Cervelli in fuga

Perché tanti ricercatori italiani se ne vanno all’estero? E perché ora alcuni scienziati statunitensi potrebbero (forse) arrivare in Europa? Affronta il tema Silvano Fuso sul numero 4/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


In inglese si chiama human capital flight brain drain. In italiano fuga dei cervelli e, secondo l’enciclopedia Treccani, è definita come «fenomeno di emigrazione di personale tecnico-scientifico, ad alta qualificazione professionale, verso Paesi in cui vigono migliori condizioni di lavoro e maggiori remunerazioni, soprattutto nel campo della ricerca scientifica».

Il fenomeno dei “cervelli in fuga” non è nuovo in Italia. Sono anni che il nostro Paese perde ricercatori, professori, medici e innovatori tecnologici che trovano migliori opportunità di lavoro e di carriera all’estero.

In passato abbiamo avuto esempi illustri. Nel 1938 Enrico Fermi (1901-1954), approfittando del viaggio a Stoccolma per ricevere il premio Nobel per la fisica, decise di emigrare negli Stati Uniti con tutta la famiglia, temendo per la loro sicurezza, in seguito all’emanazione delle leggi razziali da parte del regime fascista (la moglie Laura Capon era ebrea). Fermi trascorse il resto della sua vita negli Usa dove condusse buona parte della sua carriera scientifica.

Sorte analoga toccò ad altri scienziati italiani. Tra questi ricordiamo: la neuroscienziata Rita Levi Montalcini (1909-2012), Nobel per la medicina nel 1986, costretta a emigrare in Belgio, dove continuò le sue ricerche prima di poter tornare in Italia; e il fisico Bruno Rossi (1905-1993), espulso dall’Università di Padova nel 1938, che, dopo un breve soggiorno in Danimarca e Inghilterra, si trasferì negli Stati Uniti, dove divenne professore al Mit.

Vi sono anche illustri esempi di scienziati stranieri costretti a un destino simile. Albert Einstein (1879-1955) nel 1933 dovette abbandonare la Germania nazista per gli Stati Uniti. Lo stesso fecero Max Born (1882-1970), che dalla Germania andò in Gran Bretagna, e Niels Bohr (1885-1962) che lasciò la Danimarca, occupata dai nazisti, per emigrare negli Stati Uniti; e tanti altri. Sono poi numerosi gli scienziati appartenenti a Paesi in via di sviluppo che hanno abbandonato il luogo natale per trovare opportunità di carriera in Paesi più avanzati dal punto di vista scientifico e tecnologico.

Negli ultimi decenni, l’Italia ha subito la perdita di migliaia di ricercatori altamente qualificati. Tra il 2009 e il 2015, circa 14.000 scienziati italiani hanno infatti lasciato il Paese1. Questo flusso migratorio intellettuale è stato generato da diversi fattori ben documentati:

– Scarse opportunità di carriera: molti giovani ricercatori, dopo anni di precariato e borse di studio a tempo, si trovano senza prospettive concrete di stabilizzazione.

– Fondi per la ricerca insufficienti: la spesa pubblica italiana per la ricerca & sviluppo rimane sotto la media europea, ostacolando l’accesso a strumenti, laboratori e collaborazioni internazionali.

– Burocrazia e lentezza istituzionale: bandi lenti, criteri opachi di selezione e un sistema universitario poco meritocratico frenano l’innovazione nel nostro Paese.

Molti ricercatori italiani trovano quindi all’estero ciò che in patria sembra inaccessibile: strutture all’avanguardia, valorizzazione del merito, finanziamenti adeguati e competitivi e stabilità lavorativa.

Gli stessi precedenti fattori sono anche responsabili di un fenomeno in qualche modo speculare, ovvero il numero esiguo di ricercatori stranieri che vengono a lavorare in Italia. Questo è un fenomeno di cui si parla poco, ma che è altrettanto preoccupante della fuga dei cervelli. La scienza, infatti, per sua natura, vive e si alimenta di scambi culturali e di confronto con altre realtà. La scarsa interazione tra i ricercatori italiani e quelli stranieri aumenta il rischio di una provincializzazione della nostra ricerca. I due fenomeni, la fuga dei cervelli e la scarsa affluenza in Italia di ricercatori stranieri, meritano qualche riflessione.

Uno studio pubblicato nel 2022 su Nature Italy2 rivelava che tra il 2011 e il 2020 le università americane hanno assunto quasi tremila professori nel cui curriculum compariva un dottorato di ricerca ottenuto in Italia. Poiché le università americane sono ben attente ad accaparrarsi i docenti migliori e se tremila di questi “migliori sul mercato” vengono dall’Italia, questo significa che il nostro Paese è perfettamente in grado di preparare ricercatori e docenti di alto livello internazionale.

Ma allora nasce spontanea una domanda: se i laureati italiani vanno a specializzarsi all’estero e sono apprezzati, perché gli studenti stranieri non vengono a fare altrettanto in Italia?

La spiegazione, secondo gli autori dello studio di Nature, è tanto semplice quanto disarmante: «A nostro avviso, ciò non è dovuto al fatto che l’istruzione viene giudicata di scarsa qualità, ma piuttosto al fatto che viene offerta principalmente in italiano. Il sistema accademico italiano è per lo più finanziato dallo Stato con l’obiettivo di fornire ai cittadini un’istruzione superiore a costi accessibili. Attirare gli studenti internazionali offrendo servizi extracurriculari attraenti e costosi non è mai stato un obiettivo».

La questione è seria e veniva denunciata lucidamente già anni fa dall’indimenticato Pietro Greco (1955-2020)3. Sarebbe quindi quanto mai opportuno cercare di creare le condizioni per far diventare l’Italia un Paese attraente dal punto di vista scientifico e accademico. Tanto più che qualche decennio fa lo era. Negli anni cinquanta e sessanta vi erano sì ricercatori italiani che partivano. Ma vi erano anche diversi studiosi stranieri che arrivavano.

Un esempio degno di nota è quello del biochimico svizzero Daniel Bovet (1907-1992) che vinse il premio Nobel per la medicina nel 1957 per le sue ricerche svolte presso il nostro Istituto superiore di sanità. Negli stessi anni, importanti studiosi di neurobiologia lavoravano presso la Stazione zoologica di Napoli: tra questi ricordiamo il tedesco Bernard Katz (1911-2003) e il messicano Ricardo Miledi (1927-2017) che condussero proprio a Napoli le ricerche sulle sinapsi giganti del calamaro per le quali il primo venne insignito, nel 1970, del Nobel per la medicina.

Quel periodo d’oro purtroppo terminò verso la metà degli anni sessanta quando politiche miopi cominciarono a considerare gli investimenti in ricerca come una spesa che poteva essere tagliata. Se rendere l’Italia più attraente per ricercatori stranieri è un’esigenza che produrrebbe grandi benefici per la scienza del nostro Paese, in questo periodo storico potrebbe essere una scelta particolarmente strategica. Quello che è da sempre considerato il paradiso della ricerca scientifica nel mondo, cioè gli Stati Uniti, è infatti in profonda crisi.

Non sono pochi gli scienziati americani (oppure stranieri che lavorano negli Stati Uniti) che cominciano a guardare altrove, spinti da politiche restrittive, tagli alla ricerca e un clima politico meno favorevole, venutosi a creare dopo l’elezione, al secondo mandato presidenziale, di Donald Trump.

Gli Stati Uniti sono da sempre considerati una sorta di terra promessa della scienza. Le università americane attraggono da decenni migliaia di ricercatori da tutto il mondo grazie ai loro budget miliardari, ai finanziamenti di importanti istituzioni quali il National Institutes of Health, la National Science Foundation, la Defense Advanced Research Projects Agency e altri. Inoltre quello statunitense rappresenta un sistema di ricerca altamente competitivo ma fortemente meritocratico, in cui chi ha buone idee ha un’elevata probabilità di vederle realizzate.

Tuttavia, la situazione sta rapidamente cambiando. Dall’insediamento della presidenza Trump, si sono verificate infatti alcune tendenze che hanno segnato negativamente il mondo della ricerca americana e che possono essere individuate nei seguenti provvedimenti4:

– Tagli ai fondi federali per la scienza: in diversi momenti, l’amministrazione ha proposto o effettuato tagli significativi ai budget della ricerca pubblica.

– Politiche anti-immigrazione: la stretta sui visti per studenti, dottorandi e ricercatori stranieri (soprattutto cinesi e iraniani) ha colpito duramente le università, che dipendono in larga parte dal contributo internazionale.

– Clima politico e culturale ostile alla scienza e alla libertà accademica: la gestione della pandemia e la disinformazione scientifica hanno alimentato un sentimento anti-intellettuale in alcune fasce della società americana. Il vice di Trump, James David Vance, aveva espressamente dichiarato che: «i professori sono il nemico» e che «le università non trasmettono conoscenza e verità, ma inganni e menzogne»5. Più recentemente la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha dichiarato: «Abbiamo più bisogno di elettricisti e idraulici che di laureati Lgbtq da Harvard».

Questo clima di incertezza e preoccupazione sta spingendo, di conseguenza, molti ricercatori a guardare con interesse all’Europa e ad altri Paesi come nuova meta per la loro carriera scientifica.

Un articolo pubblicato recentemente su Nature riporta che oltre il 75% dei ricercatori che hanno risposto a un sondaggio, condotto dalla stessa rivista, stanno seriamente valutando di lasciare gli Stati Uniti6.

La stessa Unione Europea (come pure altri Paesi quali Canada e Australia) ha risposto a questo momento storico con nuove iniziative pensate proprio per attrarre i ricercatori americani. La Commissione ha lanciato fondi di centinaia di milioni di euro per sostenere la mobilità della ricerca, agevolare i rientri in Europa e semplificare l’accesso ai programmi europei da parte dei ricercatori esterni all’Ue.

In questo contesto, l’Italia ha quindi un’opportunità rara e preziosa: non solo fermare l’esodo dei propri ricercatori, ma diventare anche una terra d’approdo per chi oggi lavora negli Stati Uniti.

Nonostante tutte le problematiche che riguardano il nostro Paese, l’Italia ha, tutto sommato, alcune carte da giocare per attrarre cervelli stranieri o far rientrare i propri.

Una di queste riguarda la qualità della vita. Molti scienziati, dopo anni di stress accademico, potrebbero trovare nel nostro Paese un equilibrio tra lavoro e benessere personale. L’Italia offre infatti una rete sanitaria pubblica universale, un buon livello di sicurezza sociale, un ambiente più rilassato e meno competitivo rispetto a quello degli Usa e sicuramente una bellezza culturale e paesaggistica, che ha un impatto reale sulla qualità della vita.

Un altro fattore attrattivo può essere rappresentato dagli incentivi fiscali. Fino a poco tempo fa, l’Italia offriva importanti sgravi fiscali ai ricercatori che rientravano dall’estero, con una tassazione agevolata del reddito fino al 90%. Anche se recenti modifiche hanno ridotto il beneficio, resta comunque un incentivo significativo rispetto ad altri Paesi europei. Ripristinare agevolazioni più favorevoli potrebbe essere una scelta quanto mai opportuna.

Inoltre l’Italia, in quanto membro Ue, dà accesso a fondi come Horizon Europe, Marie Skłodowska-Curie Actions e grant dell’European Research Council. Un ricercatore straniero che lavora in Italia può coordinare consorzi europei e accedere a risorse che non sarebbero invece disponibili negli Usa.

Infine, non dimentichiamo che in Italia, nonostante le ben note difficoltà sistemiche, esistono centri d’eccellenza riconosciuti a livello internazionale: pensiamo all’Istituto italiano di tecnologia di Genova, la Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste, l’Istituto nazionale di fisica nucleare, l’Istituto Mario Negri e il San Raffaele di Milano, la Scuola normale superiore di Pisa e alcuni dipartimenti universitari di Bologna, Padova, Roma, Pisa, Napoli e altre città.

Non mancano neppure eccellenze in campo umanistico. Ad esempio, gli scavi di Pompei, il Museo egizio di Torino, le Gallerie degli Uffizi, oltre a rappresentare uno straordinario patrimonio culturale, sono anche luoghi di ricerca ai massimi livelli, già inseriti in progetti di cooperazione internazionale che potrebbe essere ulteriormente incentivata.

Quella che si sta presentando è indubbiamente un’occasione da non perdere. Il mondo della ricerca è oggi più mobile che mai. Il prestigio accademico non si costruisce più soltanto a Boston o Stanford, ma anche a Barcellona, Vienna, Berlino o, potenzialmente, a Milano, Napoli e in tante altre città italiane. Se l’Italia saprà cogliere l’opportunità di attrarre scienziati in uscita dagli Usa, offrendo contratti stabili, meno burocrazia e un sistema di ricerca competitivo e meritocratico, potrebbe invertire una rotta che finora l’ha vista solo come Paese di partenza.

Perché, se è vero che tanti “cervelli” sono fuggiti, è anche vero che molti di loro sognano ancora di tornare e molti potrebbero vedere l’Italia come nuova meta. Basta offrire loro un motivo valido e concreto per farlo.

Silvano Fuso

 

Approfondimenti

  1. F. Turone, Forced abroad: why Italian researchers migrate, Nature Italy, 2 marzo 2021
  2. C.A.M. La Porta, S. Zapperi, Le università americane raccolgono i frutti della formazione universitaria in Italia, Nature Italy, 4 dicembre 2022
  3. P. Greco, Ricercatori italiani, ancora una volta bravi e in fuga, Scienzainrete, 29 dicembre 2014
  4. Si veda: S. Fuso, Trump e la scienza, Nessun Dogma n. 2/2025
  5. Discorso di Vance tenuto nel 2021 alla National Conservatism Conference
  6. A. Witze, 75% of US scientists who answered Nature poll consider leaving, Nature, 27 marzo 2025

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5 commenti

RobertoV

Perché un ricercatore americano dovrebbe essere attratto dall’Italia, uno dei paesi che si sta evolvendo di più verso un modello trumpiano, un modello in cui si continuano a delegittimare gli esperti e le stesse lauree, dove vengono considerate di più le opinioni dei tuttologi che degli esperti? Proprio oggi il leghista Bagnai uno laureato a fatica in economia (8 anni per una laurea che all’epoca era di 4 anni!) contestava la competenza dei medici su argomenti di medicina?
Un paese dove si fa di tutto per smantellare e denigrare la scuola pubblica e le università a vantaggio di quelle private, scuola pubblica che evidentemente non prepara così male nonostante tutte le difficoltà se tanti laureati poi trovano lavoro all’estero e riescono anche a farsi notare positivamente. Un paese in cui si cerca di smantellare anche la sanità pubblica a vantaggio di quella privata? E non mi pare che la qualità della vita in Italia sia così bella (nelle indagini internazionali non mi pare che le caotiche città italiane primeggino) a causa del sovraffollamento, della disorganizzazione e dei disservizi. Non mi pare che sia molto rilassante per un ricercatore la mancanza di fondi per la ricerca, i tagli per gli acquisti del materiale necessario, valutati da gente che non ha nessuna competenza tecnico-scientifica, le incertezze e la burocrazia.
Un paese in cui gli stipendi ristagnano da decenni e sono tra i più bassi dei paesi “evoluti” e che se vuoi guadagnare devi abbandonare il settore tecnico-scientifico per lavorare nel settore commerciale e dove il “merito” è l’appartenenza politica. E dove i costi degli alloggi sono elevati, come gli affitti ed il costo della vita.
Lavoro nella ricerca da quasi 40 anni e seguo il settore da 50 anni e regolarmente sento dire a parole che la ricerca è importante, che bisogna investire nella ricerca, peccato che poi nel concreto non ci crede nessuno, basta vedere quello che hanno fatto coi soldi del PNRR che dovevano servire a potenziare la ricerca e di certo i pochi centri di eccellenza servono a coprire il basso livello generale. Non ci credono i politici (solo il 70 % in parlamento è laureato, ma in massa in giurisprudenza) ed i media con scarse competenze tecnico-scientifiche, non ci credono gli industriali (che infatti non si sognano di investire, ma chiedono sempre e solo soldi allo stato), non ci credono i cittadini da un lato con un basso livello di istruzione, dall’altro bombardati da informazioni a-scientifiche.
Dai dati Istat tra i 25 e i 64 anni nel 2023 solo il 21.6 % aveva una laurea (e bisognerebbe vedere di che tipo, contro il 35.1 % della media UE27), mentre tra i giovani tra i 25 e 34 anni solo il 30.6 % contro il 43.1 % UE27), ma solo 1 laurea su 4 è STEM, cioè una laurea tecnico-scientifica, quelle più attuali, che garantiscono maggiore occupazione ed in genere tra le più difficili da ottenere.
Secondo uno studio dell’università di Pisa tra il 2011 ed il 2023 circa 550 mila giovani tra i 18 ed i 34 anni sono andati a lavorare all’estero, quasi la metà è laureata, con una presenza di laureati STEM maggiore della percentuale italiana. Secondo il sole 24 ore, circa il 5 % dei laureati italiani è andato a lavorare all’estero (ma in campo tecnico-scientifico questa percentuale è più che doppia).
Noi siamo il paese che a capo della commissione sull’IA prima voleva mettere un giurista di oltre 90 anni e poi ha messo un divulgatore del Vaticano di oltre 50 anni, che ha fallito nel cercare di laurearsi in ingegneria.

pendesini alessandro

Non posso fare altro che ripetermi : Qualche tempo fa il ministro dell’istruzione, una certa Moratti, ha proposto di sostituire l’insegnamento dell’evoluzionismo col CREAZIOINISMO ! No comment…Ultimamente il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara ha inserito nelle nuove indicazioni nazionali nientepopodimeno la lettura della Bibbia fin dalla scuola primaria per « rafforzare le conoscenze delle radici della cultura italiana » !….
E questo il nuovo ministro della cultura Alessandro Giuli e « soci » dovrebbero sapere che un corso di scienza che non stimola il pensiero critico e non impara a pensare razionalmente non è l’insegnamento della scienza, ma un insegnamento della sottomissione.
La scuola in Italia è tuttora didatticamente strutturata secondo un’impostazione « autoritaria », che al massimo consente l’acquisizione delle nozioni, non certo delle modalità creative e critiche attraverso cui avviene la produzione della conoscienza scientifica…
Esistono eccezioni, certo, ma non sono la regola, la confermano…
Nel panorama europeo, l’Italia è veramente messa male! In primo luogo perché le università italiane, nonostante l’autonomia, non riescono a dedurre la loro dipendenza dai finanziamenti governativi, che erano vicini all’80% nel 2002, con solo 16 università sotto il 70%. L’Italia è inoltre il Paese con i più bassi finanziamenti privati all’università : 5% del totale contro il 12% della Spagna o addirittura il 25% della Grand Bretagna. Il disinteresse e l’incapacità dei diversi governi per creare condizioni che incentivino investimenti privati e donazioni sono incredibilmente vergognosi. E pensare che le università italiane erano tra le più produttive in Europa !

RobertoV

Valditara ha anche rimarcato l’importanza dello studio a storia del cristianesimo e dell’occidente (identificato come cristiano), in una logica coloniale ottocentesca (d’altronde il suo consigliere era lo pseudo storico nostalgico Galli della Loggia, giornalista che si occupa di politica e propaganda) e dello studio a memoria che è la negazione del pensiero critico e scientifico, vuole più latino e meno preistoria e dinosauri (che proprio non gli piacciono, magari perché disturbano il terrapiattismo) come se adesso se ne facesse tanto, oltre all’importantissima scrittura in corsivo e alla battaglia in stile luddista contro i cellulari.
Difficile che i privati finanzino l’università in Italia perchè sono favorevoli alla ricerca solo a parole e se paga lo stato (tra l’altro il nostro capitalismo è sempre a battere cassa presso lo stato per qualunque investimento), non nei fatti visto che in Italia abbiamo svenduto e smantellato vari centri di eccellenza del passato, nel campo chimico e petrolchimico, dell’elettronica, del nucleare, ecc. e le nostre aziende sono prevalentemente medio-piccole (tra l’altro ciò che da noi viene definito medio, nell’UE è considerato piccolo), a conduzione famigliare, con basso livello di istruzione, poco adatte e sensibili alla ricerca e tecnologia.

enrico

Roberto l’Italia è vittima di un clericalismo strisciante che occupa tutti gli spazi. In questi giorni sono alle prese con l’IA .Da non credere anche le risposte che dovrebbero essere assolutamente neutre profumano di sacrestia e incenso. Ma siccome l’argomento “biricchino” del sottoscritto non è contemplato le loro risposte sono imbarazzanti e sgradevoli.

RobertoV

Domani inizia il famoso meeting dell’amicizia di Rimini organizzato dalla lobby affaristica clericale di CL, fortemente filoberlusconiana, che muove l’intera Italia, vi accorrono a genuflettersi politici sia di destra che di sinistra, stuoli di ministri, lo stesso presidente della Repubblica, è sponsorizzato e vi espongono le principali aziende italiane quali l’ENI, le Ferrovie dello Stato, Autostrade, ecc. (purtroppo quest’anno anche la mia azienda che non vi aveva mai partecipato prima), dove addirittura si annunciano leggi ancora non discusse in parlamento.
Qui in Lombardia CL ha le mani in pasta nella sanità, nell’istruzione ed ha avuto per 20 anni a capo l’affarista condannato Formigoni. Vi sono le banche cattoliche a finanziare e fare i loro giochi come abbiamo ben visto in passato. Quest’anno c’è pure il giubileo degli imprenditori e nel 2022 addirittura una assemblea di Confindustria fu tenuta in Vaticano.
Non stupisce che cerchino di mettere le mani sull’IA, senza preoccuparsi degli aspetti tecnologici e di consumi energetici, ma dell’etica e dell’informazione, appaltandone il controllo al Vaticano. Anche su wikipedia basta fare il confronto tra l’informazione in italiano e quella in inglese e tedesco su argomenti religiosi e non.

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