Nel Manifesto di Ventotene c’è un’idea laica di Europa, per credenti e non credenti, senza il predominio di quelle radici cristiane esaltate dai politici clericali. Gli autori erano infatti il comunista Altiero Spinelli e il radicale Ernesto Rossi. Daniele Passanante affronta il tema sul numero 3/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Il 19 marzo scorso alla Camera dei deputati Giorgia Meloni ha sferrato un attacco al Manifesto di Ventotene «per un’Europa libera e unita», il progetto di unità europea che contiene l’idea di Europa federale e libera ed è punto di riferimento per tutti gli europeisti progressisti. Il documento fu scritto in sei mesi nel 1941 dagli oppositori del regime fascista Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi durante il confino di 4 anni nell’isola del Mar Tirreno. Al Manifesto collaborò Eugenio Colorni, che ne fu poi editore, pubblicandolo nel 1944 e curandone la prefazione.
Ma perché la presidente del Consiglio ha attaccato un documento di 84 anni fa? Certamente per le sue basi socialiste, per il passaggio sull’abolizione della proprietà privata e per quello sul fallimento della prassi democratica nelle epoche rivoluzionarie, citati in aula dalla premier insieme ad altri estratti completamente decontestualizzati.

Ma il Manifesto di Ventotene probabilmente non piace alla destra anche per i contenuti laici e, ancor di più, per via della laicità dei suoi estensori, che in Rossi è diventata negli anni vero e proprio anticlericalismo militante. La premier ha concluso il suo intervento dicendo: «Non so se questa è la vostra Europa, ma certamente non è la mia». Una chiara strumentalizzazione, perché il Manifesto, a parte forse proprio i passi citati alla Camera, è ancora oggi molto attuale non soltanto dal punto di vista dell’europeismo.
Nel terzo e ultimo capitolo I compiti del dopoguerra. La riforma della società si fa riferimento a «un’Europa libera e unita come premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era farà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l’attuazione saranno crollate o crollanti; e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita».
Una spinta progressista che evidentemente i movimenti conservatori e di ultradestra ancora oggi fanno fatica ad accettare, scegliendo invece nuovamente la via dei nazionalismi. Non è un caso che oggi l’Europa sia in crisi e che nei discorsi della premier non si parli mai di Paese, ma di “nazione”, che appunto si fonda sull’idea di confine, tradizione, identità, cultura, lingua, etnia, e perfino di religione, riassunta nello slogan programmatico «Dio, patria e famiglia».
Valori in contrasto con i principi a cui si ispira il Manifesto di Ventotene che sempre nell’ultimo capitolo affronta anche il tema della laicità, in particolar modo in Italia: «Su due sole questioni – si legge – è necessario precisare meglio le idee, per la loro particolare importanza in questo momento nel nostro paese: sui rapporti dello stato con la chiesa e sul carattere della rappresentanza politica».
Il primo punto riguarda il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col fascismo. Rossi anche in futuro non smetterà mai di mettere in risalto i legami, economici e non solo, della Chiesa con il fascismo. In un decreto di Mussolini del 1922 si consentiva infatti alla Chiesa di sfuggire più facilmente al controllo pubblico e di evadere il sistema delle imposte. Nel Sillabo, saggio del 1957, Rossi denuncia proprio la volontà della Chiesa di voler accrescere sempre più la propria ricchezza, di affermarsi come una tra le più grandi potenze finanziarie.
E, tornando al concordato, nel Manifesto è scritto: «andrà senz’altro abolito per affermare il carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere egualmente rispettate, ma lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti».
Per Rossi la libertà faticosamente ottenuta attraverso le lotte risorgimentali, culminate il 20 settembre 1870 nella Breccia di Porta Pia, fu cancellata dai Patti Lateranensi l’11 febbraio 1929, data funesta in cui la società civile perdeva qualsiasi speranza di emancipazione dal potere della Chiesa. Questa in cui si cita l’abolizione del concordato è la parte del Manifesto della quale fu estensore proprio Ernesto Rossi che nel 1955 contribuì alla fondazione del Partito radicale. Temi che nel dopoguerra svilupperà nelle proprie pubblicazioni e nell’attività politico-culturale.
Tra Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi non ci fu subito sintonia. Anzi, all’inizio piuttosto diffidenza reciproca. Spinelli dice di Rossi: «per lui ero uno che con ogni probabilità ai difetti mentali dei comunisti, per lui già abbastanza gravi, aggiungeva quelli dell’ancor più insopportabile settarismo degli eretici. Per me lui era un liberale, dunque di certo un conservatore in materia economica e sociale». Ma poi Spinelli apprezza la grande cultura di Rossi e nonostante vi fossero idee discordanti, da parte di entrambi c’era una grande apertura al confronto e al dialogo.
Ernesto Rossi aveva 10 anni in più di Altiero Spinelli. Nato a Caserta il 25 agosto 1897 era quarto di sette figli. Il padre Antonio Rossi era piemontese, ufficiale dell’esercito, e la madre Elide Verdardi era di origini bolognesi. Poco dopo la sua nascita, la famiglia si trasferì a Firenze, città da lui considerata come vera patria. Ernesto Rossi fu anche soldato e ufficiale durante la prima guerra mondiale. Nel 1919 iniziò a collaborare con il quotidiano Il Popolo d’Italia diretto da Benito Mussolini come corrispondente da Firenze esperto di questioni economiche e agrarie. La collaborazione al giornale mussoliniano si interruppe nel 1922, prima della Marcia su Roma, quando Rossi già collaborava a L’Unità di Gaetano Salvemini e a Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti.
In una dichiarazione di voto in occasione delle elezioni amministrative del giugno 1966 Rossi afferma: «Chi non osa prendere la difesa dello Stato laico contro le indebite ingerenze della Chiesa nella vita politica del nostro paese e contro tutti i privilegi che essa ha ereditato dal fascismo, quale premio della sua leale collaborazione al regime; chi non si propone, come obiettivo da raggiungere anche a lontana scadenza, l’abolizione del Concordato, firmato dal cav. Benito Mussolini in nome della Santissima Trinità, è, per me, sostanzialmente un reazionario, qualunque sia il programma di riforme economiche, che, a parole, dice di voler sostenere».
Parole chiare e purtroppo mai abbastanza ascoltate perché sappiamo bene quali sono ancora oggi le conseguenze nefaste del Concordato tra lo Stato e la Chiesa. Ricordiamone soltanto alcune: i privilegi della Chiesa, non soltanto fiscali, i finanziamenti a pioggia, i tentacoli del Vaticano in moltissimi organismi dello Stato, nelle forze armate, nella scuola e nell’educazione, nel sistema carcerario, nella Sanità, i costi della religione a carico di tutti i cittadini anche non credenti, il meccanismo perverso dell’8xmille alla Chiesa cattolica, le ingerenze in tema di diritti civili, la presenza massiccia nei media italiani, i rapporti tra lo Stato e le altre religioni, la mancata piena attuazione della laicità dello Stato prevista dalla Costituzione.
Questo anche Spinelli lo sapeva bene. Romano, classe 1907, è figlio di Maria Ricci e Carlo Spinelli, prima diplomatico in Brasile, poi imprenditore. Il padre di Altiero è anche un convinto anticlericale e si avvicina al socialismo. Ed è grazie al padre che anche Altiero si appassiona alla politica all’età di appena tredici anni. Militante comunista prima e poi espulso dal Partito, Spinelli rispetto alla presenza dei cattolici in politica esprime posizioni più moderate e pragmatiche di quelle dell’amico.
In una lettera che Spinelli scriverà a Rossi nel 1962 dichiara di sentirsi da sempre lontano dal cattolicesimo e dal cristianesimo in generale, più legato a «quell’altro grande filone della civiltà europea, più antico del cristianesimo, che parte da Omero, passa per lo stoicismo, per l’umanesimo, per l’illuminismo, il libero pensiero, l’ateismo, e in genere per la filosofia europea». E aggiunge: «Se proprio dovessi scegliere una religione, preferirei non una delle tre religioni semitiche, ma il buddismo. Non sono dunque mosso da simpatie culturali e spirituali per il cattolicesimo».
E poi continua: «Come democratico devo tuttavia prendere atto che nella vita politica del nostro paese i cattolici sono presenti ed ineliminabili». Una posizione certamente meno netta di quella di Ernesto Rossi che nei confronti del cattolicesimo esprime sempre, documentando e motivando puntualmente, una pacata ma precisa indignazione. Alcuni anni dopo il Manifesto, nel 1966, Rossi pubblicò un volume dal titolo molto esplicito di Pagine anticlericali.
Il saggio di oltre 400 pagine analizza i pontificati dall’unità d’Italia al Dopoguerra, soffermandosi soprattutto su Pio XII ed evidenziando le connessioni del Vaticano con il fascismo. L’assunto da cui parte Rossi nel primo capitolo è una citazione di Gaetano Salvemini, suo mentore, secondo cui «vasti strati della popolazione italiana accusano il Vaticano e l’alto clero non di avere scatenato l’attuale guerra, ma di avere fatto causa comune con la dittatura fascista per vent’anni e di aver perciò assunto una parte di responsabilità nella politica fascista nelle sue conseguenze compresa la presente guerra con le indicibili sofferenze i disastri che ne sono derivati per l’Italia».
L’Europa a cui pensavano Spinelli e Rossi non avrebbe dovuto fare gli stessi errori delle dittature nazifasciste e nel Manifesto questo è spiegato molto bene. Spinelli e Rossi criticano aspramente i nazionalismi e oggi condannerebbero certamente i sovranismi che mettono a rischio pace e benessere duraturi per il nostro continente.
Il Manifesto di Ventotene aspira infatti al progetto di «una libera federazione europea, non basata su egemonie di sorta, né su ordinamenti totalitari, e dotata di quella solidità strutturale che non la riduca ad una semplice Società delle Nazioni». Un’Europa di pace, che ha imparato dagli errori della Storia e che non ha bisogno di investire ingenti risorse nel riarmo, ma è in grado di gestire i conflitti grazie alla diplomazia e alle sue solide fondamenta. Un sogno europeo che oggi rischia di infrangersi.
Daniele Passanante
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