Il fotoreporter e blogger iraniano Soheil Arabi, imprigionato con l’accusa di aver insultato il profeta dell’islam nei suoi post, parla della dura esperienza in carcere e delle condizioni dei prigionieri politici in Iran. Lo ha intervistato l’esule e attivista laica iraniana Maryam Namazie: la testimonianza sul numero 6/22 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Nel novembre del 2013, Soheil Arabi, fotoreporter e blogger iraniano classe 1985, viene arrestato a Teheran dal Corpo delle guardie della rivoluzione islamica. È accusato di avere insultato il profeta dell’islam in alcuni suoi post, reato che merita una punizione esemplare.
Dopo quasi un anno di carcere e una confessione strappata con la coercizione, nell’estate del 2014 viene condannato a morte, pena commutata l’anno dopo solo grazie alla risonanza mediatica del suo caso, che riesce a smuovere la comunità internazionale. Sconta comunque otto anni. Lo scorso agosto, l’attivista Maryam Namazie lo ha contattato telefonicamente nella remota cittadina di Borazjan dove, anche dopo la scarcerazione, è costretto a passare due anni in esilio interno.
Soheil Arabi, è un onore poterti parlare. Hai scontato otto anni in carcere per il reato di apostasia, libertà di pensiero e per aver difeso pubblicamente alcuni prigionieri politici. Ora sei costretto a vivere in esilio interno in Iran. Puoi parlarci della tua situazione, e di quella di tua madre, che coraggiosamente ha fatto campagne in tuo favore?
Salve, anche per me è un grande piacere parlare con voi. Vorrei subito ricordare che qui in Iran i liberi pensatori e i dissidenti in qualche modo sono tutti prigionieri, e tutti subiscono torture. Non è necessario che una sala delle torture abbia scritto “prigione” sul cancello, perché anche fuori, fin dal primo istante in cui uno si dichiara ateo è soggetto a pesanti maltrattamenti da parte della famiglia, della scuola, della società in generale. Non appena iniziamo a esprimere le nostre opinioni, le torture e le condanne sono assicurate.
Quindi i miei otto anni di prigione non hanno cambiato la sostanza di ciò che ho subito nella mia vita di ateo: solo la forma. Per quanto riguarda mia madre, è stata condannata per avermi difeso ed è recentemente stata portata in carcere anche lei, nonostante i suoi gravi problemi di salute. Già alla notizia della mia condanna a morte aveva avuto un infarto, e ultimamente è stata colpita da un’emorragia cerebrale dopo essere stata convocata per l’ennesima volta a testimoniare. Purtroppo, fare pressioni sulle famiglie dei prigionieri politici è diventata parte integrante del modo di torturarci.
Mi dispiace tantissimo. Falle tanti auguri da parte nostra. Tua madre ha dato a tutti noi molto coraggio, per come ha sostenuto te e altri prigionieri politici. Sappiamo che ti sei dato da fare, sia dal carcere sia anche ora, in esilio interno, per denunciare le condizioni dei liberi pensatori condannati dal regime islamico. Puoi raccontarci qualche dettaglio sulle condizioni di vita in carcere in Iran?
Ci sono diversi tipi di prigionieri politici in Iran, e il trattamento e le pressioni che subiscono variano di conseguenza. Per esempio, quelli che si limitano a chiedere riforme pur continuando ad aver fiducia in un regime islamico subiscono punizioni meno severe rispetto a coloro che si oppongono completamente all’ideologia del governo, ossia i laici che sostengono che le leggi debbano essere interamente di natura terrena, e non divina. Costoro subiscono torture più pesanti, o vengono giustiziati.
Giustiziare tuttavia sta diventando più complicato per il regime, non perché sia diventato più tollerante, ma perché sempre più gente è dalla nostra parte. Dieci anni fa, qualsiasi apostata sarebbe stato ammazzato per aver dichiarato di abbandonare l’islam. Ora, grazie al supporto internazionale e alle proteste della gente, la situazione è leggermente migliorata.
Le pressioni sui detenuti atei rimangono comunque molto più pesanti che su chiunque altro, più che nei confronti di un omicida, o qualcuno che ha commesso una grave frode, o un terrorista che ha messo una bomba. Quando sono stato condannato a morte, mia madre ha chiesto all’accusa: «Perché volete giustiziare mio figlio? Non ha ammazzato nessuno!» E l’accusa ha risposto: «Un assassino uccide solo una persona, mentre suo figlio ha ucciso il governo». Evidentemente, sono convinti che chiunque promuova idee illuministe uccida il governo. E di conseguenza il governo si vendica nel modo più estremo.
L’illuminismo è un punto cruciale. In Iran, il libero pensiero, l’illuminismo e l’ateismo sono notoriamente aumentati in modo significativo. Secondo te, perché sta succedendo, e che conseguenze ha sulle incarcerazioni?
Il governo è terrorizzato dall’illuminismo. Questo perché l’economia politica del regime islamico si basa interamente sulla religione. Se rimuovi la religione, se rimuovi la superstizione, il governo non può sopravvivere. Un sistema democratico, con specialisti ed esperti in carica, non lascerebbe spazio a mullah e basiji.
Ma la realtà, per fortuna, è che nonostante i pericoli e le difficoltà, l’illuminismo, in parte eredità culturale delle generazioni che ci hanno preceduto, e in parte revival dovuto all’influsso dei social media, è già sbocciato in Iran. So con assoluta certezza che l’80% dei nostri giovani non crede in queste superstizioni. Raramente si incontra qualcuno che crede nella religione, che prega o che sceglie spontaneamente di indossare l’hijab.
La gente detesta la teocrazia, incluse, per fortuna, persone che in passato ci credevano. L’illuminismo è il tallone d’Achille del governo, e maggiore consapevolezza hanno i giovani, più sarà difficile sopravvivere per un governo che si basa sulla superstizione.
Tu sei uno degli atei più famosi in Iran, probabilmente anche nel mondo. Considerando tutte le tribolazioni cui sei andato incontro in prigione e nel tuo attuale esilio interno in Iran, chi te lo fa fare di andare avanti?
Ho aperto un blog chiamato “Una generazione che non vuole più essere bruciata” perché la nostra generazione e quella precedente sono realmente state bruciate dal fuoco della religione e della teocrazia. La religione ha soffocato le nostre vite. Fin dalla nascita, quando ci sussurrano la professione di fede islamica nell’orecchio, non ci viene data scelta, non possiamo nemmeno controllare il nostro taglio di capelli, o come ci vestiamo. La religione ci ha depredati. In breve, le nostre vite sono state bruciate.
Il giorno in cui cominceremo ad ammutinarci contro questa schiavitù, per quanto potremo soffrirne e pagarne le conseguenze, almeno i nostri figli e le generazioni successive potranno godere di una vita migliore. E finora abbiamo avuto successo. Con le nostre penne abbiamo sconfitto la prigione, il cappio, il manganello e gli stivali. Non rimpiango gli otto anni passati in carcere, né di aver perso la salute, perché so che insieme abbiamo aperto la strada per la liberazione.
Praticamente hai già risposto, ma ne è valsa la pena, in qualche modo?
Non avevamo niente da perdere, se non le nostre catene. Ci avevano trasformato in cadaveri ambulanti. Quando non sei libero, non puoi avere una vita normale, una vita significativa. Se fossimo rimasti in silenzio, altre generazioni sarebbero bruciate dopo di noi. E sono felice di avere ottenuto tutto questo molto prima del previsto.
Quando mi sono messo a criticare la religione, pensavo che sarei stato giustiziato e che solo dopo 50 o 100 anni la mia morte avrebbe potuto avere un impatto. Invece, per fortuna, grazie all’unità, alla solidarietà della gente e al vantaggio che ci offre la tecnologia, abbiamo raggiunto i nostri obiettivi molto prima. Già quest’ultima generazione, nata due o tre decenni dopo di noi, ha una mente molto più inquisitiva, e non accetta acriticamente l’indottrinamento di questi imbonitori. È una generazione che riflette. E questo pensiero mi dà molto sollievo.
Il sostegno che hai ricevuto in Iran e in tutto il mondo ti ha confortato mentre eri in prigione e ti ha salvato da una morte certa. Qual è per te il significato di questa solidarietà, e se dovessi dare un messaggio alle persone che ti seguono, che cosa diresti loro? Cosa possono fare?
Nel 2013, quando sono stato arrestato e condannato a morte, il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica stava mettendo in atto un piano per schiacciare gli atei. Diverse persone sono state giustiziate, altre sono state condannate a lunghi anni di prigionia. Fra questi, coloro che avevano partecipato alla “Campagna per ricordare”, a supporto di attivisti che ridicolizzavano il sacro come forma di divertimento su Facebook.
Mohsen Amiraslani è stato giustiziato per il solo fatto di aver espresso dubbi sul racconto del profeta Giona nel ventre della balena. Per quanto mi riguarda, in prigione subivo violenti interrogatori in cui mi picchiavano fino a perdere i sensi. Una volta ho sentito il mio aguzzino che diceva: «Attento a non ucciderlo qui.
Dev’essere impiccato pubblicamente, in modo che serva da monito agli altri, perché la smettano di prendere in giro gli iman e la religione». Insomma, avevano già in programma di usare la mia morte come forma di propaganda. Per fortuna era il periodo in cui Twitter si era diffuso nel paese, permettendoci di far trapelare alcune informazioni e attivare delle campagne cui hanno risposto persone di tutto il mondo.
A quel punto, pietrificati dalla reazione coordinata degli utenti su Twitter, e da tutte le proteste, le autorità hanno cambiato tattica, e per giustificare la mia esecuzione hanno cercato di farmi confessare di aver ricevuto finanziamenti dall’America.
Non essendo riusciti a strapparmi una falsa confessione, data l’immensa pressione internazionale, hanno concesso di commutare la pena di morte, a patto di smettere la pressione mediatica. È evidente quindi che quando non riesce a governare con la paura, il regime deve piegarsi a un approccio più pragmatico, per minimizzare i costi e i rischi. Ecco perché azioni di supporto estese e coordinate, con impatto globale, hanno certamente grande efficacia. In questo momento, Yousef Mehrdad e Sadolah Fazeli rischiano la pena capitale per avere insultato “il rappresentante di Dio e leader del regime islamico”.
Sono rinchiusi nel carcere di Arak, dove subiscono torture e persino aggressioni sessuali. Quello che possiamo fare per loro è unirci e coordinarci per supportarli, in modo tale che sia troppo costoso in termini di immagine per il regime usarli come propaganda. Lo strumento chiave sono i social media, attivando campagne di protesta in tutto il mondo. Con l’augurio di liberarci presto di questi oppressori.
Intervista di Maryam Namazie
Traduzione di Paolo Ferrarini
Intervista in lingua originale pubblicata qui.
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“In questo momento, Yousef Mehrdad e Sadolah Fazeli rischiano la pena capitale per avere insultato “il rappresentante di Dio e leader del regime islamico”.”
Il mondo che si è mobilitato per Arabi si mobiliterà anche per loro?