di ermellino” si prendono la libertà di allargare o restringere le maglie delle norme vigenti (basti ricordare la sentenza del 2004, che mise in discussione l’esonero dal pagamento dell’Ici per alcune tipologie di edifici destinati a finalità di assistenza, istruzione e simili). […]
L’articolo di Gianfranco Marcelli è stato pubblicato su Avvenire