L’esternalizzazione di servizi pubblici su enti terzi non è tema di competenza delle associazioni laiche. O meglio, lo è soltanto quando gli enti terzi hanno un carattere religioso. Il fenomeno, da noi, è tuttavia così frequente da portarci a pensare che sia un problema tipicamente italiano. Peraltro, non sono pochi quelli che ritengono che non sia nemmeno un problema, «perché la Caritas fa del bene». Dipende come e a chi. In ogni caso, anche all’estero troviamo situazioni simili.
Nel Regno Unito, per esempio. Dove negli anni scorsi l’intergruppo parlamentare che si occupa di “fede e società” ha redatto e promosso un faith covenant che individua le buone pratiche a cui dovrebbero attenersi i gruppi religiosi quando erogano servizi pubblici, al fine di evitare potenziali conflitti di interesse e discriminazioni nei confronti di fruitori “sgraditi”. Uno dei punti centrali era il divieto di proselitismo verso chi la pensa diversamente – e magari è persino demonizzato, come può capitare agli atei e/o alle persone Lgbt+. Tale divieto, ad alcuni gruppi religiosi, non andava però proprio giù. Risultato: l’intergruppo ha silenziosamente rimosso dalle linee-guida il passaggio sul proselitismo.
I nostri amici della National Secular Society hanno prontamente denunciato il caso, ricordando che, «quando si forniscono servizi al pubblico, la priorità dovrebbe essere il benessere e la dignità del cittadino – e non gli obiettivi missionari dei gruppi religiosi». Anche perché gli assistiti, vivendo nel bisogno, spesso pensano di non avere alcuna concreta possibilità di rifiutare (per esempio) la partecipazione a gruppi di preghiera.
È il medesimo problema che, su scala più ampia, riscontriamo in Italia. La Caritas, che non brilla per la trasparenza dei suoi bilanci, è “organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana” (corsivo mio). Anche scorrendo lo statuto si può notare come la dottrina sia ritenuta più importante di tutto il resto: qualche obiezione sulla coerenza etica si potrebbe quindi opporre. Ciononostante, pressoché ovunque l’assistenza sociale dei Comuni è stata devoluta al mondo cattolico, insieme ai relativi stanziamenti. Le Caritas locali mettono effettivamente a disposizione beni di prima necessità: ma il povero non cattolico è costretto a rivolgersi alla parrocchia, e deve quindi sperare di non essere oggetto di “attenzioni” proselitiste. Non c’è ovviamente possibilità di dimostrare che ciò accada, vista la situazione. Ma resta una situazione imbarazzante per i bisognosi: nessun imbarazzo, invece, per le amministrazioni locali che l’hanno creata.
È sin troppo facile fare del bene con i soldi altrui: se di carità si tratta, dunque, si tratta di carità pelosa. La soluzione, ovviamente, può essere soltanto una: non esternalizzare mai servizi pubblici su gruppi religiosi, a maggior ragione quando è accompagnata dall’erogazione di contributi statali o locali. In nome della sussidiarietà, ormai un dogma della chiesa cattolica, l’intera classe politica italiana sembra purtroppo aver scelto la strada diametralmente opposta.
Raffaele Carcano
La caritas promuove anche progetti “didattici” per gli alunni della scuola primaria e, a detta di molte colleghe, sono bellissimi!!! Così coinvolgenti!!!
Già, posso solo immaginare…
Leggendo l’articolo mi sono ricordato di un tipo, conosciuto molti anni fa, che scroccava soldi a destra e a manca, poi offriva il caffè, pagando ovviamente molto meno rispetto a quanto aveva incassato.
Mai sentito di qualcuno al quale è stata chiesta l’appartenenza (o meno) religiosa quando si rivolge ai servizi della Caritas, della Società Umanitaria, alla Pane Quotidiano di Milano. Me l’immagino, poi, l’impiegato dei servizi sociali municipali che fornisce servizi a persone presenti illegalmente sul territorio nazionale…
Ma è legale che lo Stato deleghi certe incombenze a organizzazioni che non hanno altro ‘merito’
che non sia quello di essere un’emanazione della chiesa?
Lo Stato deve gestire in proprio ogni servizio per il quale riscuote le tasse. Beneficenza compresa.
Qualsiasi prestazione lavorativa deve essere retribuita. Quindi non dovrebbe esistere nessun
volontariato a tempo pieno, perché alla fine paga sempre lo Stato. E chi riscuote il denaro non
è sempre chi ha prestato il suo tempo e il suo lavoro. Come per qualsiasi lavoro pubblico anche
l’assistenza deve essere affidata su concorso, alla luce del giorno.
@ Giannino
Credo sia vero che a chi beneficia delle prestazioni della Caritas e di altre associazioni simili non si chiede l’appartenenza religiosa (o non), tuttavia è altrettanto vero che, grazie all’appalto della beneficienza, la Chiesa ha presso la povera gente un ritorno d’immagine ben superiore ai suoi meriti reali, visto che aiuta i bisognosi in larga misura con i soldi dei cittadini e non con i propri.
Che è il principio della carità pelosa di cui si parla nell’articolo.
Puro marketing: discriminare tra i vari credo li può solo danneggiare.
Fanno la figura di quelli buonissimi e che rappresentano tutti.
E alla fine riescono a mangiare nel piatto di tutti. Ma non tutti mangiano nel piatto della chiesa.
Infatti, Emperor, sono pronto a scommettere che non gli arrecasse danno, lo farebbero…
E non è neanche detto che non sia mai successo, in qualche occasione da qualche parte. Magari non in Italia.