Del miliardo e trecento milioni di musulmani nel mondo, la metà vive A oriente del profeta, come sottolinea fin dal titolo una interessante raccolta di saggi curata da Paolo Affatato e Emanuele Giordana per ObarraO (pp. 223, euro 23) che affronta un aspetto dell’Islam di solito trascurato dall’immaginario collettivo. Sebbene la religione musulmana evochi visioni legate al deserto della penisola arabica o alla sponda settentrionale dell’Africa, nei secoli è cresciuta a est una comunità islamica sempre più numerosa che è entrata in contatto con le società locali, contaminandosi e trasformandosi. In un ideale viaggio che va dall’India alle Isole Figi all’Australia, il libro segue le grandi rotte dell’Islam, mettendo in luce come il percorso settentrionale (l’Asia Centrale e l’India del Nord) sia stato segnato dalla spada e quello meridionale dal commercio. Se le steppe asiatiche sono state conquistate dai guerrieri di Tamerlano il cui dominio spietato rivive nelle superbe architetture di Samarcanda (e oggi il presidente uzbeko Karimov giura sul Corano, dimenticando il suo passato di funzionario del Pcus), in India l’impero Moghul ha negoziato con la maggioranza indù un potere imposto dalla supremazia militare ma mitigato dalla relativa esiguità dei credenti: tanto che oggi sembra inimmaginabile una convivenza negli stessi luoghi che nell’ultimo mezzo secolo hanno conosciuto la spartizione dell’India, le guerre con il Pakistan, la nascita violenta del Bangladesh, il conflitto per il Kashmir. Più tollerante l’Islam che si è sviluppato lungo le rotte commerciali dell’Oceano Indiano e che con i suoi messaggi di fratellanza ha saputo trovare proseliti negli strati più umili della popolazione irradiandosi da Malacca fino al sultanato di Sulu nelle Filippine meridionali.
Oggi in questi stati a maggioranza islamica il riconoscimento sociale della fede conosce esperienze differenti, dalla spiritualità nel Brunei al coniugarsi di religione e sviluppo economico che ha garantito alla Malesia una insperata stabilità dopo gli scontri tra malesi e cinesi nel 1969. Con la fine di Suharto nel ’98 è invece crollata la fragile impalcatura indonesiana: dopo il massacro del 1965 e l’eliminazione del Pki (il partito comunista indonesiano), il regime era riuscito a sopravvivere grazie all’alleanza tra i generali dell’esercito, i tycoon della diaspora cinese e il clero musulmano. Ora però l’instabile democrazia raggiunta ha rimesso in discussione il carattere laico dello stato e sono riemerse le inquietudini sociali. Ma la vera muraglia verso est per l’Islam è stata la Cina: al bastione geografico del Karakorum si è aggiunto quello ideologico, fondato sull’orgoglio di una cultura unica, laica e pragmatica. Dopo l’apertura dell’epoca Tang (quando il quartiere musulmano di Xian era il terminale della Via della Seta), il Regno di Mezzo si è chiuso nella celebrazione della propria diversità, relegando la presenza islamica a una minoranza Han o all’etnia uigura.
Pur nei diversi sguardi, gli autori di A oriente del profeta concordano sul fatto che l’Islam è al tempo stesso un connotato identitario e un movimento politico (o divenuto tale). Nei paesi dove è dominante, come il Pakistan, raccoglie intorno alle madrasse, le scuole teologiche, le aspirazioni dei giovani e dei poveri in un ambiente che non ha intercettato i vantaggi materiali della globalizzazione. Alle minoranze invece la religione musulmana offre un’ancora di resistenza, contro l’omologazione forzata. In entrambi i casi l’Islam estende il suo intervento dalla religione alla politica, su un crinale alimentato da chi teorizza o auspica lo scontro di civiltà. Derive contro le quali solo i segnali di comprensione che pure emergono dal libro possono opporre una fragile ma indispensabile linea di resistenza.
L’articolo di Romeo Orlandi è stato pubblicato sul sito del Manifesto
Che palle il manifesto che ti spiega sempre che se l’islam è diventato in certi contesti un’ideologia è colpa del malefico occidente corrotto e perverso. Non capisco che cosa di nuovo hanno scritto questi due e cosa c’entra l’asia, il femomeno delle giovani generazioni che abbracciano l’islam come ideologia di ribellione e per radicalità non esiste solo in asia, esiste anche in europa. Il motivo è da una parte il fallimento del comunismo, troppo difficile assumere l’eredità dello stalinismo, della persecuzione degli Ebrei e degli Omosessuali, ma d’altra parte è anche una questione di scelte che fanno determinati popoli. Quello che è da notare è che i musulmani non sono ostili al capitalismo occidentale, quello su cui puntano è piuttosto l’opposizione all’emancipazione della donna e alla repressione dell’omosessualità. Quindi lo scontro di civiltà non c’entra nulla, anche perché Bush non è che sia proprio il faro dell’emancipazione femminile e degli omosessuali.
….vorrei solo dire che non esiste il Clero nell’islam…e che tanto cambia tra Sunniti e sciiti: in quest’articolo si fa un’analisi troppo generale, mentre sarebbe più corretto analizzare le differenze di questi movimenti, la storia da Maometto fino ad oggi e come sono nati i così detti movimenti radicali: la trova un’analisi troppo superficiale. Se non si ha spazio per scrivere in modo completo di un argomento, è meglio non scrivere.
@lik: ma scrivi solo per parlare male dell’islam, e per traslato, dei comunisti mangia bambini?
@ Emilio Gargiulo
Non mi sembra, e poi anche se fosse, che male ci sarebbe? Tu intervieni solo ed esclusivamente per parlare male del cattolicesimo o dei cattolici (definiti come imbecilli), persino quando non ci chiappa un fico secco, mentre invece difendi sistematicamente l’islam. Non ho molta fiducia nelle persone che trovano repellente l’omofobia e il maschilismo della chiesa e poi la trovano invece affascinante nell’islam. Sei un pera all’inverso.