Uno spettro – anzi, due – si aggirano per l’Italia, promettendo di combattere il sessismo della “lingua di Dante”: l’asterisco e lo schwa (/ə/). A volte se ne aggiunge un terzo, la terminazione in “u”. O invece si fonde la desinenza del maschile e quella del femminile dando vita alla desinenza “-ie”. Ma a cosa servono questi congegni? E come si dovrebbero usare? La questione è più complessa di quanto possa apparire e, nel perseguire la causa nobile dell’inclusività (realizzabile peraltro con strumenti linguistici propri della lingua italiana), si producono spesso risultati discutibili.
Iniziamo dal primo simbolo: l’asterisco. Questo simbolo grafico non ha bisogno di introduzione: segnala al lettore che manca un’informazione e lo invita a cercarla a fondo pagina o da qualche altra parte nel testo. E per questo scopo è stato impiegato finché non si è iniziato ad adibirlo a desinenza di neutro: si lascia così uno spazio vuoto da riempire con la desinenza che si preferisce. Una soluzione fai-da-te che però presenta non pochi problemi: nell’anarchia dei social network, sono comparsi ovunque enunciati impronunciabili come “Tutt* gl* [o addirittura “*l*”] amic* di Maria sono bell*” che lasciano il lettore perplesso e spaesato. L’italiano è per definizione la lingua delle terminazioni vocaliche e le parole che terminano in consonante sono più uniche che rare. Via quindi l’asterisco, avanti con lo schwa: una semivocale con un suono intermedio tra la “a” e la “e”, poco conosciuta dagli italiani. Non per loro negligenza: l’italiano standard non la prevede. Semmai viene prodotta involontariamente quando si tossisce, ma nessuna parola dell’italiano richiede dei colpi di tosse per essere pronunciata. L’inglese ne fa invece grande uso, mentre il tedesco e l’arabo prevedono anche il ‘colpo di glottide’ (che assomiglia effettivamente ad un colpo di tosse). Estranea all’italiano o meno, la schwa è però sembrata a molti una soluzione convincente e migliore del neutro in -u. Ci voleva poco, a dire il vero: la quantità di -u che veniva fuori era elevatissima, e ne uscivano frasi dal suono lugubre e lamentoso, ben lontane dalla musicalità che invece caratterizza l’italiano. Ad un certo punto, alcune case editrici hanno quindi iniziato a pubblicare libri dove compare la schwa al posto del maschile generico, concepito come un retaggio sessista e patriarcale. Ecce homo – o meglio, ecce neutrum.
Ma siamo così sicuri che in Italiano non ci sia il neutro? Perché in realtà c’è, anche se non si vede. Succede qualcosa di simile con il soggetto: se non è espresso, è perché si può ricavare dal contesto ed è quindi sottointeso, ma non di certo inesistente. In linguistica il fatto che qualcosa non si vede non vuol dire che non esiste, caratteristica in cui questa scienza è molto simile alla religione. Ci sono però molte prove che il neutro esiste, a differenza delle oltre centomila divinità venerate oggi in ogni angolo del mondo. Il maschile italiano deriva dalla fusione (in termini tecnici, sincretismo) del neutro e del maschile latino: i due generi erano talmente simili che l’italiano ha preferito accorparli. E così il maschile lupus perse, oltre al pelo, il brutto vizio di avere la consonante finale, e vide la sua -u passare ad -o diventando lupo, esattamente come il neutro digitum (dito). In questo modo l’italiano – per una volta – ha semplificato la vita ai suoi utenti, già alle prese – e spesso con pessimi risultati – con un sistema verbale molto complesso. Di relitti del neutro latino (che al plurale aveva desinenza -a ) l’italiano è pieno ancora oggi: di sicuro a qualcuno di noi avranno fatto male le ginocchia (e non i ginocchi ) o saranno cadute le uova (e non gli uovi ) a terra. Piccoli inconvenienti che dimostrano che in italiano il neutro esiste, e coincide nella forma con il maschile. Quindi, da un punto di vista meramente linguistico, non c’è alcun motivo di inventarne uno.
Alla base della necessità di non esplicitare il genere ci sono due supposizioni di base. Da un lato, l’idea che una lingua senza genere sia più rispettosa dell’identità altrui. Dall’altro, la deduzione che da una lingua ‘premurosa’ scaturisca una società inclusiva. Si finisce così per fare previsioni che vengono spesso disattese. L’ungherese è una lingua “gender-free” per eccellenza, priva di genere persino nei pronomi. leggendo un romanzo possiamo quindi assegnare ai personaggi il genere che vogliamo, o non assegnarglielo affatto. Chiunque definisca l’Ungheria una nazione inclusiva verrebbe però considerato folle. In piena pandemia, il governo ha approfittato dei pieni poteri conferiti dal Parlamento per mutilare i diritti delle persone transgender, Viktor Orban ha inoltre ritirato il paese dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere per contrastare la diffusione dell’”ideologia gender”, e aggiunto nella Costituzione un articolo che vieta esplicitamente le adozioni omosessuali, (uno dei più accaniti oppositori delle famiglie arcobaleno è stato poi sgamato su una grondaia del centro di Bruxelles mentre fuggiva da un’orgia gay, con sommo imbarazzo del presidente ungherese).
Se si osserva la Finlandia, la situazione cambia e le previsioni sembrano invece essere confermate. Il finlandese, lingua ugro-finnica come l’ungherese, è anch’esso privo di genere grammaticale; la Finlandia è inoltre un paese molto avanzato sul fronte dei diritti civili. Questo dato, però, non conferma che ad una lingua considerata inclusiva corrisponda una società inclusiva. Né che la prima sia un presupposto della seconda: se così fosse, ogni comunità linguistica che non marca il genere dovrebbe costituire una società aperta e progressista. Viceversa, dove si parla una lingua dalla grammatica ritenuta poco inclusiva dovremmo aspettarci una società estremamente chiusa.
In un’ipotetica partita di calcio ‘inclusivi’ vs. ‘non inclusivi’ verrebbero allora fuori degli schieramenti molto improbabili. Nella squadra degli ‘inclusivi’ troveremmo quindi nazioni effettivamente progressiste come la Finlandia e la Svezia, affiancate però da compagni di squadra come l’Ungheria, la Turchia e persino l’Iran. E nella squadra dei ‘non inclusivi’ troveremmo paradossalmente nazioni come il Portogallo, la Spagna e la Francia, nazioni che invece si classificano ai primi posti da anni per inclusività, parità di genere e diritti LGBT. La sfida dell’inclusività, insomma, è importante: affrontarla cimentandosi nella decostruzione della lingua, nella speranza di abbattere anche i dogmi e i retaggi sessisti ed omobitransfobici, potrebbe rivelarsi uno sforzo inutile. E si potrebbe finire per delegittimare la lotta per l’affermazione dei diritti universali. Il rischio peggiore e più concreto è quello di offrire il fianco alle bordate dei fondamentalisti religiosi e degli ultraconservatori, che dipingerebbero i movimenti che portano avanti anche – ma non solo – queste lotte come infantili e le loro rivendicazioni come capricci. Per il progresso vero, forse, abbiamo bisogno di altro (o altr*?).
Simone Morganti
Una lingua non si forma dall’oggi al domani e non si costruisce a tavolino. In effetti in varie lingue sono evidenti i retaggi del maschilismo. Si pensi, ad esempio, alle concordanze: se un aggettivo è attribuito a più sostantivi di genere diverso, la grammatica prevede che vada declinato al maschile. Peraltro andrebbe distinto il genere grammaticale dal sesso: la recluta, almeno fino a pochi anni fa, era un uomo, il soprano una donna. Inoltre va sempre tenuto presente che vi è una certa arbitrarietà del segno linguistico: ad esempio in italiano “sole” è grammaticalmente maschile, “luna” femminile, mentre in altre lingue (ad esempio, se non mi sbaglio, il tedesco) è esattamente l’opposto. Per quanto riguarda le lingue indoeuropee, secondo F. VILLAR, ” Gli indoeuropei e la origini dell’Europa”, originariamente la differenza non era tra genere maschile e femminile, ma tra genere animato e inanimato: quando era necessario distinguere il sesso tra individui della medesima specie, si usavano due parole diverse, tipo uomo/donna, maiale/scrofa, pecora/montone. Di questa più antica distinzione potremmo trovare traccia anche nelle declinazioni latine e greche (es. terza declinazione latina, al nominativo plurale ha la desinenza -es per maschile e femminile, -a per il neutro). Quindi dilungarsi su certe quisquilie sull’uso del genere grammaticale significa non avere cose più serie a cui pensare.
L’unico punto che si salva nell’articolo è quello “meramente linguistico”… che peraltro non esiste perché di paradigmi linguistici ve ne sono a zeffunnə. Sotto questo cielo è stranoto che il sole/die Sonne e la luna/der Mond sono di vario genere; che esistono singolari e plurali sovrabbondanti; che populus è femməna ed è diventata pioppo maschile in italiano. Ma che c’entra tutto questo?
Si confronti l’autore dell’articolo con altri testi facilmente a disposizione in rete.
Molto interessanti le notizie sull’Indoeuropeo. Non si finisce mai di imparare.
L’articolo è un lungo straw man argument* contro una posizione che nessunə ha mai sostenuto**, oppure è talmente sconosciuta che è praticamente estranea al dibattito. La brutta china*** in fondo puzza di respectability politics. **** L’autore e l’associazione hanno progetti di egemonia per la società? Se è troppo chiedere solidarietà, possono intraprendere quei progetti anche senza dissociarsi da istanze di emancipazione e da soggettività non riconosciute nel discorso pubblico (in tutti i sensi).
* https://it.wikipedia.org/wiki/Argomento_fantoccio
** se si legge velocemente la vocale non si sente
*** https://it.wikipedia.org/wiki/Fallacia_della_brutta_china
**** https://en.wikipedia.org/wiki/Respectability_politics
***** oh quanti begli asterischi in nota
Dioram*, non hai contestato nello specifico una singola riga dell’articolo. Potevi dire semplicemnte che _secondo te_ si tratterebbe di una congerie di cazzat*/figat*.
Perché dovrei citarti l’articolo intero. Se leggi i link capisci a cosa mi riferisco. Visto che ci tieni:
– “Alla base della necessità di non esplicitare il genere ci sono due supposizioni di base. Da un lato, l’idea che una lingua senza genere sia più rispettosa dell’identità altrui. Dall’altro, la deduzione che da una lingua ‘premurosa’ scaturisca una società inclusiva.” -> argometo fantoccio
– “affrontar[e la sfida dell’inclusività] cimentandosi nella decostruzione della lingua […] potrebbe rivelarsi uno sforzo inutile[, ] si potrebbe finire per delegittimare la lotta per l’affermazione dei diritti universali[, ] [c’è il rishio di] offrire il fianco alle bordate dei fondamentalisti religiosi e degli ultraconservatori, che dipingerebbero i movimenti che portano avanti anche – ma non solo – queste lotte come infantili e le loro rivendicazioni come capricci.” -> respectability politics)
– “Per il progresso vero, forse, abbiamo bisogno di altro (o altr*?).” -> benaltrismo
diorama, rispondere citando link a fallacie logiche non è argomentare, è al contrario rifiutarsi di argomentare. Le fallacie logiche spesso vengono tirate fuori in modo pretestuoso, quando appunto non vengono argomentate. Inoltre il tono stizzito della tua risposta denota solo che hai un nervo scoperto: posizione puramente ideologica.
Mauritius. Se n’è scritto in lungo e in largo, ma l’articolo è al livello della pubblicistica.
C’è qualche gruppo di rilevanza politica che sostiene quelle posizioni contro cui argomenta l’autore? L’onere della prova è mio se gli argomenti sono fantoccio? Non si dimostra l’inesistente.
Il tema politico (e quindi ideologico) dietro lo scritto è marcare le distanze. “No, mica siamo come quelli che vogliono l’asterisco, noi facciamo proposte di buonsenso”. Di questo si tratta. Di cingersi di un tono di rispettabilità per mascherare l’approccio ideologico. Me lo rivendico il tono stizzito, fuor di ideologia.
Concordo con Diorama, oltretutto trovo la fallacia logica, che è anche l’argomentazione centrale dell’articolo, quasi imbarazzante per persone che sbandierano essere razionali.
“Da un lato, l’idea che una lingua senza genere sia più rispettosa dell’identità altrui. Dall’altro, la deduzione che da una lingua ‘premurosa’ scaturisca una società inclusiva”, sulla prima parte niente da dire: avere una lingua gender-free È più rispettosa dell’identità altrui dato che si sorpassa la dicotomia di genere e l’assunzione del genere in base alle apparenze. La seconda parte è la fallacia logica che dicevo prima (a me sa tanto di reductio ad absurdum): nessuno crede che la lingua gender-free sia la bacchetta magica che rende società estremamente sessiste (tra cui quelle citate) inclusive e più giuste (quindi la situazione ungherese non è così sorprendente, visto che è frutto di determinate -e folli- politiche). La lingua più inclusiva è vista come uno step necessario per completare l’uguaglianza di genere, ma presuppone una società già aperta in quel senso (anche se può aiutare a costruire una società più giusta e a superare barriere mentali, visto che il maschile come neutro è stato dimostrato che non funziona).
A me sembra che una evidente fallacia logica, parimenti imbarazzante, sia il frequente ricorso al “tu dici di essere razionale, ma siccome non la pensi come me significa che millanti solo di esserlo”. Per il resto, francamente mi sfugge come il problema della lingua non gender free possa essere risolto a colpi di improbabili vocali e assurdi asterischi. Quasi preferisco (si fa per dire) il lessico da social network pieno di k e abbreviazioni da codice fiscale 🙂
Da quando ha saputo che esiste una ministra dell’istruzione, il mio dentisto e il mio pediatro han cambiato targhetta, così come il guardio giurato che era di sentinello…
Magari poi troviamo il tempo di occuparci di faccende un pochino più serie.
qualunquisto
Se è una battuta per restare in tema, okay. Se è una critica non la accetto. Io mi ritengo una persona pragmatica (e non un persono pragmatico), e poco mi frega se un lemma termina in -a oppure in -o, in -ente piuttosto che -entessa. Li vedo tutti artifici retorici che fungono da strumenti di distrazione da problemi più concreti.
Un chirurgo resta tale, che porti la gonna o i pantaloni. A me interessa che operi bene e poco altro.
Da questo punto di vista invidio l’inglese dove ogni sostantivo è preceduto da “the” (sic et simpliciter). Chissà poi perché dovremmo assegnare un genere sessuale a parole, cose e concetti che col sesso nulla hanno a che fare: “il” tavolo e “la” sedia, “il” treno e “la” nave, “il” cielo e “la” nuvola.
Il Presidente, il Ministro e il Sindaco sono figure, non vedo ragione di perdere tempo ad arrovellarci sulle desinenze.
Se questo pare qualunquismo, auguri.
La prima che hai detto
😁👍
Si potrebbero fare anche altri esempi. Ricordo di una professoressa che pretese e ottenne che in tutti gli atti della scuola si scrivesse “i/le docenti” o “gli studenti e le studentesse”. Poi quella medesima insegnante lamentava come un segno del declino della scuola in cui insegnava (un liceo classico) il fatto che fosse frequentata al 70% da ragazze. Coerenza del politicamente corretto!
Il problema per me esiste e ho trovato interessante l’articolo e soprattutto che se ne parli in un blog che fa della laicità la sua bandiera.
Che esista il problema : sindaco, sindaca o sindachessa? ecc. ecc. mi pare ovvio;
che si debba superarlo altrettanto.
Così come a me pare che, nella nostra meravigliosa lingua: forse l’unica che si scrive così come si legge e che si sta cercando di storpiare ogni giorno di più, manchi qualche accento e siamo costretti con la mente ad andare al contesto; ma non sempre per chi legge e non appartiene a classi elevate, può farlo con facilità. Da questo punto di vista è una lingua classista.
Ci vorrà tempo.
Attenzione: ci sono due questioni completamente diverse. Una è quella che riguarda l’utilizzo di appellativi o aggettivi che superino un’impostazione della lingua orientata al maschile, come appunto sindaco/sindaca e altre cose simili. Un’altra, quella di cui parla l’articolo, è l’uso di artifici grafici, come l’asterisco o la vocale u, che non risolvono il problema ma ne introducono un altro di stile. La prima è condivisibile, la seconda a mio avviso no perché deturpa semplicemente la lingua.
Non preoccupiamoci: ancora un paio d’anni di covid e i pochi superstiti parleranno solo un idioma fatto di sigle, termini demenziali originati dal mondo digitale, il 50% dei titoli dei film lasciati in inglese e congiuntivo fantozziano. Elenco da completare a piacere.
I più raffinati continueranno a inondare le loro prose con ‘d’ eufoniche a vanvera.
Ed questo è tutt*! 😝
Mi dispiace ma non sono proprio d’accordo non solo con l’articolo in sé ma con il pensiero che c’è alla radice: un uomo, dall’alto della sua posizione privilegiata, scrive di un argomento che riguarda le donne e chi non si riconosce nel sistema binario, sminuendo un problema e un tentativo di soluzione al problema che appunto non lo riguardano se non per il potenziale sforzo di doversi adattarsi a qualcosa di diverso. Un pò come i bianchi che pretendono di spiegare alle minoranze da cosa devono o non devono sentirsi offesi o come gli eterosessuali che liquidano l’agenda LGBTQIA* come non prioritaria per il paese. È troppo facile parlare quando le discriminazioni non si subiscono sulla propria pelle!
Mah, intanto si dovrebbe dare per certo che ci sia una discriminazione subita sulla propria pelle per via della struttura della lingua, e personalmente sono convinto che i problemi delle minoranze, siano esse donne o lgbt, non dipendano affatto dalla lingua ma da impostazioni culturali. Infatti l’articolo fa vedere che laddove vi sono lingue con genere neutro, o senza genere affatto, i problemi possono essere perfino maggiori. In secondo luogo l’idea che solo la minoranza di turno possa esprimersi su tali questioni è sempicemente irragionevole: io sono etero e maschio, per questo non dovrei avere voce in capitolo? Eppure spessissimo ci si lamenta proprio del contrario, e cioè che i maschi si sentono poco sulle questioni femminili e che gli etero sono assenti quando si parla di diritti lgbt. Ah, ma forse sono ammessi a parlare solo se dicono quello che si desidera dicano. Assurdo.
Che il maschile abbia la precedenza sul femminile è una discriminazione, visto che favorisce un genere invece che l’altro. Il fatto che lei non la reputi importante non significa che non sia tale. In questo articolo manca completamente la prospettiva di chi questa discriminazione la subisce, non sono stati riportati studi, articoli o interviste di donne o persone non binarie, mostrando solo l’opinione di qualcuno che non è direttamente coinvolto nel problema, e il fatto che lei protesti sul diritto di esprimere la sua opinione su un argomento che non la coinvolge personalmente invece che accorgersi prima di tutto che manca l’opinione delle dirette interessate, la dice lunga. L’argomento usato che l’ungherese è una lingua gender-free ma Orban è un dittatore psicopatico, non ha alcun senso. L’esistenza del neutro in una lingua o di una maggiore/minore facilità nel rendere una parola neutra è uno sviluppo del tutto casuale. Anche la scomparsa del neutro in favore del maschile in italiano possiamo farla passare come casuale (e ci sarebbe da parlarne), ma non cambia il fatto che comporta una discriminazione: è come chiedersi se prima di tutto, la parola “negro” sia davvero un insulto visto che deriva semplicemente dalla parola latina per il colore nero; è un fatto che non si può certo negare, ma questo non significa che sia giusto continuare ad usarla, né che un bianco possa fare lezione ad una persona di colore se il suo uso sia discriminatorio o meno!
Ora, io sono piuttosto sicura che si sia trattato solo di superficialità da parte dell’autore e non di reale sessismo, come sono sicura che non si permetterebbe mai di disquisire in un articolo se chiamare i cinesi “involtino primavera” sia davvero una cosa brutta, visto che gli involtini primavera sono deliziosi, certamente non senza chiedere l’opinione di almeno una persona di nazionalità cinese. A questo punto però vorrei che l’autore e i lettori riflettessero sul perchè simili scrupoli non siano scattati anche per un problema che riguarda le donne e nel sessismo implicito di questa approccio.
Poi ci chiediamo come mai succeda che commissioni chiamate a decisere su aborto e salute riproduttiva femminile siano interamente composte da uomini!
Romy: «Poi ci chiediamo come mai succeda che commissioni chiamate a decisere su aborto e salute riproduttiva femminile siano interamente composte da uomini».
Se mi è possibile, a parte tutto, prendo spunto da questa frase e lascio un invito a fare un passo più in là, a metter la questione a fuoco sulla consistenza argomentativa e politica dell’articolo.
Anche solo nel regno delle possibilità, l’articolo finisce attribuendo a queste istanze – dipinte come infantili e capricciose da fondamentalisti religiosi e conservatori – la responsabilità di una «delegittima[zione del]la lotta per l’affermazione dei diritti universali». Sottotesto, scritto in maniera potabile: se siamo a questo punto è anche un po’ “colpa” vostra coi vostri asterischi se la commissione sull’aborto è solo fatta di uomini.
Ci sono ragioni programmatiche nell’adottare questo approccio (non è la prima volta sul blog UAAR) e urge metterle in critica.
@Romy Ma guarda che l’articolo il problema del maschile vs femminile non lo affronta affatto. Fin dal titolo l’autore si focalizza su asterischi e compagnia varia, che NON sono la stessa cosa della declinazione di genere di sostantivi e aggettivi vari ma sono besì un obbrobrio. Di fatto si rende orrenda una delle lingue più belle del mondo e a che pro? Ne vale veramente la pena? Per me no.
Tutt’altra cosa è parlare di _evoluzione_ della lingua, come ad esempio nell’uso di sostantivi femminlizzati. Quella è appunto evoluzione, tant’è che se ne parla soprattutto in contesti di linguistica a partire dalla crusca. Gli asterischi non sono evoluzione, sono al limite una involuzione, una decostruzione. Una cosa orrenda.
Neanche a farlo apposta è uscita una polemica dul direttore d’orchestra donna che preferisce essere chiamata, appunto, direttore e non direttrice o direttora: https://www.huffingtonpost.it/entry/beatrice-venezi-a-sanremo-direttrice-dorchestra-no-chiamatemi-direttore_it_6042c164c5b69078ac6b2257
Ovviamente la polemica è scoppiata *nonostante* la signora sia appartenente alla categoria che si vuole discriminata dalla lingua, il che la dice lunga su quanto sia pretestuoso richiamarsi al principio che le maggioranze non possono capire le minoranze, al quale segue quello secondo cui non sei razionale se la pensi diversamente da me B-)
Per quanto mi riguarda non mi frega nulla di come vuole essere chiamata la signora. Mi sta bene qualunque cosa che non siano nomi asteriscati o simili. Dovremmo tutti cominciare a rispettare le persone anche riguardo alle loro preferenze, valevoli per loro e non universalmente. E prenderci un po’ (tanto) meno sul serio.
Sicuramente l’autore avrebbe potuto “investire” quel privilegio nella comprensione dei motivi che sono dietro a queste istanze, invece di dipingerle con “supposizioni” in modo del tutto funzionali alle sue controargomentazioni. Ma questa secondo me è una critica base al testo, che non coglie la specificità del discorso politico in seno a questa corrente “laico umanista” che mira a «rappresentare gli atei e gli agnostici e le loro idee».
Appunto, quali idee? Un’idea di fare politica – la politica della rispettabilità, appunto – che pur di inseguire i propri progetti di egemonia nella società mette le proprie istanze di emancipazione contro le altre, prendendone le distanze. E su questo blog non è il primo articolo né sarà l’ultimo articolo in cui si riconosce questo approccio, per me strategicamente perdente.
Quando l’autore scrive che «si offr[e] il fianco alle bordate dei fondamentalisti religiosi e degli ultraconservatori, che dipingerebbero i movimenti che portano avanti anche – ma non solo – queste lotte come infantili e le loro rivendicazioni come capricci» assume per sé gli stessi stereotipi dei fondamentalisti, riproducendoli, invece di denunciarne la strumentalità.
Lo hai spiegato benissimo, Diorama. Quale sarà il prossimo articolo, uomini che ci dicono di smetterla di lamentarci dei dolori mestruali che non hanno mai provato, perché altrimenti daremo un’arma ai maschi per continuare a discriminarci? Eterosessuali che dicono agli omosessuali di smetterla di fissarsi su una parola, perché dopotutto ora possono avere una vita quasi normale se stanno zitti e buoni in un angolino? E’ a causa di questo tipo di retorica che le sanguisughe religiose e integraliste ci salassano ancora dopo secoli.
In paesi più evoluti come quelli nordici, questo argomento è stato sviscerato da ogni possibile punto di vista ancora e ancora, specialmente nel contesto accademico, non è una novità. Il punto non è l’opinione espressa ma la monodirezionalità e la superficialità dimostrata nell’affrontare una questione senza minimamente citare la posizione di chi vi è direttamente coinvolto e soprattutto senza citare l’importanza stessa del mettere in discussione tutto, senza risparmiare un’usanza per il semplice fatto che sia un’usanza!
Se qualcosa è discriminatorio, è discriminatorio punto. Classificare discriminazioni e abusi in base all’importanza attribuitagli è una delle peggiori disgrazie della società.
Non si può affrontare il “macro” senza prima affrontare il “micro”: tra le primissime cose che una bambina impara c’è che se in un gruppo di dieci bambini, 8 sono femmine e 2 maschi, si usa il maschile per definirli. Questo non le fa del male fisicamente e magari non corrisponde ad una discriminazione materiale, ma è una lezione che si imprimerà nel suo cervello, insieme ad un milione di piccole altre cose che messe insieme costituiranno quella sorta di accettazione inconscia che tante donne si portano dietro, del fatto che una femmina abbia meno importanza di un maschio. Non ci sono questioni più importanti da affrontare, si affrontano le questioni che ci sono e basta, ma di sicuro in una questione che riguarda le donne, non può essere un uomo che definisce se essa sia grave o meno, né che spiega loro quali siano le battaglie che devono combattere, perché questo, a prescindere dalle buone intenzioni, è al limite del mansplaining.
Ovviamente chiunque può esprimere un’opinione, ma quando si tratta di qualcosa che non ci riguarda direttamente, sarebbe opportuno andarci piano con i giudizi, soprattutto quando non ci si preoccupa di citare la campana principale o nessun’altra campana, se è per questo.
Ti ringrazio per il chiarimento che trovo veramente interessante. Evidentemente non avevo capito tutto.
Era rivolto ha Mauritius.