II film “Conclave” mostra un Vaticano sontuoso e al tempo stesso un’istituzione cinica e assetata di potere. Micaela Grosso ne scrive sul numero 3/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Da un punto di vista tecnico il regista Edward Berger ci getta, fin dal primo fotogramma, in un universo d’altri tempi, fatto di candelieri d’oro, affreschi barocchi e tonache porpora. Conclave, il film del 2024, è una festa per gli occhi: la fotografia di Stéphane Fontaine cattura a dovere l’opulenza vaticana, scegliendo di inserire marmi preziosi e vividi lampi di cardinalizio rosso in ogni inquadratura.
Berger orchestra il tutto con mano claustrofobica: il cameraman spesso inquadra dall’alto i porporati radunati sotto gli ombrelli bianchi in una pioggia rituale, suscitando (involontariamente?) l’effetto ironico di un “esercito di angeli in terra”. La simmetria calcola lo spazio come i versi di un cantico, imponendo la gravità del cerimoniale.

Anche la colonna sonora di Volker Bertelmann, che amplifica i respiri affannosi e i passi frettolosi dei cardinali, contribuisce a rendere palpabile la tensione. Il montaggio gioca con i lunghi silenzi e i dialoghi calibrati: in un attimo può esplodere un’occhiataccia, una frase lasciata cadere fra i denti, e all’improvviso la scena si carica di significato.
A spiccare, in Conclave, è poi la recitazione: Ralph Fiennes nei panni del cardinale Lawrence regala un ritratto intenso, intimo e sfaccettato. Gran parte della sua performance è tutta interna, messa in scena da micro-espressioni e piccoli gesti; probabilmente perché, come nota la critica anglosassone, «il dubbio, non la fede, è il motore che guida questo film».
Lawrence, comunica al pubblico la disperazione di un uomo sotto il peso del lutto e delle responsabilità con un singhiozzo trattenuto, una fronte increspata, un sospiro irregolare. Anche Stanley Tucci (il cinico Cardinale Aldo Bellini) e Sergio Castellitto (l’intransigente Cardinale Goffredo Tedesco) sfoderano numeri da guinness: Castellitto, in particolare, con la sigaretta elettronica in mano diventa quasi caricatura politica – gli basta una boccata di nicotina per far esplodere la sua animosità.
Come annota la recensione di Peter Bradshaw sul Guardian, quello della vape è un gesto così carico di odio e ambizione che vale più di mille parole (e Castellitto non le pronuncia quasi mai). Isabella Rossellini aggiunge un tocco di classe come Suor Agnese, dispensando inchini passivo-aggressivi e affilate “bombe di verità” che paiono l’unica rivincita femminile in sala.
A livello stilistico, insomma, Conclave è un ottimo prodotto: Berger si conferma regista capace di dipingere corpi umani in ambienti raccolti, immersi nell’oro e nella preghiera. Lo sfondo vaticano è fertile per le sue inquadrature eleganti e i suoi contrasti di luce. Nonostante questo, non aspettatevi un film edificante: sotto la tonaca di thriller ecclesiastico si muove una macchina politica spietata, ambientata dietro le mura di palazzo.
La trama (tratta da un best-seller del 2016 di Robert Harris) è uno “show” di potere e intrighi meticolosamente documentato che, in un certo senso, non fa che mostrarci cosa accadrebbe se togliessimo i paramenti: si tratterebbe di un’ordinaria lotta elettorale a tinte fosche e toni cupi, pronta per un remake di House of Cards, o come nota la critica «perderebbe zucchetti e vesti ma rimarrebbe una storia di lotta di potere che potrebbe verificarsi in una qualunque elezione politica».
I cardinali ritratti sullo schermo, anziani statisti e vecchi volponi, sono personaggi agguerriti e ambigui; tra loro quasi nessuno ha nel cuore sentimenti d’altezza spirituale: tutti tramano interessi personali. Il cardinale Tedesco (Sergio Castellitto) incarna il rigorismo nostalgico, è un reazionario che borbotta contro la “liberalizzazione” della Chiesa e ama soffiare nubi di fumo politico con la vape in mano.
Dall’altro lato, il cardinale Bellini (Stanley Tucci) indossa il cappello da “modernista”, promettendo aperture improbabili – come far votare persino le donne – quasi a prendersi gioco delle speranze altrui con un ghigno stanco. C’è poi il cardinale Adeyemi, dell’Africa, che potrebbe essere il “primo papa nero” ma serba in seno la serpe della vera intolleranza vecchio stile.
E il “giovane” arcivescovo Benitez, riluttante predicatore del terzo mondo, appare come il classico dark horse deciso dall’alto: un outsider fricchettone umile con un buon carisma, perfetto per mettere sul piatto della bilancia un po’ di “diversità” apparente. Ad accomunarli, ben al di là di ogni fede autentica, è la sete di carriera e di potere., in un contesto in cui questi uomini sono un po’ come mosche pronte a schiantarsi contro ogni fascio di luce che promette una nuova promozione, e mostrano al massimo un fastidioso ghigno politico anche quando recitano salmi.
Da un punto di vista critico, il film non fa sconti. Il cardinale Lawrence di Fiennes – forse il personaggio più umano – è un uomo complesso, tormentato da dubbi e notti insonni piuttosto che da assolute convinzioni religiose. Intorno a lui, la politica trionfa: ogni riunione formale è una partita a scacchi fumante, ogni voto si trasforma in un colpo basso mediatico. In questa resa dei conti, la Chiesa sembra più un consesso decisionale che un organismo spirituale.
Non a caso lo sceneggiatore stesso, Peter Straughan, ha dichiarato che il vero messaggio è che la Chiesa «ha a che fare con troppo potere» ed è quindi smarrita nel suo ruolo spirituale. Inutile dire che a uno spettatore laico un film così risuona, se non come verità, almeno come monito alla cautela: nelle stanze chiuse di San Pietro chiunque arrivi sul trono si porta appresso un bagaglio di negoziazioni, accordi e compromessi ben più pesante di un crocifisso d’oro. Un vero santo non c’è proprio, tra le tonache, ma ci sono invece mani che contano voti, astuzie papaline, rinunce di facciata e promesse troncate.
Non risollevano di certo il quadro gli aspetti di genere, che paiono qui una magra parvenza di progresso. Il film introduce appena qualche spunto attorno alle donne, come quella battuta ecclettica di Bellini sul permesso «di far partecipare anche le donne», lanciata come fosse una concessione eroica.
Ma è un passaggio debole: un pinkwashing alla clericale, tanto fumo e niente arrosto in salsa femminista. Alla fine sullo schermo ci resta solo Suor Agnese di Rossellini, l’unica figura femminile con qualche battuta sensata, il suo inchino pungente e quell’irriverente ironia – come ricorda il Guardian, «è l’inchino più passivo-aggressivo della storia del cinema» – che spezza il complice silenzio maschile con un’imbarazzante verità.
Oltre a lei, lo sguardo di Berger incontra poche altre donne: il conclave reale è un club maschilista e il film lo conferma senza tentennamenti; la donna rimane una mera comparsa funzionale al sistema, un’ombra interna all’Antico Testamento, mentre qualsiasi cambiamento di rotta nel plot rimane un espediente marginale.
Il contesto sociale e politico in cui Conclave esce è impregnato proprio di questi temi. Il Vaticano di oggi è teatro di grandi dibattiti sulla modernità della Chiesa, e la pellicola sembra sottolineare sarcasticamente quanto siano tiepide le riforme effettive. Dal confronto fra nostalgici del latino e progressisti effimeri emerge una Chiesa in larga parte arroccata: non a caso il film rispecchia le tensioni globali odierne, quelle tra tradizione intoccata e modernità tollerante, tra ritiro su posizioni intransigenti e timidi slanci all’apertura.
Allo spettatore esterno sembra quasi di assistere a una trasposizione dell’attualità televisiva nel sacro conclave: «Non è che un episodio di Succession», scrive un critico, dove ogni cardinale è un CEO in abito talare. In più, fuori dalle pareti dorate del film la Chiesa naviga in altre controversie – scandali finanziari, abusi di potere, dibattiti su donne e omosessualità – e Conclave non fa finta di niente, anzi le accenna con la derisione che merita, come a rimarcare che tutto quel potere concentrato è più un problema che un privilegio.
La domanda, a questo punto, potrebbe essere: dunque ci si diverte? In effetti c’è un piacere perverso nell’osservare questi prelati che non parlano di Dio ma di calcolo e mandato. La critica d’Oltremanica non si è trattenuta dal dirlo apertamente: «Pensare di stare chiusi in una stanza con un gruppo di ometti vanitosi che cercano di fregarsi a vicenda non sembra molto allettante. Ma fidatevi: Conclave è un vero spasso». E in parte è vero: il ritmo lento ma teso e i sottili duelli retorici garantiscono un intrattenimento di qualità.
Solo che, una volta spenta la macchina da presa, l’amaro in bocca rimane, e a lungo. Un intrattenimento irriverente – com’è nelle corde di questa rivista, per carità – ma dal quale emerge il coraggio di squarciare i veli di una istituzione chiusa. Sotto al sacro danzano i volti, umani e abietti, delle persone, e il film li coglie senza pietà né consolazione.
D’altronde, se il conclave che ci viene mostrato è davvero lo specchio di ciò che avviene dietro le mura vaticane – un gioco opaco, putrido di cordate, calcoli, ambizioni personali e ipocrisie in tonaca – allora cosa rimane del cosiddetto soffio dello Spirito Santo? Più che un’elezione ispirata, sembra una spartizione di potere tra uomini resi ciechi da un’istituzione che parla di umiltà mentre si aggrappa con entrambe le mani al privilegio e all’oro. L’aura mistica cede il passo alla gestione clientelare della fede, e il trono di Pietro finisce per apparire non come una croce da portare, ma come una poltrona da conquistare.
In questo scenario, la vera bestemmia non è nell’eresia, ma nell’indifferenza colpevole verso ciò che la Chiesa stessa vorrebbe tanto essere: guida morale, non macchina di consenso. E forse, alla fine, non resta che riderne. Come taglia corto, con impeccabile lucidità, il cardinale Bellini interpretato da Stanley Tucci: «Nessuno sano di mente vorrebbe il papato.»
Micaela Grosso
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«Nessuno sano di mente vorrebbe il papato.»….
Tra le caratteristiche innate dell’umano (e non solamente) troviamo quella relativa all’istinto di dominio che in certi determinati casi puo’essere modulato ma non di certo inibito !
Diffidate delle azioni che sembrano –in apparenza- le più generose, le più disinteressate. Se non sono motivate dalla ricerca del dominio, lo saranno dal benessere che forniscono alla persona che le esegue, o per conformarsi all’immagine ideale che ha di sé, nel contesto culturale in cui è cresciuto. Ovviamente esistono rare eccezioni, a volte patologiche ma non sono la regola, la confermano. Inoltre, in questi casi il preteso più che osannato Libero Arbitrio fa cilecca…