Il primatologo Frans De Waal, scomparso lo scorso marzo, ha evidenziato come molte caratteristiche che riteniamo “umane” siano condivise con altre specie. Il suo approccio laico-umanista ha contribuito a smontare una serie di affermazioni antropocentriche e ci ha fatto riflettere su ateismo, agnosticismo e religione. Ricorda questa figura Paolo Ferrarini sul numero 3/2024 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Il genere umano ha un rapporto curiosamente schizofrenico con il resto degli animali con cui condivide il pianeta. C’è chi, per vezzo ritualistico, li sgozza brutalmente e chi, per vezzo ritualistico, li ricopre di offerte votive; c’è chi li sfrutta in filiere industriali e chi è pronto a sporcarsi le mani di sangue per liberarli dai laboratori scientifici; c’è chi ama cani e gatti come figli e chi ama mangiarli come manicaretti; c’è chi usa gli animali come metafora per comportamenti indesiderati («Sei una bestia!») e chi li recluta come alleati nelle proprie battaglie ideologiche, come gli iconici pinguini gay che covano l’uovo insieme.
Ogni volta che ci commuoviamo di fronte alle immagini di un animale selvatico che ci onora della sua fiducia mettendosi nelle nostre amorevoli mani, dobbiamo anche ricordare che abituare una creatura a fidarsi di un essere umano è potenzialmente una condanna a morte, dato che il prossimo incontro con l’imprevedibile sapiens potrebbe avere ben altro esito.
Per chi di noi ha abbandonato le obsolete, fideistiche e arroganti concezioni angeliche dell’essere umano che lo volevano ontologicamente separato e dominatore del resto della natura, è pacifico e incontrovertibile che gli umani non siano altro che un tassello nel grande puzzle della biologia terrestre.
Ma se si fa presto a dire che l’uomo è solo una scimmia nuda, meno immediato è affinare il nostro modo di concepire, studiare e comprendere le altre specie, nel momento in cui inevitabilmente cerchiamo di dedurne qualcosa di utile sulla nostra stessa evoluzione e identità. Labile e sfumato, alla prova della scienza e della filosofia, è il terreno a metà strada tra antropomorfizzazione e “antroponegazione”.
Qualificare meglio il senso del nostro essere animali fra gli animali è stato il lavoro di tutta la vita del primatologo ed etologo olandese Frans De Waal, purtroppo morto di cancro il 14 marzo scorso. Dopo essersi occupato, nella seconda metà degli anni ’70, di una colonia di scimpanzé in cattività allo zoo di Arnhem, De Waal acquisì immediata notorietà negli Stati Uniti con la pubblicazione del libro La politica degli scimpanzé (1982), in cui delineava i sorprendenti risultati delle sue ricerche sui comportamenti sociali di questi animali, risultati che – in parole sue – «elevavano un po’ i primati e abbassavano un po’ gli umani».
Nella storia dell’antropologia, ci si è ripetutamente trovati in imbarazzo nel dare una definizione di essere umano basata sulle competenze unicamente attribuibili a questa specie: dall’uso degli strumenti alla capacità di comunicare, la zoologia ha ripetutamente smontato tutta una serie di autoproclamazioni antropocentriche. (È proprio di questi giorni la notizia diffusa sui giornali e sui social di un orangotango osservato a curarsi una ferita con un’erba medicinale). Il cambio di paradigma apportato dai primi studi di De Waal consiste nell’aver dimostrato che altre specie presentano riconoscibili tratti psicologici, aprendo la strada a un nuovo ambito di ricerca, quello della cognizione dei primati.
Per descrivere le strategie osservate nelle relazioni sociali degli scimpanzé, De Waal introduce un modello ispirato alla politica di Machiavelli, un modello che parla di gerarchie di potere, dinamiche di gruppo, alleanze, calcoli, ritorsioni, negoziazioni, sotterfugi, solidarietà, cameratismo. Interazioni di una tale complessità, dimostrabilmente mosse da intenzionalità, non si spiegano banalmente con i ciechi istinti primordiali di una macchina cartesiana, come si pensava generalmente fino a quel momento, ma rivelano che questi animali sono dotati di una vera e propria forma di intelligenza superiore. Un’intelligenza, appunto, machiavellica.
Molte dinamiche osservate fra i primati hanno un parallelo – e quindi una probabile comune origine biologica – con comportamenti politici e sociali con cui abbiamo quotidiana familiarità: scaricare sui subordinati il malcontento generato da chi sta più in alto; tenere il conto dei favori ricevuti o dei torti subiti; nascondere le proprie debolezze e infermità per proiettare un’immagine di potere; emarginare un individuo in un gruppo di tre; appoggiare il candidato vittorioso nel momento in cui si perde la competizione per la leadership; trovare un capro espiatorio debole e innocente su cui sfogare le tensioni del gruppo…
Il libro di De Waal viene adottato ufficialmente nella reading list del partito repubblicano e il conseguente successo commerciale contribuisce a popolarizzare anche il gergo della primatologia: l’espressione “maschio alfa” per esempio viene cooptata dalla sociologia e della cultura pop, distorcendone però il significato originale.
In senso tecnico, il maschio alfa di una colonia di primati non si caratterizza necessariamente come un bullo che impone il proprio dominio con la virilità e la supremazia fisica, ma mantiene lo status gerarchico anche e soprattutto con atti di altruismo e giustizia, all’interno di una complessa rete di pesi e contrappesi nelle relazioni con gli altri individui. In una colonia, anche il maschio più forte e imponente può infatti essere detronizzato, o addirittura ucciso, da un’alleanza di contendenti più deboli.
Ma letture poco accurate non riguardano soltanto i non addetti ai lavori. Emergono presto anche i bias degli stessi accademici. In un ambiente culturale che d’impulso tendeva ad attribuire prevalentemente caratteristiche negative e istinti violenti ai nostri antenati e cugini primati (si pensi al prologo di 2001 Odissea nello spazio), nessuno aveva pensato di contestare il linguaggio della ricerca primatologica quando descriveva gli esemplari di scimpanzé come “nemici” fra di loro, mentre mille asterischi, distinguo e controversie sono emersi quando De Waal ha cominciato a parlare candidamente anche dei loro rapporti di “amicizia”.
Quando poi i suoi studi si sono concentrati su un’altra specie, fino ad allora poco considerata, i bonobo, alcuni hanno osteggiato il nuovo cambio di paradigma, tenendo queste ricerche ai margini e portando qualcuno a dichiarare: «Ma che problemi hanno i maschi dei bonobo per comportarsi così?»
La rivoluzione consiste nel fatto che homo sapiens, evolutivamente equidistante da scimpanzé e bonobo, presentando tratti di Dna di entrambi, appare ora come un essere “bipolare”, ugualmente imparentato alle due sottotribù di “panina” separatesi dalla comune linea di discendenza dopo che il genere homo ha preso la sua strada evolutiva. Due specie con modelli di società e comportamento radicalmente diversi che gettano dubbi sulle caratteristiche che potrebbe avere avuto il comune antenato postulato.
I bonobo si organizzano infatti in matriarcati dove gli individui, tutti perfettamente bisessuali, risolvono i conflitti attraverso scambi sessuali. Una società molto meno stressante e politica di quella degli scimpanzé, una cultura dove l’omicidio non è conosciuto, non c’è bisogno di azzuffarsi per accedere alle femmine perché già disponibili 24/7, e le tensioni per la difesa della prole sono mitigate dalla diluizione della paternità.
De Waal racconta come è stato difficile parlare di bonobo, soprattutto all’inizio, in un contesto a proprio agio con la rappresentazione della violenza e del sangue, ma in imbarazzo con la sessualità di animali che si intrattengono, salutano e riconciliano abitualmente con sfregamenti genitali, masturbazioni e baci con la lingua. Censure, eufemismi e tagli imposti per esempio anche dalla Bbc nel realizzare documentari sui bonobo lo hanno portato a ironizzare su come i media abbiano costretto i poveri primati al “coito interrotto”.
Il lavoro di “naturalizzazione” delle supposte specificità psicologiche umane prosegue negli anni con le ricerche e riflessioni di De Waal sull’empatia e la moralità. Innanzitutto, a livello neurologico, lo studioso ci ricorda che la mappatura dei cervelli dei primati è del tutto equiparabile a quella umana, tant’è vero che i famosi “neuroni specchio”, considerati fondamentali nell’emergere del sentimento dell’empatia, sono stati inizialmente scoperti non negli esseri umani, ma nei macachi.
E se i bonobo detengono il guinness dei “primati” per l’empatia, sempre pronti a prestare cure e attenzioni al minimo segnale di stress o difficoltà di un compare, gli scimpanzé stessi sono in grado di mostrare rimorso per i danni fisici inferti ad altri nei momenti di sfogo violento, controllando e leccando le ferite procurate, nonché preoccupandosi sempre di riconciliarsi.
Altri esperimenti dimostrano poi che, posti di fronte alla libera scelta se remunerare soltanto sé stessi per un lavoro oppure anche un compare inattivo, gli scimpanzé tendenzialmente preferiscono l’opzione pro-sociale. Si tratta di comportamenti essenziali quando l’interdipendenza è necessaria per la sopravvivenza degli individui.
Ancora più affascinante è che queste specie dimostrino di avere una cosiddetta “teoria della mente”, ossia la capacità di mettersi nei panni degli altri, di capirne esigenze e intenzioni, un’abilità che a volte può addirittura estendersi a membri di altre specie. Uno degli aneddoti preferiti di De Waal ha come protagonista un bonobo di nome Kuni che si è preso cura di un uccellino precipitato nel recinto dopo aver sbattuto contro un vetro. Kuni gli ha dispiegato le ali e ha tentato di rimetterlo in volo, come se avesse osservato il comportamento degli altri uccelli e fosse quindi in grado di fornirgli le specifiche attenzioni di cui aveva bisogno.
Comportamenti di questo tipo dimostrano, secondo De Waal, che alcune predisposizioni come la compassione si sono slegate dal contesto evolutivo in cui erano originariamente state selezionate in quanto vantaggiose per la specie, per diventare fini a sé stesse. Una mossa perfezionata dall’essere umano nel momento in cui, attraverso l’uso delle alte funzioni cognitive, è capace di estendere il proprio circolo morale – con diritti e privilegi evoluzionisticamente riservati solo alla tribù di consanguinei – a intere nazioni, a tutta l’umanità e anche ad altri esseri viventi.
Anche il senso di giustizia, in cui De Waal individua il secondo ingrediente fondamentale della moralità insieme alla capacità di empatizzare, sembra avere un antecedente in natura. Si manifesta non soltanto nella reciprocità che governa quotidianamente le interazioni fra gli individui (io ti do una cosa, tu me ne dai un’altra; tu mi fai un dispetto, io mi vendico), ma anche nel senso di equa retribuzione, come dimostra un famoso esperimento in cui le scimmie cappuccine si arrabbiano e rifiutano una ricompensa standard (cetriolo) se si accorgono che un compare ne riceve una migliore (uva) per lo stesso lavoro.
Lungi dall’essere la fonte esterna della morale, la religione ha quindi, secondo De Waal, al più un ruolo rafforzativo di predisposizioni già presenti biologicamente, come un seme che germoglia soltanto perché cade su un terreno già fertile e ricettivo. È in particolare nel suo libro del 2014, Il bonobo e l’ateo, che approfondisce il suo pensiero sulla fede. De Waal non fa mistero del suo essere non credente, e in linea di massima sarebbe stato d’accordo con Christopher Hitchens, quando disse: «Gli dèi che abbiamo creato sono esattamente gli dèi che ci si aspetterebbe da una specie che è a mezzo cromosoma dall’essere scimpanzé».
Tuttavia, il primatologo è molto più interessato alle battaglie affermative dell’umanismo che agli attacchi frontali alle religioni, imprese che equipara all’insensatezza del «dormire furiosamente». Ritiene inoltre che gli argomenti del neoateismo tradiscano generalmente una forte e contraddittoria propensione al dogmatismo, e un eccesso di fiducia nel mondo accademico-scientifico. Piena di gerarchie, maschi alfa e bias di ogni tipo, la torre d’avorio della conoscenza è, secondo De Waal, molto più simile a una colonia di scimpanzé di quanto piaccia credere a chi per gli stessi motivi attacca il mondo della fede.
È quindi critico nei confronti di polemisti come Hitchens e Dawkins, e molto più in sintonia con filosofi come Daniel Dennett, col suo approccio naturalistico e non giudicante allo studio del fenomeno religioso. È una dolorosa coincidenza che Dennett sia morto ad appena un mese di distanza, il 19 aprile.
La poca pazienza di De Waal per ogni dogmatismo emerge in un aneddoto personale che vorrei in conclusione condividere in memoria dello scienziato. Nel 2014, a un incontro di presentazione de Il bonobo e l’ateo al salone del libro di Torino, dove ogni anno la casa editrice dell’Uaar Nessun Dogma è presente con il suo stand, un attivista vegano gli chiese, con atteggiamento aggressivo: «Com’è possibile che uno studioso dei primati, che ha così tanto a cuore gli animali, possa mangiare carne?» Ricordo di aver riso dentro di me per il non sequitur insito nella domanda, pensando: «Cosa c’entra? De Waal mica mangia gli scimpanzé» e di essere poi scoppiato a ridere fisicamente quando dopo pochi secondi De Waal iniziò a rispondere dicendo: «Cosa c’entra? Mica mangio gli scimpanzé!»
Paolo Ferrarini
Approfondimenti:
- Frans de Waal, La politica degli scimpanzé. Potere e sesso tra le scimmie, Laterza, 1984
- Frans de Waal, Naturalmente buoni. Il bene e il male nell’uomo e in altri animali, Garzanti, 2001
- Frans de Waal, La scimmia che siamo. Il passato e il futuro della natura umana, Garzanti, 2006
- Frans de Waal, L’età dell’empatia. Lezioni dalla natura per una società più solidale, Garzanti, 2011
- Frans de Waal, Il bonobo e l’ateo – In cerca di umanità fra i primati, Garzanti, 2011
- Frans De Waal, Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali?, Raffaello Cortina Editore, 2016
- Frans De Waal, Diversi. Le questioni di genere viste con gli occhi di un primatologo, Raffaello Cortina Editore, 2022
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