La miniserie Adolescence denuncia la radicalizzazione misogina tra i giovani, rifiutando ogni lettura religiosa. Mostra fragilità adolescenziali e fallimenti educativi, sollecitando una risposta laica. Ne parla Micaela Grosso sul numero 4/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Da ormai qualche mese è uscita Adolescence, la miniserie che ha fatto molto parlare di sé fin dal debutto su Netflix, e che ha totalizzato numeri pazzeschi: oltre 96 milioni di visualizzazioni nelle prime tre settimane.
L’attenzione pubblica è stata catalizzata non solo per la potenza narrativa del prodotto, ma anche per la virulenta discussione pubblica accesa intorno ai temi della misoginia e del bullismo digitale. Nel Regno Unito Keir Starmer, il primo ministro, ha promosso la proiezione gratuita della serie nelle scuole secondarie, come punto di partenza per un tavolo educativo sul fenomeno della “manosfera” online.

Per dare una definizione, si può dire che manosfera sia un termine ombrello che riunisce una serie di comunità online, siti web e forum dedicati a ideologie antifemministe e misogine, spesso promuovendo punti di vista che si diramano dalla difesa dei “diritti degli uomini” (Men’s Rights Activism), toccano teorie cospirative sulla presunta sottomissione maschile (Mgtow – Men Going Their Own Way) per arrivare a forme più estreme e violente come quelle degli “incel” (involuntary celibates). Si tratta di comunità che condividono la convinzione che la società moderna sia iniquamente sfavorevole agli uomini, situazione della quale attribuiscono la colpa spesso a movimenti femministi e alle donne.
Anche in Francia, dopo un’iniziale resistenza, il ministero dell’istruzione ha deciso di includere Adolescence nei programmi di sensibilizzazione delle scuole superiori, e ha deciso di affiancarla a cinque lezioni specifiche sul sessismo digitale e la violenza giovanile.
A livello squisitamente personale, accolgo questa scelta con una certa perplessità, dal momento che far diventare una serie televisiva un “caso educativo” nelle aule scolastiche pone interrogativi importanti. Ad esempio: può uno spettacolo potente ed emotivamente crudo sostituire o integrare efficacemente percorsi strutturati di educazione emotiva e digitale? E soprattutto, quale garanzia si avrebbe che un tale percorso possa venire accompagnato da strumenti pedagogici adeguati e mediatori culturali in grado di guidare i giovani verso una riflessione critica e non solo emotiva?
Al di là di queste considerazioni, Adolescence è un prodotto che, a prescindere, ha il potere di smuovere. In quattro episodi girati interamente in piano-sequenza, la serie riesce a trasmettere con intensità claustrofobica il senso di urgenza, di disorientamento e disagio dell’età adolescenziale. Grazie alla regia e alla sceneggiatura la tecnica, lungi dall’essere un virtuosismo fine a sé stesso, diviene linguaggio: sopprime le interruzioni, annulla la distanza tra spettatore e protagonista e costringe a una visione ravvicinata, a tratti disturbante, della crisi in atto.
Gli attori Owen Cooper, Erin Doherty e Stephen Graham si muovono con grande naturalezza all’interno di questa scelta estrema e regalano al pubblico interpretazioni magnetiche, tese, autentiche. Tutte le espressioni, le pause, ogni minimo tic diventano parte di un dialogo tra dolore e silenzio e hanno il potere di rendere l’esperienza di visione emotivamente totalizzante.
Dal punto di vista tematico, a mio avviso, il merito maggiore della serie risiede nella scelta di affrontare senza edulcorazioni il fenomeno della radicalizzazione incel, una tematica ancora marginale nella narrativa mainstream, che viene qui messa in primo piano non come fenomeno da stigmatizzare passivamente, ma come processo sociale da osservare nella sua genesi.
Il protagonista di Adolescence, Jamie, ha 13 anni e non è un “mostro” né un “malato”: è un ragazzo nella media, inserito in un contesto familiare e scolastico ordinario, immerso però in una rete digitale che amplifica il disagio, lo orienta, lo trasforma: Jamie finisce per uccidere una compagna di scuola a coltellate. In questo senso la serie tocca un punto nevralgico del presente: la cosiddetta “normalità” non è più un argine alla radicalizzazione, ma può diventare il suo incubatore.
Tuttavia, pare che Adolescence si fermi un passo prima del quadro completo. La sceneggiatura mostra l’effetto – l’isolamento, la misoginia, la manipolazione off e online – ma tace sulle cause profonde. Manca un’indagine sui presupposti psicologici, sociali ed educativi che rendono possibile questa deriva. Come osservato da diversi articoli e recensioni online, si tratta forse di una scelta consapevole, che mira a focalizzarsi sull’estremizzazione visibile ma che finisce per lasciare scoperta la zona grigia in cui tutto ha, plausibilmente, inizio: la povertà relazionale, l’analfabetismo emotivo, l’assenza di modelli di mascolinità alternativi.
Può essere utile, per interpretare le dinamiche che sospingono le azioni di Jamie, il riferimento alla teoria dell’attaccamento di John Bowlby, secondo la quale lo sviluppo affettivo è profondamente influenzato dalle relazioni precoci: Jamie non è spinto alla violenza da una causa unica, ma da una frattura sottile e continua, cumulativa: la sua solitudine emotiva cronica trova sfogo e conferma nei meccanismi tossici della “manosfera” online.
Le comunità incel diventano così catalizzatrici, poiché offrono agli accoliti un linguaggio, una retorica, una causa in grado di occupare il vuoto percepito. Il rischio di una simile lettura è però quello di concepire questi contesti solo come aberrazioni ideologiche, trascurando il fatto che si tratta anche di dispositivi di appartenenza per soggetti in cerca di riconoscimento.
A ben vedere, uno degli aspetti più forti – e più allarmanti – della serie è la frattura tra adulti e adolescenti. Il detective Bascombe, incaricato delle prime indagini, seppur dotato di empatia è un uomo che appare spiazzato e disarmato di fronte al mondo che Jamie abita. La chiave di lettura gli viene concessa non per merito, ma per pietà dal suo stesso figlio, studente alla scuola di Jamie, che lo introduce alla narrativa della manosfera presente su Instagram, il linguaggio incel che è fatto di riferimenti ed emoticon ed è a tutti gli effetti un codice inaccessibile agli adulti o a chi è esterno.
I riferimenti specifici non sarebbero infatti colti se non si conoscesse il sottotesto culturale: l’emoticon della pillola rossa, usata dagli studenti nella serie (e diffusa realmente, oggi, online) è un simbolo mutuato dal film Matrix; nel gergo dell’ambiente incel rappresenta il “risveglio” alla presunta verità nascosta secondo la quale gli uomini sarebbero svantaggiati da un sistema dominato dalle donne e dal femminismo.
Un’ideologia che si intreccia con la cosiddetta teoria dell’80/20, altro pilastro della manosfera, secondo cui l’80% delle donne cercherebbe partner solo nel 20% degli uomini “alfa”, condannando i “beta” all’invisibilità e alla frustrazione sessuale. Si tratta, ai nostri occhi, di teorie semplicistiche, pseudoscientifiche, ma che diventano altamente persuasive in una fase della vita – come l’adolescenza – segnata da insicurezza, bisogno di identità e fame di appartenenza.
Questa dinamica sottolinea un punto cruciale: l’adulto ormai non è più guida o contenitore, ma è uno spettatore smarrito. Tanto che la narrazione, in questo senso, lascia volutamente in ombra figure fondamentali come genitori, insegnanti, educatori: il loro silenzio – o, ancor peggio, la loro presenza inefficace – non è solo un elemento narrativo, ma un messaggio: il fallimento educativo non è una colpa individuale, ma un vuoto sistemico.
C’è da ammettere che nel suo rigore narrativo, Adolescence si mantiene lontano dal rischio della predica o del moralismo ma nel farlo rinuncia in parte anche a offrire strumenti: seguendo la vicenda lo spettatore resta attonito, disorientato, privo di percorsi cognitivi o preventivi. È una scelta che può essere letta come rispetto dell’intelligenza di chi guarda la serie ma che rischia al contempo di lasciare campo libero all’effetto shock, senza alcuna possibilità di rielaborazione.
L’assenza di strumenti educativi, affettivi, sociali o istituzionali viene mostrata, ma non viene problematizzata. Il risultato della visione è così un horror esistenziale, senza contromisure, che potrebbe facilmente essere strumentalizzato da chi cerca nemici invece di soluzioni.
Una delle scelte più intelligenti – e in linea con la sensibilità laica – è l’assenza di riferimenti religiosi. Non è presente in Adolescence nessun prete, nessun rito, nessuna invocazione. Ciò, probabilmente, in considerazione del fatto che la sofferenza di Jamie non è spirituale, ma radicalmente umana: nasce dalla mancanza di legami, non dalla mancanza di fede.
Questo dettaglio – spesso trascurato in analisi più superficiali – rappresenta un punto di forza narrativo e concettuale: in una società in cui la religione è ancora troppo spesso chiamata in causa per fornire senso, redenzione o consolazione, la serie sceglie di non cedere alla tentazione trascendente, ma mostra la realtà per quella che è: brutale, opaca, difficile da comprendere, ma concreta. In questo senso, potremmo dire che l’opera si collochi su un piano etico razionalista: nessuna scorciatoia, nessun alibi, nessun assoluto.
Adolescence è una fiction potente, stilisticamente impeccabile, narrativamente audace; un prodotto che prova a fare luce su un fenomeno complesso e pericoloso, portandolo al centro del discorso pubblico. Il suo impatto, tuttavia, resta più diagnostico che trasformativo perché non offre vie d’uscita, non fornisce griglie interpretative, non suggerisce contromisure.
Dal (nostro) punto di vista razionalista, questa è un’occasione da non perdere: un’opera come Adolescence può – e deve – essere il punto di partenza per una riflessione collettiva sulle responsabilità educative, sulle politiche dell’ascolto, sulla necessità di una cultura dell’affettività laica e inclusiva. Mostrare il male non basta: la vera sfida è comprenderlo, contestualizzarlo, decostruirlo.
Micaela Grosso
Approfondimenti:
- The Times: Adolescence to be shown in French schools to raise awareness of misogyny
- Sky Tg24: Adolescence, il governo inglese farà proiettare la serie tv nelle scuole britanniche
Iscriviti all’Uaar Abbonati Acquista a €2 il numero in digitale
Sei già socio? Entra nell’area riservata per scaricare gratis il numero in digitale!

Quindi sarebbe da proporne la visione agli adolescenti anche in Italia…
chi sarà a dire di NO: la Città del Male? Fratelli e Cognati d’Italia?…
……può uno spettacolo potente ed emotivamente crudo sostituire o integrare efficacemente percorsi strutturati di educazione emotiva e digitale? E soprattutto, quale garanzia si avrebbe che un tale percorso possa venire accompagnato da strumenti pedagogici adeguati e mediatori culturali in grado di guidare i giovani verso una riflessione critica e non solo emotiva?……
….. Mostrare il male non basta: la vera sfida è comprenderlo, contestualizzarlo, decostruirlo…….
Detto questo….detto tutto !
Quando non esiste una struttura familiare o culturale, vediamo riapparire molto rapidamente processi di socializzazione arcaici, cioè la legge del più forte.
La sfida di questo secolo è, infatti, quella di educare i bambini e programmare i computer, non solo accumulando conoscenze, statistiche, big data, algoritmi, strati profondi e insondabili, ma dotandoli, di fronte a pregiudizi ed euristiche, di un robusto meccanismo antagonista di inibizione. Questa è l’intelligenza : resistere! Il pensiero è sempre contro se stessi. Imparare significa inibire a livello cognitivo, imparare significa eliminare a livello neuronale !
Il dramma della nostra società consumistica ci fa sostituire gradualmente una presenza amorevole con un oggetto sostitutivo che dovrebbe riempire il nostro vuoto. Si regredisce allora verso il regno animale dove la parola non è più necessaria e dove il simbolico è sostituito dall’oggetto che solo è diventato capace di portare godimento. Anche questa è perversione ordinaria…..Un tempo, temevamo che i nostri figli incontrassero situazioni spiacevoli per strada. Dicevamo loro di non parlare con gli sconosciuti. Ma non lo diciamo, o lo diciamo troppo poco, del mondo virtuale. Abbiamo l’impressione che a un adolescente seduto nel nostro salotto non possa succedere nulla. Con il flusso di fake news, i rischi di radicalizzazione o indottrinamento online non sono trascurabili. Un genitore su dieci non si rende conto che il proprio figlio è stato esposto a contenuti violenti o scioccanti online.
NB : Un lungo rapporto nella Silicon Valley (USA) dimostra che i GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) non sono lì per salvare l’umanità, o istruirla, ma per rimbecillirla e monetizzare il tempo cerebrale disponibile di questi nuovi « schiavi »….