Zara Kay, è una attivista atea ex musulmana ventottenne, conosciuta per la critica all’integralismo religioso e per aver fondato il gruppo Faithless Hijabi. Un’organizzazione che si impegna in particolare per sostenere le donne che abbandonano la religione musulmana. Donne che spesso, senza una rete sociale, si ritrovano oggetto dello stigma da parte di comunità e famiglie di origine. Non solo: talvolta nei paesi occidentali rimangono nell’ombra, hanno poco ascolto persino da ambienti sulla carta progressisti ma più attenti alle rivendicazioni comunitariste e identitarie dei musulmani integralisti. Per questi motivi il lavoro di Kay è prezioso dal punto di vista dell’affermazione dei diritti e della laicità.
La storia personale di Kay è un ponte tra culture e al contempo un’esperienza di emancipazione. Nata in Tanzania da padre del paese e madre kenyota, è cresciuta in una famiglia musulmana conservatrice di confessione sciita, che le fa indossare l’hijab dall’età di otto anni. Durante l’adolescenza si allontana progressivamente dalla religione, fino a migrare maggiorenne in Australia dove si forma come ingegnere e acquisirà la cittadinanza. Negli ultimi anni si impegna a sostegno delle donne che, come lei, stanno facendo questo percorso di liberazione personale dall’oppressione religiosa musulmana.
La donna si è recata qualche settimana fa in Tanzania per visitare i parenti. Ma qui le autorità della Tanzania l’hanno sottoposta a lungo fermo presso una stazione di polizia a Dar es Salaam, rilasciandola dopo 32 ore su cauzione ma senza il passaporto. Il procedimento sembra essere giustificato da alcuni cavilli, come l’uso di una scheda sim non registrata e la mancata notifica dell’acquisizione della nuova cittadinanza australiana. Ma è fortissimo il sospetto che sia motivato tanto dalle sue critiche al presidente della Tanzania quanto dal suo attivismo laico-umanista, come hanno denunciato alcune organizzazioni che stanno seguendo le vicende.
Zara Kay ha infatti espresso sui social delle osservazioni satiriche sul capo di stato del paese africano, John Magufuli, per la gestione dell’epidemia di coronavirus. Nei mesi scorsi infatti il presidente, un integralista cattolico in un paese a maggioranza musulmana e noto per le restrizioni sui diritti e l’attacco a categorie come le persone lgbt, aveva proclamato che il virus era stato sconfitto “grazie a dio” e invitato alla preghiera. Durante l’interrogatorio la polizia ha anche chiesto a Kay dettagli sul suo attivismo e sui motivi che l’hanno portata ad abbandonare l’islam, a denotare un orientamento pro-confessionale delle autorità. Come avvenuto non poche volte in passato, anche in questo caso l’accusa pesante di aver offeso la religione diventa uno strumento per colpire oppositori politici o persone scomode per le autorità.
Le associazioni laico-umaniste nel mondo sono intervenute per sensibilizzare sul caso e per garantire a Zara Kay una piena libertà di movimento e il rispetto dei suoi diritti. La International Coalition of Ex-Muslims si è appellata al governo della Tanzania per far cadere la accuse, evidenziando come – almeno formalmente – la costituzione del paese affermi i principi di laicità e libertà di espressione e coscienza. Ci uniamo agli appelli per l’effettiva liberazione di Kay e per sollecitare anche le ambasciate dei vari paesi. La ritrovata libertà sarebbe una bella dimostrazione del fatto che certi principi scritti sulla carta trovano una concreta attuazione in Tanzania. Anche per i non credenti.
Valentino Salvatore
“il presidente, un integralista cattolico in un paese a maggioranza musulmana”
Ecco un bell’esempio di dialogo interreligioso!
Perchè è tornata a casa? Queste persone preziose non devono rischiare la vita tornando nell’inferno.
Per lo stesso motivo perché ci sono tornato anch’io a Natale. Gli affetti.
Sei tornato in Tanzania? Follia ti prese.
Mi sono espresso male. Intendevo che è tornata a casa per lo stesso motivo per cui ci sono tornato anch’io. Per gli affetti. Ovviamente non in Tanzania. 😂