La crescente secolarizzazione della società occidentale allontana le persone dalla religione, influenzando cerimonie e riti. E le serie TV riflettono questo cambiamento mostrando sempre di più celebrazioni laiche alternative. Ne parlano (attenzione spoiler!) Micaela Grosso e Maria Pacini sul numero 4/2024 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
La società europea e nordamericana ha visto negli ultimi decenni un processo di secolarizzazione (quantomeno sociale) inarrestabile, costituito da un allontanamento sempre maggiore della religione dalla sfera personale della popolazione. Questo fenomeno è da attribuire talvolta a disinteresse e/o neutralità al riguardo, ma in altri casi è dovuto a un attivo respingimento dei valori proposti (o imposti) dalle religioni, spesso considerati se non obsoleti addirittura incompatibili con la libertà personale e i diritti.
Tutto questo ha un risvolto concreto nella vita delle persone che influenza anche il modo in cui ciascuno decide di realizzare cerimonie e riti per sottolineare momenti importanti della vita o salutare per l’ultima volta una persona che non c’è più. Le serie tv sono un fenomeno di natura mediatica e sociale che negli ultimi decenni ha visto una forte diffusione tra le più varie fasce di popolazione e che in periodi recenti, grazie anche alle piattaforme streaming, ha raggiunto forse il più alto livello di popolarità.
In quanto prodotto pensato per la massa esso da una parte rispecchia e dall’altra ri-produce gli elementi costitutivi di una società. Ed è interessante domandarci se e come le serie tv rappresentino e mostrino cerimonie di passaggio (prevalentemente funerali, benvenuti, unioni) non religiose. Per questo episodio 1 abbiamo preso in considerazione e analizzato tre esempi di commiato laico in tre serie tv molto diverse tra loro per produzione, “età”, target di spettatori: Six Feet Under, Sex Education e The Last Word.
Tra il 2001 e il 2005, mentre internet e i cellulari cominciavano a diffondersi e i reality show a spopolare, l’ottimismo che regnava indisturbato ha dovuto fare i conti con Six Feet Under. La serie, dal titolo provocatorio ma ottimamente centrato, raccontava storie che si addentravano senza esitazione nei meandri della morte, presentandone (e normalizzandone) la cruda realtà con uno sguardo a volte cinico, a volte poetico.
Six Feet Under non era infatti un semplice drama familiare imperniato sulle vicende della famiglia Fisher, proprietaria di un’impresa di pompe funebri. Era un’opera corale che celebrava la vita tanto intensamente quanto acutamente ne esplorava la fine, tratteggiando una galleria di personaggi imperfetti, complessi e profondamente umani perché raffigurati alle prese con amori, lutti, delusioni e la costante ricerca di senso in un mondo che, a ben vedere, non ne ha poi così tanto.
I patti sono chiari: per un pubblico odierno, abituato a ritmi convulsi e colpi di scena brillanti, è probabile che Six Feet Under risulti datata. La pacatezza del ritmo, la sua marcatissima introspezione e il suo black humour potrebbero disorientare, se non proprio annoiare. D’altro canto si è parlato a lungo dell’obsolescenza dei prodotti cinematografici e televisivi: la problematica affligge indiscriminatamente i generi, con maggiore cattiveria (quantomeno nell’opinione di chi scrive) per i prodotti umoristici, che risentono moltissimo del passare delle primavere sia per i tempi comici che per le dinamiche della risata, che si evolvono rapidamente.
Per le persone, però, che potrebbero avere piacere di accostarsi a (o fare un rewatch di) una serie piuttosto unica nel suo genere, capace di mettere in scena personaggi fragili ma al contempo forti, credibili perché profondamente umani nelle loro azioni e scelte, la visione di questa perla è caldamente consigliata. Un merito ulteriore va alla serie per aver saputo rappresentare con una certa chiarezza espositiva quanto succede se, all’interno di una famiglia che ha una certa qual dimestichezza con la gestione del lutto altrui, la perdita si fa più vicina.
Nella quinta stagione accade infatti che il figlio maggiore, Nate, muoia inaspettatamente.
Una settimana esatta dopo che Nate ha modificato le disposizioni circa il proprio funerale e ha comunicato al fratello David di volere delle esequie ecologiche, la famiglia si trova a dover maneggiare la morte di un proprio caro.
La scelta del funerale “green” è, per Nate, un’opzione etica volta al rispetto dell’ambiente: non prevedendo l’utilizzo di una bara da inumare, l’impatto ambientale della sepoltura è chiaramente ridotto.
I Fisher, dopo un’iniziale resistenza, scelgono di onorare appieno la memoria del figlio, rispettando il suo desiderio e la sua libera scelta. Scendono infatti a un compromesso che vede l’affiancamento di un rito più classico a una sepoltura come da lui voluta, in un campo, in mezzo agli alberi. Anche la madre, Ruth, che in un primo momento resisteva con forza e non accettava la scelta di Nate perché pensava a una classica sepoltura nella tomba di famiglia («ma lo voglio accanto a me»), si abbandona al valore simbolico del rito, e ne prende parte attivamente.
La famiglia dimostra in questo modo una profonda capacità di comprensione dell’essenza di Nate e un autentico amore nei suoi confronti; con il rispetto della sua scelta, peraltro, imbocca il percorso della presa di coscienza e inizia a rinfrancarsi dalla tragedia.
La cerimonia funebre di Nate mostra un setting classico di commiato “all’americana”, che d’altronde non è molto dissimile da come potrebbe essere un qualsiasi commiato non religioso: una stanza elegantemente arredata quasi come un salotto di casa, la fotografia del defunto in bella vista, i fiori sulla bara, un podio da cui vengono pronunciati discorsi da parte dei presenti, un pubblico a sedere frontalmente rivolto al feretro.
In questo episodio di Six Feet Under assistiamo all’intervento di un amico a ricordare commosso il defunto, anche (ehm!) con rimandi alla preghiera, assenti in realtà nelle cerimonie laiche, ma molto persistenti, anche solo come sorta di “intercalare” nella cultura statunitense, come pure i riferimenti al paradiso, che seppur fatti gentilmente uscire dalla porta rischiano sempre di rientrare dalla finestra ‒ in questo caso con il sottofondo di Knockin’ on Heaven’s Door.
I discorsi e le testimonianze a cui assiste lo spettatore durante l’estremo saluto a Nate sono tipici di un commiato laico in cui non si parla di quando ci rivedremo in un improbabile aldilà o della resurrezione di non si sa bene cosa, ma dell’umano e comune senso di perdita e sconforto di fronte alla morte. Il fratello minore di Nate porta la testimonianza delle memorie di infanzia, evocando dei tratti della personalità del defunto rendendolo presente nei ricordi… Tanto da provocarsi delle surreali allucinazioni: vede infatti un Nate incappucciato che si aggira furtivamente nella stanza.
Il funerale laico è in effetti la celebrazione di una vita che è terminata: la condivisione dei ricordi e di ciò che il defunto ha lasciato in chi rimane (ideali, insegnamenti, memorie) è l’elemento fondamentale su cui si basano le cerimonie non religiose. Non ci sono dogmi a prestabilire valori e principi da ribadire proprio in occasione della cerimonia, e non ci sono liturgie standardizzate a riconfermare la prevalenza dell’elemento religioso sul singolo.
Durante il rito della sepoltura ecologica quasi tutti i membri stretti della famiglia di Nate prendono in mano la pala caricandola di terra e riempiendo la fossa in cui è stata adagiata la salma avvolta in un drappo. Ciascuno di loro, in silenzio, seppellisce Nate manifestando i propri sentimenti attraverso il gesto di gettare la terra sul tumulo: chi lo fa con tristezza e mestizia, chi si astiene, chi quasi con rabbia e chi, come la madre, con una solennità tale che pare quasi sancire l’accettazione della perdita.
Una serie piuttosto recente che, invece, si caratterizza per il registro attuale e le dinamiche tutt’altro che datate è Sex Education. Uscita su (e per) Netflix tra il 2019 e il 2023, è ambientata in un liceo inglese e segue le vicende di Otis, un adolescente insicuro che convoglia la sua propensione per l’ascolto improvvisandosi “terapista del sesso” per i compagni di scuola – seguendo le orme della madre, sessuologa affermata – e di una serie di ragazze e ragazzi che si affacciano alla vita affettiva e sessuale.
Il difetto di Sex Education, che emerge con evidenza specialmente nell’ultima stagione, è che, talvolta, nel suo intento “inclusivo” getta molta, troppa carne al fuoco, e risulta a tratti ridondante nel suo ordito. Introducendo diverse storyline e un insieme di sottotrame, la sceneggiatura dà alle volte l’impressione di voler accontentare tutti i gusti a ogni costo, anche quando ciò implica un sacrificio della fluidità espositiva e un soffocamento della narrazione.
Gli spunti che, nelle prime stagioni, apparivano ben bilanciati, finiscono per dimenticare l’equilibrio e il giusto spazio concesso alle vicende dei singoli personaggi, fornendo un eccesso di stimoli che toglie spazio a quanto di bello la serie aveva saputo rappresentare.
Il pregio di Sex Education, però, è tutto il resto. Il tono della serie, sempre ironico e disincantato, è gradevole e avvincente. La regia è vivace, e in grado di passare con audacia e nonchalance da scorci di comicità esilarante a profonde riflessioni sulla sessualità e sui rapporti umani, senza mai indulgere in stereotipi banalotti o in moralismi semplicistici.
La caratterizzazione dei personaggi è frutto di una fine strategia, che li rende elaborati e dinamici, intelligenti e in evoluzione, piuttosto credibili.
Un esempio è proprio il funerale di Erin, la mamma di Maeve. Quest’ultima è una ragazza dal carattere complicato e ribelle che ha sempre intrattenuto rapporti turbolenti con sua madre, segnati dalla tossicodipendenza e dall’abbandono da parte della donna. Malgrado ciò, la morte di Erin costituisce per Maeve un trauma profondo e un momento di intenso dolore, che la mette di fronte alla perdita di una persona, nonostante tutto, molto cara.
Il giorno stabilito, dopo che ha organizzato tutto, si trova a fare i conti con una celebrante assegnata “d’ufficio” che non conosce minimamente la sua storia, sbaglia il nome della madre e ha fretta di andare via. Si tratta, in sostanza, di un’anti-celebrante a tutto tondo.
Come se non bastasse, al rito fa un’apparizione inaspettata Sean, suo fratello scavezzacollo, che prende parola con un elogio brutalmente onesto, disilluso e cinico della madre, senza sconti su giudizi e critiche rispetto alle scelte di vita della donna.
Maeve, non tollerando i toni del fratello, lo caccia e prende in mano la situazione, dedicando a sua mamma un saluto personale perché realistico e intimo. Le sue parole rievocano la sofferenza patita a causa di Erin, ma al contempo l’amore più sincero e la gratitudine per non aver mai fatto mancare nulla ai suoi figli.
Sul finale, il signor Hendricks, professore di musica del liceo presente tra le persone unitesi al rito, si mette al pianoforte e suona With or Without You degli U2, la canzone che la celebrante non era riuscita a far ascoltare per via di problemi con il wi-fi. Un pezzo che, oltre a essere il preferito di Erin, accompagna perfettamente il momento malinconico con il suo testo celeberrimo sulla presenza/assenza, e sui rapporti di amore tormentato. La commozione è al suo massimo, mentre tutti intonano la canzone.
È a questo punto che la tensione si allenta e i partecipanti alla cerimonia salutano Erin in maniera autentica.
Il funerale di Erin mostra un aspetto interessante delle narrazioni all’interno dei funerali laici: l’importanza di realizzare una cerimonia che rispecchi la vita della persona celebrata, anche con i suoi lati negativi, anche se molto negativi, proprio come quelli di Erin, per esempio. «Era una brava persona» è una frase fatta che sentiamo fin troppo durante cerimonie religiose standardizzate.
Non si diventa certo brave persone nel momento in cui cessiamo di esistere e chi ci saluta per l’ultima volta ha bisogno di dirci addio nella nostra interezza: i pregi sì, ma anche i difetti. Nessuna persona è perfetta e non esiste la santità (quest’ultima non è, peraltro, condizione a cui la persona non religiosa solitamente aspiri), pertanto non ci sono ragionevoli motivi per cui un elogio funebre debba contenere esclusivamente lodi ed esaltazioni del defunto, al contrario, parafrasando Rita Levi Montalcini: «l’imperfezione è cosa più consona alla natura umana, che non la perfezione».
Oltre a quelle citate, è impensabile non parlare qui di The Last Word, serie tedesca disponibile su Netflix. Questa, infatti, si distingue dalle precedenti per il suo focus centrale sul tema delle cerimonie funebri.
The Last Word racconta la storia di Karla Fazius che, trovandosi vedova all’improvviso, individua una nuova ragione e spinta di vita diventando un’elogista funebre.
Dopo la cocente delusione del discorso ascoltato al funerale del marito, gestito frettolosamente e con scarsa personalizzazione dal titolare di un’impresa di pompe funebri, la donna è sospinta da quella che è appena stata la sua stessa esigenza: trovare una modalità commemorativa personale, intima e appropriata alla committenza.
Nel secondo episodio, Karla si trova all’agenzia di pompe funebri di cui lei stessa si è servita e incontra un uomo che, come lei, ha appena perso la compagna di una vita. In questo terribile momento di fragilità, l’uomo è confuso e soverchiato dalle incombenze burocratiche, ma trova nella protagonista un sostegno delicato, capace di un ascolto attento ed empatico. Grazie alla sua sensibilità, Karla riesce a captare con naturalezza le esigenze del ragazzo, comprende le sue emozioni e come veicolarle in un funerale denso di significato.
Il risultato è una cerimonia commovente e fuori dagli schemi, a tratti divertente, perfettamente fedele alle richieste della committenza e alle caratteristiche della defunta; il rito si concretizza in un momento intimo ma corale di ricordo affettuoso, ed è un successo.
Oltre a dare luce a un tema non molto centrale, dunque, The Last Word ha un grandissimo merito: quello di avvicinare il pubblico a una concezione specifica di rito funebre, visto come un’occasione per onorare la vita della persona defunta anche se questo può voler dire attenuare l’atmosfera drammatica e contrita tanto cara alla tradizione.
In fondo, ci insegna The Last Word, il modo giusto per celebrare un funerale è quello che va bene a chi sta elaborando il lutto, con tutte le derive possibili; una cerimonia “fabbricata in serie” non ha dunque senso d’essere.
Seppur a tratti sopra le righe e con risvolti surreali, The Last Word ci mostra diversi aspetti legati all’importanza di ricordare nel momento dell’estremo saluto le persone a noi care così come erano (un po’ come abbiamo detto prima per il commiato di Erin) e di saper condurre con competenza e capacità una cerimonia, soprattutto se un funerale.
Karla, infatti, proprio a causa di una cerimonia funebre disastrosa non è riuscita a dire addio a suo marito. L’impresario delle pompe funebri si improvvisa celebrante e tiene un discorso generico, banale, a tratti imbarazzante, ed è del tutto incapace di rendere al pubblico composto dai cari del defunto una narrazione adeguata della vita della persona oggetto della cerimonia.
Ciò che fa Karla, a seguito di questa esperienza, è prendere lei stessa in mano la situazione decidendo di imparare a condurre cerimonie funebri, frequentando un corso di formazione per celebranti – nella serie detti “elogisti” (Trauerredner) perché specificatamente formati sulle cerimonie di commiato ‒ e mettendosi quindi a disposizione degli altri, trasformando la sua delusione, frustrazione e indignazione per il disastro del funerale di suo marito in una forza solidale verso chi, come lei, sta vivendo un lutto.
The Last Word è una serie tv leggera che tuttavia fa emergere l’eventuale risvolto del ruolo di celebrante come servizio alla comunità: non solo la persona defunta ha diritto a essere ricordata così come era in vita, ovvero ha il diritto (non l’obbligo, sia ben chiaro) alla celebrazione della sua vita ora terminata, ma anche chi rimane ha diritto a salutare in maniera dignitosa, consona, rispettosa la persona che non c’è più. Ciò che Karla non ha potuto avere, lo proverà a dare agli altri. Per fare ciò comprende che non può improvvisare, va a (dis)imparare a fare la celebrante e torna dal famigerato impresario funebre per farsi assumere.
Le cerimonie laiche nelle serie tv offrono a chi non è credente la possibilità di poter vedere (e forse anche potersi vedere in) celebrazioni libere (e liberate) da dogmi e liturgie preconfezionate e imposte. Tre funerali laici non costituiscono certo una svolta nella rappresentazione delle celebrazioni non religiose sul piccolo schermo, ma probabilmente sono indizio di un mutamento generale volto (anche per mere questioni di mercato) a una narrazione più articolata e complessa dell’umanità, permettendoci, finalmente, di raccontare anche le vite di chi pensa di averne una sola.
Inoltre i funerali non costituiscono l’unico esempio di celebrazione laica nelle serie tv. Il primo episodio è giunto al termine, il secondo inizierà tra due… mesi! In esclusiva su Nessun Dogma.
Micaela Grosso e Maria Pacini
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Six feet under, si pone a un livello superiore sulla media dei telefilm americani, figuriamoci quelli italiani. E’ ancora attuale e forse senza tempo. Sono le vicende di una famiglia di becchini, anzi direttori di un’agenzia funebre, inseriti in una societá multireligiosa, ma complessivamente secolarizzata. La migliore battuta: “I funerali si fanno per i vivi.”