Il missionario cristiano Daniel Everett voleva convertire il popolo amazzonico dei Pirahã. Ma vivendo con loro alla fine è stato “deconvertito” lui: a contatto con una cultura così diversa, è diventato ateo. Ripercorre questa storia Micaela Grosso, sul numero 3/23 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Si è spesso abituati ad ascoltare storie di evangelizzazioni coatte e violente, anche in tempi recenti, di tribù o popolazioni incontaminate perché mai incappate prima nella pericolosa ragnatela delle organizzazioni missionarie, pronte a dispiegare le più sante e civili energie per ottenere la conversione dei rozzi selvaggi (decimandoli, magari, con il contagio di malattie infettive).
La storia dei Pirahã, invece, è un tantino differente. Si tratta di una popolazione indigena che vive nella foresta amazzonica, sulle rive del fiume Maici, nel nord-ovest del Brasile, e che è diventata celebre grazie alle ricerche che sono state condotte sulla sua lingua e cultura.
Foto di Daniel L. Everett
Il volume più completo e conosciuto sui Pirahã è del 2008 e ha un titolo che si ispira alla loro visione del mondo: Don’t sleep, there are snakes (Non dormire, ci sono serpenti). L’autore, Daniel L. Everett, il linguista e antropologo che più a lungo si è occupato dei Pirahã e ha passato oltre tre decenni con la popolazione, spiega che l’espressione ha una funzione molto simile all’augurio della buonanotte.
Differentemente dall’auspicio di un sonno ristoratore, però, si riferisce innanzitutto alla convinzione pirahã che il sonno eccessivo indebolisca il fisico, e in seconda battuta al fatto che quando si dorme (specie se si russa) nella giungla, si corre il concreto pericolo di subire un attacco da predatori vari.
Gli indigeni, infatti, trascorrono una buona parte della notte a parlare e ridere insieme. Questa è quella che Everett nel suo libro definisce una delle lezioni preferite apprese dai Pirahã: «Certo, la vita è dura e i pericoli non mancano. E di tanto in tanto può farci perdere il sonno. Ma godiamocela. La vita va avanti».
Negli anni di studio Everett ha scoperto che i Pirahã sono una delle popolazioni dotate della più esigua gamma di fonemi conosciuta (hanno solo otto vocali e tre consonanti) e che non contemplano, nell’interazione, la funzione definita da Jakobson come “fàtica”, che si verifica nel momento in cui il messaggio è prodotto dal mittente per controllare (o mantenere attiva, o bloccare) la comunicazione con il destinatario.
Nella lingua pirahã, infatti, non esistono espressioni come ciao, addio, come stai, mi spiace, prego, grazie; le frasi si concretizzano normalmente in richieste o comunicazioni di nuove informazioni, o eventualmente comandi impartiti. Quando infatti un Pirahã giunge al villaggio, scrive Everett, non saluta ma dice: «Sono arrivato», così come esclama «Va bene» anziché «Grazie» se gli si consegna qualcosa – la gratitudine potrà infatti essere espressa concretamente in seguito, con un dono o un gesto gentile.
Più di ogni altra cosa, però, per Everett i Pirahã sono stati in grado di insegnargli che «c’è dignità e profonda soddisfazione nell’affrontare la vita e la morte senza il conforto del paradiso o la paura dell’inferno e nel navigare verso il grande abisso con un sorriso. Ho imparato queste cose dai Pirahã e gliene sarò grato finché avrò vita».
È bene specificare che Everett ha trascorso il suo primo periodo con i Pirahã con uno scopo piuttosto diverso da quello che ci si potrebbe immaginare: non era infatti un semplice linguista, bensì un missionario incaricato ufficialmente dalla Sil International – la Summer Institute of Linguistics, un’organizzazione cristiana evangelica che ha come obiettivo il censimento e l’apprendimento delle lingue di minoranza per una più agevole traduzione biblica.
Everett si trovava dunque in missione per conto di questa associazione e aveva un compito di natura linguistica finalizzato a facilitare l’evangelizzazione in Amazzonia.
Nella sua ricerca, ha messo a fuoco una serie di convinzioni: la lingua pirahã, tonale, non esprime il numero grammaticale, non ha lessico dei colori e dei numeri – nemmeno il numero uno. Esistono dei termini per indicare “una scarsa quantità” o “una maggiore quantità”, ma gli indigeni non conoscono il concetto di conto.
Per Everett, che è stato per anni al centro di una lunga diatriba accademica, la lingua pirahã si contrapporrebbe, addirittura, alla teoria onniaccreditata della grammatica universale di Noam Chomsky, poiché le mancherebbe il requisito della ricorsività (il fenomeno per il quale, in linguistica, è possibile applicare pressoché all’infinito una regola); in particolare, nella lingua pirahã non si assisterebbe al fenomeno dell’incasso dei costituenti linguistici all’interno di altri costituenti della stessa categoria sintattica, come avviene nella frase, potenzialmente infinita: “Paolo ha detto che Raffaele ha detto che Leila ha detto che…” e così via.
Questo e moltissimi altri tratti peculiari della lingua e della cultura pirahã sono stati ricondotti da Everett a un principio unitario e molto forte: l’immediatezza dell’esperienza. Un’esperienza è immediata, per i Pirahã, «se è stata vista o raccontata come se fosse stata vista da una persona viva al momento del racconto».
Il popolo, scrive nel 2005, «Non ha miti di creazione – i suoi testi sono quasi sempre descrizioni dell’esperienza immediata o interpretazioni dell’esperienza; ha alcune storie sul passato, ma solo di una o due generazioni precedenti. I Pirahã in generale non esprimono alcuna memoria individuale o collettiva risalente a più di due generazioni fa».
Non si tratta, dice Everett, di non poter pensare al passato o al futuro, azioni che gli indigeni possono certamente portare a termine, ma semplicemente di una preferenza: i Pirahã scelgono di non parlare di momenti remoti di cui non hanno prove concrete e tangibili, di cui non posseggono un’esperienza empirica.
Coerentemente, al discorso del missionario sulla creazione del mondo gli indigeni reagiscono con deliziosa razionalità. Nessuno infatti concepisce che un uomo come Everett possa saperne di un’epoca in cui probabilmente non era nato.
In risposta ai suoi racconti sulle imprese di Gesù, un giorno gli chiedono: «Ehi, Dan, ma Gesù assomigliava più a noi o a te?» Everett replica: «Alcune persone dicono che somigliasse più a voi, altre più a me». «Sì, ma tu l’hai visto: a chi somigliava?» «Beh, in realtà io non l’ho mai visto». «Ma (almeno) tuo padre l’ha visto». «No, nemmeno lui. Ha vissuto tantissimo tempo fa, nessuno lo ha visto».
Gli domandano: «Ma se ha vissuto tantissimo tempo fa e nessuno lo ha visto, per quale motivo ci parli di lui?» La vicenda si conclude con la richiesta, da parte degli indigeni, di non sentire più parlare di cose del genere, che per loro non hanno consistenza.
Una simile conversazione, così come il rapporto costruito con una popolazione come i Pirahã, logorano e alla lunga polverizzano la fede di Everett. La richiesta continua di prove e concretezza gli dimostra quanto gli stessi elementi manchino a lui, in barba alla Bible School e alle sue convinzioni di partenza.
L’obiettivo iniziale di Everett era quello di «barattare la mia vita con la loro felicità», mettendo i Pirahã a parte della religione cristiana, salvandoli dalla paura della morte. L’uomo deve ben presto scoprire che non ne hanno affatto timore, perché la concepiscono come una parte integrante della vita.
E che sono, anche in accordo con gli scienziati del Mit sopraggiunti per condurre ricerche, a tutti gli effetti una popolazione molto felice, almeno a giudicare il tempo speso a ridere e sorridere insieme, con nessun pallido bisogno di dio o di religiosità. Everett traduce e legge Bibbia e Vangeli, ma i Pirahã rimangono impassibili, inconvertibili.
«L’unica conversione che ho ottenuto è stata la mia», ha detto Everett in un intervento Tedx nel 2017, perché a tutti gli effetti è quanto succede: l’uomo, da missionario cristiano diviene ateo, per questo viene allontanato dalla famiglia, cambia vita e si dedica alla linguistica e all’antropologia a tempo pieno, per approfondire la cultura di un popolo che gli ha donato tanto.
Grazie all’incontro con i Pirahã, Everett riesce ad abbandonare la supponenza dell’evangelizzatore, inquadra il suo obiettivo iniziale come pura coercizione e riflette sull’assenza di prove di chi professa il cristianesimo.
Niente male, per una popolazione che nel 2018 contava non più di 800 componenti e solo undici fonemi.
Micaela Grosso
Approfondimenti
- Daniel L. Everett, Cultural Constraints on Grammar and Cognition in Pirahã, 2005
- Spoken Pirahã with transcription
- Patrick Barkham, The Power of Speech, 2008
- Michael O’Neill e Randall Wood, The Grammar of Happiness, documentario del 2012
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Avevo letto alcuni scritti di Everett sui Pirahã, incuriosito dalla loro lingua che è incredibilmente interessante (hanno anche una forma di lingua fischiata).
E lì mi sono imbattuto, con stupore, nella loro cultura e ateismo.
Secondo un’opinione comune, ogni popolo, in ogni cultura e parte del mondo, passa necessariamente attraverso una fase religiosa e anzi per alcuni questo fatto sarebbe persino una prova dell’esistenza del ‘divino’ (perché tutti, in qualche circostanza, ci credono se non fosse vero?)
Ebbene NO: i Pirahã sono confutazione perfetta, seppur rarissima, del fatto che la religione non è necessariamente utile per formare una popolazione coesa e sana: i Pirahã cioè hanno il loro ordine sociale e legale e anche assistenziale ma senza religione.
Inoltre la religione non serve neppure a giustificare e sostenere la moralità visto che Essi hanno una moralità e valori anche piuttosto forti.
Per inciso, dalle mie letture di allora, risultava che la loro popolazione non era affatto in calo per l’assedio della civiltà occidentale, e anzi Essi erano orgogliosi della loro cultura: ad esempio il termine Pirahã significa ‘quelli con la testa dritta’ ossia quelli che pensano in modo genuino e corretto in contrapposizione agli altri: quelli con la testa storta…
A leggere della loro cultura si resta ammirati dalla saggezza della loro vita e fa venire voglia di trasferirsi da loro: la religione non è necessaria neppure per raggiungere serenità e felicità.
…(perché tutti, in qualche circostanza, ci credono se non fosse vero?)…
Ma è anche evidente che nessuna religione si sia dimostrata ‘vera’.
Basta osservare quale entusiasmo riesce ancora a sollevare, su YT, una s†upidaggine
come la ‘scommessa di Pascal’. Il governo dovrebbe pensare a qualcosa come
un ‘bonus psichiatrico’ per credenti irrecuperabili.
L’ultimo libro di Marshall Sahlins ha come sottotitolo “Un’antropologia dell’umanità (quasi tutta)”.
Si riferisce al fatto che la religione esiste in quasi tutta l’umanità: devo controllare se, come ritengo, fra le eccezioni contempla i Piraha (che già il nome è un problema perchè la seconda “a” è diversa dalla prima).
Nell’articolo vengono citati libri del 2005 o del 2008, e viene detto che i Piraha hanno costituito un problema per la comunità accademica. Si può iniziare col chidersi cosa ne pensano o ne hanno pensato Pinker, Chomsky, Sosis, Tomasello, Dunbar, Dennett, Atran, per citarne alcuni.
In Italia si potrebbe chiedere qualcosa a Telmo Pievani e a Giorgio Vallortigara, autori, diversi anni fa, di “Nati per credere”
Purtroppo grazie alle pulizie etniche della colonizzazione molte tribù primitive sono state cancellate dalla faccia della terra e, quindi, dalle poche testimonianze trovate è difficile ricostruire che cosa realmente pensassero. Magari popolazioni come i Piraha erano più diffuse di quanto si creda dalle testimonianze sopravvissute: basterebbe pensare a come “stranamente” le testimonianze dei filosofi materialisti e atei greci siano state quasi tutte distrutte. Magari gli stessi testimoni imbevuti di religione riportavano in modo errato le cose o distorcevano il messaggio nella loro ottica, visto che di solito i credenti faticano a comprendere che non si possa credere e che nell’epoca d’oro delle religioni “gli atei non esistevano”. La distorsione potrebbe essere anche dovuta semplicemente al fatto che una visione religiosa portava gli stati ad avere più successo e cancellare gli altri in un’ottica darwiniana. Anche seppellire i morti o averne cura non implica necessariamente una visione religiosa ed anche i non credenti possono fare dei “riti” che non hanno niente di religioso.
…”le testimonianze dei filosofi materialisti e atei greci siano state quasi tutte distrutte”…
Niente affatto: la filosofia greca è stata di fatto fagocitata dall’ignorantismo cristiano,
a cominciare da Aristotele e Platone, che aveva bisogno di pavoneggiarsi con ciò che di
meglio era disponibile nel sapere di allora. Provvidero a ciò Agostino e il Bue Muto, nominati
ipso facto ‘dottori della chiesa’.
Senza vergogna si appropriarono delle spoglie dei vinti: ci vuole una bella faccia di tolla
(diremmo a Milano) per esibire la ‘Scuola di Atene’ in un posto come la CdM!
Comunque è senz’altro vero che la gran parte delle opere antiche dei Greci sono state
distrutte e, di quel che è rimasto, molto ci è pervenuto solo attraverso l’arabo.
“hanno solo otto vocali e tre consonanti”
Secondo altre fonti hanno tre vocali ed otto consonanti.
Non hanno i numeri, ovvero non sanno contare.
E i genetsti cosa ne pensano?