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Dal novembre del 2019, Manuel Cuni è presidente del Mensa Italia, associazione internazionale formata da soci con un Qi elevato che ha tra i vari obiettivi la promozione e diffusione del pensiero critico. Nei panni di Immanuel Casto, il poliedrico artista (cantante, compositore, performer, game designer) spopola in Italia da circa 15 anni, amato in particolare dalla comunità queer per i contenuti brillantemente satirici, spudoratamente osé, a volte controversi, delle sue canzoni, dei suoi video e dei suoi giochi da tavolo. Lo abbiamo intervistato per conoscere meglio il pensiero di un personaggio geniale e affascinante che vive agli estremi delle curve gaussiane dell’intelletto e dell’istinto.
Da star delle serate disco queer a presidente del Mensa: sembrerebbe un improbabile viaggio di evoluzione personale, ma chi ti conosce sa che nel tuo caso le due dimensioni – che uno penserebbe escludersi reciprocamente – sono sempre coesistite, come si evince anche dal tuo nome d’arte: Immanuel (Kant), la parte razionale + Casto, la parte ammiccante e provocatrice. In che termini inquadri, nella tua visione artistica, la dialettica tra ragion “pura” e porn groove?
Blake diceva «The road of excess leads to the palace of wisdom» (La via dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza). Lungi da me sostenere di averla raggiunta la saggezza, o che l’unica via per la saggezza sia quella che passa per l’eccesso, ma per me – almeno in parte – è stato così.
Comprendo che l’anima artistica e quella razionale possano apparire in conflitto, ma per me è solo una questione di registro. L’arte per me deve essere libera. È un luogo sacro che, grazie a un contesto di finzione dichiarata, consente l’espressione delle nostre pulsioni più selvagge. La finzione artistica non necessita delle premure che riservo a quando parlo a un pubblico fuori dal personaggio, soprattutto se sto facendo sensibilizzazione.
Inoltre nella maggior parte delle mie canzoni c’è sempre un messaggio importante celato dietro un sorriso, o un testo ironico. Questo perché non è mai venuta meno la mia libertà. Tutt’al più l’evoluzione è andata di pari passo con una crescente consapevolezza della responsabilità che ognuno di noi dovrebbe avere e che nel tempo ho miscelato con il senso ludico. Celare un messaggio profondo dietro un testo ironico è una caratteristica che tento di mantenere costante nel mio lavoro.
Un elemento di congiunzione tra intelligenza e sessualità sembra emergere nel comunicato stampa rilasciato in occasione della tua elezione a presidente del Mensa, dove affermi: «Molti soci raccontano di aver trovato nel Mensa la risposta a quel gap che persone con un’intelligenza superiore alla media possono sperimentare fin da giovani, nell’interazione con gli altri, arrivando persino a isolarsi. Soprattutto da bambini, sentirsi diversi può significare sentirsi sbagliati». Un messaggio che, mutati un paio di termini, sembra uscito direttamente dalla campagna Lgbt+ It Gets Better. Del resto, la difficoltà di intraprendere un percorso di auto-accettazione e affermazione della propria diversità è un tema che hai affrontato esplicitamente in più occasioni, non ultimo nella tua hit Da grande sarai fr**io. Ci parli della diversità dell’essere plusdotato?
Le generalizzazioni sono sbagliate per definizione. Così come non c’è nulla che accomuni indistintamente le persone Lgbt+, non c’è nulla di universalmente trasversale alle persone con una plusdotazione cognitiva. Se chiedessi a dieci “mensani” (in associazione ci chiamiamo così) di raccontarti la loro storia, sentiresti dieci storie diverse. Alcune delle quali saranno storie felici, dove la plusdotazione ha portato unicamente vantaggi. Per altre persone invece questa ha comportato una dimensione di sofferenza, derivante da un senso d’incomunicabilità nei confronti dei propri coetanei, o addirittura degli adulti. Un’associazione come il Mensa vuole, tra le altre cose, rispondere al bisogno di appartenenza di chi ha sperimentato tale condizione.
Così come per gli omosessuali esiste lo stereotipo della macchietta, per le persone con un alto quoziente intellettivo esiste quello della persona socialmente inetta, del disagiato. Entrambi gli stereotipi hanno lo scopo di tranquillizzare chi non appartiene alle categorie in questione, come se tali categorie rappresentassero una minaccia.
Parlando in termini strettamente personali, la frustrazione che ho sempre sperimentato deriva da una diversa velocità di pensiero. Per chi cammina velocemente, dover rallentare il passo – quando si è in compagnia – richiede uno sforzo costante. Con il pensiero può essere la stessa cosa.
Quello che ho appena detto può risultare fastidioso. Me ne rendo conto. Credo derivi da una forma mentis in cui è lecito misurare le diverse prestazioni fisiche tra gli esseri umani, ma non quelle intellettive. La misurazione del Qi (che non va fatto coincidere con l’intelligenza nel suo insieme) è storicamente vista con sospetto. Forse perché viene vista come un primo passo verso la discriminazione, o forse perché abbiamo ancora una visione creazionista dell’uomo, in cui la mente è espressione di una volontà divina, ugualmente perfetta in ognuno di noi.
Nel tuo repertorio, oltre a brani più orientati all’intrattenimento, come Sexual Navigator, o Crash, proponi anche testi in cui si può leggere un elemento di critica sociale, come Escort 25, 50 Bocca / 100 Amore, Zero Carboidrati, fino ad arrivare a canzoni di denuncia vera e propria, come Killer Star, dove punti il dito contro la morbosa spettacolarizzazione della morte da parte dei media. In tutto questo sembra emergere una concezione piuttosto cinica del mondo, o almeno di questo paese. È davvero così che stanno le cose? E Immanuel Casto è un nichilista?
Questa dimensione cupa si trova in molti brani ed è estremamente importante. Celate dietro a brani più leggeri, si nascondono sempre tematiche molto più profonde in cui, come spesso nella vita, si fondono umorismo, malinconia, felicità e tragedia. La risposta sintetica comunque è No. Non c’è la volontà di offrire una lettura esaustiva del reale. L’intento di quei brani è fare satira di costume, raccontando gli aspetti più grotteschi della nostra società. Un esempio che faccio sempre è l’umorismo di South Park, che di certo non offre una visione edificante del mondo. È una pura scelta artistica; forse perché – come dice la mia amica e collega Romina Falconi – la felicità non la si racconta, la si vive. Così come la maggior parte delle canzoni d’amore raccontano di un conflitto, le mie parlano della società in termini critici.
Curiosità: il presidente del Mensa è Manuel Cuni o Immanuel Casto? Nel senso, tieni fortemente separati la persona dal personaggio, o il Casto Divo trova il modo di contaminare il mondo del Mensa allo stesso modo in cui l’acume di una delle persone più intelligenti d’Italia contamina la tua creatività nel mondo del pop? Più in generale, in qualità di presidente, quali sono la tua visione per l’associazione e il contributo particolare che intendi apportare?
Nel mio caso, mi piace pensare che la mia intelligenza si esprima in ambito artistico con l’originalità e l’umorismo. Dico sempre che non puoi risolvere un problema fino a quando non sei in grado di riderne. Gli aspetti di me stesso di cui non riesco a ridere mi fanno capire che sono quei lati su cui devo ancora lavorare molto.
Riguardo al Mensa, uno dei punti di forza dell’associazione è l’eterogeneità e i presidenti che si sono succeduti lo dimostrano. Abbiamo avuto informatici, accademici e – come nel mio caso – artisti. Premesso che non si tratta di un’associazione verticale, dove anzi cerchiamo di ispirarci all’ideale della tavola rotonda (da cui deriva il nome ‘Mensa’), chiunque si sia trovato alla guida ha avuto una sua visione.
La mia è quella di un luogo d’incontro e di confronto, dove trovarsi tra simili, idealmente uniti dalla volontà di rendere il mondo un posto un po’ migliore. Obiettivo perseguito facendo divulgazione, ispirando con le nostre pubblicazioni un pensiero complesso – in grado di abbracciare la realtà in tutte le sue sfaccettature – e sovvenzionando, con le nostre quote associative, progetti di ricerca e bandi universitari.
Recentemente hai diffuso online un video molto bello ed efficace in cui descrivi le fallacie logiche più comuni, insegnando a riconoscerle per evitare di cadere… in fallo. Sei d’accordo che l’intelligenza da sola non basti, ma che ci sia anche bisogno di un metodo nel pensare, per poterla chiamare “razionalità”?
Per risponderti in modo esaustivo dovremmo prima cercare di definirla quest’intelligenza, cosa che prenderebbe l’intero spazio dedicato all’intervista (vorrà dire che ne faremo una appositamente dedicata!). Diciamo però che il pensiero può essere sicuramente educato. Il video a cui ti riferisci parla sostanzialmente di tecniche di dibattito, a cui noi non veniamo educati, quando invece dovremmo, a partire dalla scuola dell’obbligo. Saper riconoscere le fallacie argomentative significa potersi difendere; smettere di essere vulnerabili alla propaganda spiccia. Attenzione però a mettere in contrapposizione razionalità ed emotività. Da persone razionali tendiamo a vedere nell’emotività un pericolo, anche perché in ambito politico si tende molto a strumentalizzarla. Tuttavia, negare l’importanza dell’emotività è controproducente, perché noi – in un certo senso – siamo fatti di emotività. Io vedo l’intelligenza logico-razionale come uno strumento, che sta poi all’emotività saper usare. Per questo dobbiamo anche educarci alla comprensione dell’emotività. Della nostra e di quella altrui. Negarne l’esistenza significa paradossalmente esserne in completa balia. Una persona razionale non è una persona priva di emotività (cosa impossibile), ma una persona emotivamente consapevole.
Sei anche un nemico giurato delle teorie della cospirazione, che “distruggi” col fuoco, in brani come Piromane, e con la satira, come in un tuo video sulle ricette mediche prescritte “democraticamente”. Come stiamo messi in Italia? Abbiamo a che fare con un popolo di anal-fabeti funzionali?
Sì. La situazione è drammatica. Però attenzione, da chi ha di più, io mi aspetto di più. Chi si ritiene intelligente ha una responsabilità nei confronti di questo abisso d’ignoranza. Complottismo e disinformazione prosperano in assenza di voci chiare e autorevoli interne alla leadership del paese.
Ci siamo divertiti per anni a condividere screenshot (veri o presunti) di gruppi Facebook o chat di WhatsApp che mostrano lo scarso livello d’intelligenza e/o scolarizzazione in determinate fasce demografiche. Ma per quanto mi riguarda il divertimento è finito. Dovremmo stare attentissimi a incentivare pratiche atte a polarizzare, perché gli stupidi sono molti di più. Dialogare, educare. Sono missioni quotidiane che dovremmo portare avanti nel modo più potente: dando l’esempio.
Personalmente vedo la soluzione sul lungo termine nell’istruzione. Mi auguro che in un futuro non troppo lontano agli studenti venga insegnato un uso consapevole dei social, educando a prassi come la verifica delle fonti.
Non solo in Italia, ma a livello globale, ovunque si assista all’affermarsi in politica del populismo, pare che l’intelligenza, lungi dall’essere considerata un valore o un asset nel proprio curriculum, sia diventata quasi un ostacolo alla carriera. Verrebbe da dire, parafrasando il testo di Escort 25, «Perché imparare a usare il congiuntivo, quando ti votano perché limoni un rosario?» Come analizzi questo fenomeno? Ed è una situazione frustrante per chi come te fa della promozione dell’intelligenza un impegno quotidiano?
Frustrante è un garbato eufemismo. È straziante. Tale Socrate, uno che oggi verrebbe deriso e chiamato “professorone”, diceva «io so di non sapere». Una delle frasi invece che sentiamo pronunciare più spesso dai leader populisti è «io non prendo lezioni da nessuno». L’intelligenza e la cultura vengono derise o apertamente osteggiate, considerate – bene che vada – inutili, ma più spesso addirittura pericolose. Sicuramente è più rassicurante un mondo binario, diviso tra buoni e cattivi.
Il gioco di carte da te ideato, Squillo, in cui i giocatori gestiscono un’attività di prostituzione e spaccio, ha dato vita a infiammate polemiche e perfino a un’interrogazione parlamentare. Secondo te questo caso è sintomo di un problema dell’Italia con la satira e con la libertà di espressione? In generale, date le tue tematiche, che rapporto hai con la censura?
Come detto all’inizio di questa intervista, ritengo fondamentale separare la realtà dalla finzione artistica. Operazione intellettuale che, a quanto pare, non tutti hanno la capacità (o la volontà?) di fare. Va anche distinto tra prodotti artistici che il pubblico si può ritrovare a subire passivamente (come nel caso di un palinsesto televisivo) e prodotti che vengono fruiti solo a fronte di una specifica volontà. È il caso dei miei giochi vietati ai minori, che nessuno è costretto a comprare.
In un contesto di finzione dichiarata e di fruizione volontaria, per me la libertà deve essere assoluta. Non sono invece contrario ai disclaimer, poiché trovo giusto avvisare che un determinato contenuto artistico possa risultare sgradevole, in base alla propria sensibilità. Soprattutto se il disclaimer è l’unica alternativa alla censura.
Le cose cambiano se dalla finzione ci spostiamo alla realtà. Le parole hanno un peso e delle conseguenze.
Riguardo alla satira, posso dire che si tratta di un argomento più complesso di quanto non sembri, perché si basa sull’esistenza di un doppio standard. Una stessa espressione (una battuta, una vignetta) si può configurare come satira o come bullismo, in base alla posizione in cui si trovano il soggetto che la formula e il soggetto che la subisce. La satira è uno strumento di lotta del debole verso il forte. A parti invertite non funziona. È quindi possibile fare satira su di un capo di stato, mentre non ha senso, per esempio, dire di voler fare satira sui genitori a cui è morto un figlio. Perché tale categoria non è in una posizione di potere.
Quello può essere al massimo humor nero, che personalmente apprezzo moltissimo, ma – consapevole che non sia per tutti i palati – preferisco relegarlo all’espressione artistica.
«Che bella la cappella», recita uno dei tuoi pezzi vintage più conosciuti. La religione, per Immanuel Casto, rappresenta puramente materiale a cui attingere per creare audaci double-entendre, o ha / ha avuto un ruolo concreto nella tua vita? E che ruolo dovrebbe avere secondo te la religione in un paese formalmente laico come l’Italia?
Io sono un ateo-agnostico. Non affermo con certezza che Dio non esista, ma non ritengo sensato credere nell’esistenza di qualcosa di cui non abbiamo nessuna prova. Questo esaurisce il ruolo della religione nella mia vita (quindi nullo). Sono stato a lungo anche antireligioso, ma ora non più. Ho conosciuto persone per cui la religione ha illuminato il cammino verso l’espressione del proprio potenziale. Da ateo non ne comprendo le modalità, ma riconosco il risultato finale. Da quando mi sono distaccato dal cattolicesimo, da adolescente, ho sempre visto la fede come una benda sugli occhi, che – per definizione – estingue le domande. Ma per quanto soddisfacente (torniamo al mondo binario di cui parlavo prima) è una generalizzazione ingiusta. E questo mi porta alla domanda sul ruolo che la religione dovrebbe avere nella politica. Uno stato religioso impone la religione (esempio: i totalitarismi islamici). Uno stato ateo la vieta. Uno stato laico (che per me è l’unica posizione ragionevole) non prende posizione e consente libertà di culto.
Poiché il nostro è uno stato laico e non ateo, nel dibattito politico la prospettiva religiosa è ammessa. È anche la voce di una nutrita comunità, che non sarebbe giusto ridurre al silenzio. Semplicemente, nel legiferare su qualcosa, non deve essere considerata ammissibile un’argomentazione unicamente sorretta da una dottrina religiosa; come avviene ad esempio in uno stato islamico, in cui si impone una legge con l’unica motivazione che «lo dice il Corano».
So che hai in cantiere un nuovo album. Online si legge che sarà più vario e politico. Ci regali uno sneak peek nei temi “politici” che andrai a toccare?
Molti dei temi li abbiamo affrontati in questa intervista. Non amo tantissimo spiegare l’arte, che andrebbe semplicemente ricevuta, ma si parla della riduzione a un pensiero binario, di fobie, di dipendenza affettiva, ma anche di accettazione e di fluidità sessuale. Senza scordare, in un brano intitolato Wasabi Shock, l’amore per il pesce in tutte le fogge.
Paolo Ferrarini
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«…Personalmente vedo la soluzione sul lungo termine nell’istruzione…»
La soluzione potrebbe arrivare anche sul breve termine, solo che si volesse smettere con quella perdita di tempo e di intelligenza che è l’insegnamento della religione.
È possibile che nessuno si occupi dei danni arrecati da questa prassi?
Nessuno riempirebbe di spam la memoria del proprio computer fino a renderlo inutile… allora perché permetterlo nella mente di ogni cittadino?
Non conosco l’attività del Mensa, ma spero che sia attiva in questo senso.