L’insegnamento della religione cattolica viene impartito nelle scuole italiane da decenni e le questioni ancora aperte sono tante. Un nodo irrisolto, se non con soluzioni provvisorie e non rispettose dei diritti di chi non si avvale dell’IRC, è quello della dignità per le alternative. Al fine di comprendere meglio la questione abbiamo voluto dare spazio sul nostro blog a Silvano de Bortoli, ex docente di religione ed esperto in materia, per una disamina approfondita su questioni come il rapporto tra IRC e alternativa, le evoluzioni a livello giuridico, il ruolo privilegiato dell’ora di religione in una società dove la Chiesa cattolica perde influenza, le prospettive future per lRC e alternative, le sfide della scuola di domani e il ruolo che potrebbe avere l’etica laica.
Come nasce l’alternativa all’IRC?
Con la parola “alternativa” – soprattutto dalla seconda metà dei trascorsi anni Ottanta – si è soliti indicare il complesso di ore e attività dedicate a compensare la non fruizione dell’insegnamento di “religione cattolica”. Se non ci fosse l’insegnamento cattolico, secondo gli attuali dispositivi statali non ci sarebbero neppure ore e attività “alternative”.
Queste dipendono non solo dalle proposte delle scuole e dalle scelte degli allievi, ma da un’opzione che le precede, prevista nel 1984 dall’Accordo di revisione del Concordato fra Vaticano e Italia e nel 1985 dall’Intesa CEI-MPI: la scelta previa di avvalersi o no dell’insegnamento cattolico, tramite decisione espressa al momento dell’iscrizione, su richiesta dell’autorità scolastica, nel rispetto della libertà di coscienza e senza alcuna discriminazione.

Di questa alternativa prima, e dei suoi effetti sulle ulteriori alternative e opzioni, finora si è discusso poco e poco si è deciso. Nella prassi, nonostante l’obbligata “scelta” per il sì o il no fosse determinante e carica di implicazioni per la scuola, sovente si è preferito glissare, a tal punto che ancor oggi, dopo 40 anni, quella “opzione imposta” continua a regnare indisturbata e sovrana, e condiziona le sorti dell’insegnamento cattolico e delle attività alternative.
All’inizio è di fatto un “esonero”
Nel nuovo corso concordatario la modalità di scelta di non avvalersi riecheggia quella della richiesta di esonero in vigore nel vecchio regime: occorre dichiarare esplicitamente che non si vuole l’insegnamento cattolico, e non basta non frequentarlo. Analogamente l’insegnamento cattolico continua a sussistere nella scuola come era prima dell’Accordo di revisione e dell’Intesa, seppure presentato sotto la nuova e perplessa dicitura di insegnamento culturale anziché confessionale, e fatto scegliere da studenti o genitori, anziché essere impartito d’ufficio senza previo interpello.
La logica conseguenza dei principi posti dalla revisione concordataria avrebbe potuto far pensare che, trattandosi di esercizio di una facoltà in condizioni di libertà di coscienza e non discriminazione, soltanto chi intendeva avvalersi dell’insegnamento cattolico avrebbe dovuto chiederlo e la scuola avrebbe dovuto organizzare i corsi di religione in orario aggiuntivo rispetto a quello degli insegnamenti obbligatori, senza per questo impegnare gli alunni non avvalentisi in una diversa occupazione scolastica, parallela e simmetrica all’insegnamento cattolico, quasi che dovessero subire la pena del contrappasso.
Ma così non fu. Il retaggio del cattolicesimo “religione di Stato” era ancora molto presente e per lo Stato italiano, e la scuola statale, non era agevole ripensarsi e organizzarsi secondo criteri di laicità ed equidistanza dalle religioni, e soprattutto dalla confessione cattolica; né era facile per la chiesa cattolica accettare di essere relativizzata e consentire che il suo insegnamento scolastico da obbligatorio divenisse effettivamente, e non solo nominalmente, facoltativo, e fosse esposto alla competizione di altre offerte formative.
Entrambi i contraenti assunsero perciò una attitudine apparentemente coraggiosa nei principi, ma assai prudente nei fatti; e la manifestarono nell’Accordo di revisione con il paradosso della scelta obbligata su richiesta dell’autorità scolastica; e nell’Intesa con la previsione di durata indeterminata della scelta di insegnamento cattolico e della collocazione di questo, al pari delle altre discipline, all’interno di tutte le classi e dell’orario curriculare delle lezioni.
Contrarietà e delusione per il nuovo assetto erano allora visibili tra atei, agnostici, cultori della laicità, ma anche fra appartenenti ad altre confessioni, religioni e spiritualità, oltre che tra cattolici e non pochi docenti di religione i quali, se prima della revisione del Concordato chiamavano paradossalmente la loro materia soltanto “religione” e la svolgevano modulando le lezioni in relazione al contesto, dopo dovettero denominarla “religione cattolica” e insegnarla come tale, sebbene il cattolicesimo non fosse religione ma soltanto una confessione.
Il Ministero interviene (malamente) con le circolari
La pretesa cattolica di sicurezza e non emarginazione del proprio insegnamento facoltativo trovò consenziente l’apparato ministeriale e nessuno dei decisori politici scolastici si preoccupò di stipulare l’Intesa con la CEI tenendo conto, contestualmente e contemporaneamente, anche della concreta condizione di coloro che non si sarebbero avvalsi delle ore di “religione cattolica”, e delle concrete possibilità del sistema scolastico di corrispondere in pari orario alle diverse istanze.
E così, solo dopo aver dato piena configurazione e garanzia all’insegnamento cattolico, il Ministero della Pubblica Istruzione pensò alla condizione degli studenti non avvalentisi e alla conseguente organizzazione scolastica, e diramò alle scuole in rapida successione alcune circolari contenenti indirizzi, che si rivelarono subito piuttosto problematiche.
Quelle circolari erano giuridicamente deboli perché, essendo soltanto atti amministrativi, non avevano forza di legge, qualità che invece era stata attribuita dallo Stato all’insegnamento cattolico attraverso la recezione legale dell’Accordo neoconcordatario e dell’Intesa. Erano quindi pesantemente segnate da limitazioni e vincoli derivati da quelle norme sovraordinate, e comportavano da un lato il rischio di interpretazioni non corrette o arbitrarie dei patti stipulati – i quali sul punto erano più di principio che regolamentari della concreta operatività scolastica – e dall’altro rischiavano quello che subito accadde, ossia di risultare al tempo stesso estemporanee nei contenuti, proposte senza adeguata ponderazione e avulse dalle concrete realtà scolastiche e dalle possibilità di queste di ridefinirsi sulla base delle indicazioni diramate.
L’impatto delle circolari – in un sistema scolastico allora rigidamente strutturato e poco dinamico – fu inizialmente sporadico, aleatorio, confusivo, caotico. In molte scuole chi non fruiva dell’insegnamento cattolico si autodeterminava come meglio poteva; in altre direttori, presidi, maestri e professori cercavano di favorire attività di studio personale e dar vita spontaneamente ad attività formative e culturali che potessero offrire qualcosa agli allievi che non frequentavano l’insegnamento cattolico e tuttavia dovevano rimanere a scuola.
Le indicazioni didattiche ministeriali erano generiche, facevano riferimento al diritto umanitario, alle virtù civiche, alla buona condotta, ma non caratterizzavano un corpus specifico, articolato e completo, in grado di porsi quale disciplina alternativa all’insegnamento cattolico. Né segnalavano le buone pratiche che potevano derivare dalla rassegna di quanto si svolgeva allora negli altri Paesi in alternativa all’insegnamento di “religione cattolica”. Tanto meno accennavano allo studio scientifico dei fenomeni religiosi, o a quello comparativo delle varie religioni e spiritualità, comprese le visioni atee e agnostiche. E ancor meno prevedevano un solido organico di docenti dedicati alle attività alternative.
I tribunali fanno chiarezza sul diritto all’alternativa
La strada era quindi tutta in salita: l’alternativa lasciata alle spontanee iniziative scolastiche, se e quando assunte; e gli allievi non avvalentisi semiabbandonati, oppure in biblioteca a studiare, o in qualche aula a seguire le occasionali attività proposte, senza alcuna possibilità di lasciare la scuola.
Il malcontento delle famiglie e degli alunni, ma anche del personale scolastico e delle associazioni laiche, crebbe rapidamente e non mancarono le reazioni, anche in ambito giurisdizionale. Così si arrivò, tra le altre, alla nota pronuncia costituzionale che sentenziò: «l’alternativa è uno stato di non obbligo», ovviamente per gli allievi, mentre era ed è obbligatoria per l’organizzazione scolastica.
Merita osservare che l’estensore di quella sentenza – che vale anche quale testo di definizione della laicità dello Stato in un Paese come l’Italia che non aveva e non ha ancora una legge sul punto – paradossalmente fu proprio un cattolico, Francesco Paolo Casavola, preoccupato di non discriminare o vincolare coloro che non si avvalevano delle ore di “religione cattolica”. A costoro non doveva essere imposta un’attività alternativa all’insegnamento cattolico per il semplice fatto che avevano scelto di non frequentarlo, ed essi non avevano alcun obbligo di rimanere a scuola.
Dopo quella sentenza CEI e MPI avrebbero dovuto rivedere l’Intesa stipulata e prevedere la collocazione dell’insegnamento di “religione cattolica” in orario aggiuntivo rispetto a quello obbligatorio. Ma il timore che tale clausola determinasse una drastica riduzione della quantità di frequentanti l’insegnamento cattolico fece lasciare le cose come erano in precedenza. Da allora, ed era la fine degli anni ’80, le criticità si sono via via cronicizzate, lasciando molti insoddisfatti e non pochi rassegnati.
Negli anni successivi, grazie al maggior dinamismo impresso all’ordinamento scolastico – che aveva ottenuto la relativa autonomia delle scuole con offerte formative proprie e non eterodirette – e grazie al continuo impegno di vari docenti e di gruppi e associazioni, l’alternativa si affermava e si estendeva in molte scuole, seppure entro i limiti e le incertezze che l’avevano segnata fin dall’origine.
Era sostenuta sul piano normativo-scolastico da vari ricorsi giurisdizionali, operati soprattutto dall’Uaar, che ha il merito di aver suscitato e ottenuto varie pronunce, le quali hanno acclarato che la scuola è obbligata ad organizzare l’alternativa e lo deve fare prima dell’inizio dell’anno scolastico e a prescindere dalla quantità di richiedenti. Inoltre l’alternativa era ed è sostenuta, anche sotto il profilo pedagogico-didattico, da docenti, istituti scolastici e dalla stessa Uaar, che ha generosamente predisposto e messo a disposizione delle scuole vari testi e supporti per l’alternativa.
Continua a calare la frequenza all’IRC
Parallelamente alla crescita lenta ma costante dell’alternativa, aumentava via via la quantità di genitori e allievi che sceglievano di non avvalersi dell’insegnamento cattolico, e non solo per la crescente disaffezione da quella confessione religiosa ma anche per la qualità perplessa dell’insegnamento cattolico, ritenuto inadeguato da vari punti di vista sia dai fruitori sia dagli studiosi della materia, che lo avevano sottoposto a critica e ne avevano delineato radicali modifiche e sostituzioni.
I presìdi giuridici e amministrativi posti dalla CEI e dal governo italiano a tutela della “religione cattolica” a scuola sono divenuti di conseguenza sempre più labili. Non è bastato blindare nelle classi e negli orari l’insegnamento cattolico per evitargli smottamenti; né disincentivare l’alternativa, non organizzandola o tenendola in secondo piano; e neppure è bastato qualche modesto aggiornamento dei programmi e dei testi di “religione cattolica”, o il ricorso ad una maggioranza di docenti laici; né basta dichiarare che l’insegnamento cattolico a scuola oggi è e vuole essere dialogico, interreligioso, multiculturale, partecipe dell’interesse generale e dell’educazione condivisa.
La continua, seppure lenta, diminuzione del suo peso scolastico è evidente, e ci sono vari motivi che inducono a ritenerla inesorabile, dati i mutamenti demografici, culturali e religiosi verificatisi negli ultimi decenni ed esprimenti tendenze di non breve periodo.
Una Chiesa in crisi, nella scuola e nella società
La Chiesa cattolica non può pretendere oggi di essere l’unica titolata nella scuola italiana a parlare di religione, tanto meno può pretendere di parlare a nome delle altre confessioni o religioni presenti in Italia e nel mondo, oppure a nome di chi è ateo o agnostico, o di chi studia e insegna i fenomeni religiosi con metodo scientifico anziché con approccio confessionale. Neppure può pretendere o pensare di rendere il proprio insegnamento concordatario di interesse generale rivolgendolo anche a chi ha deciso di non avvalersene.
Sebbene non lo dicano pubblicamente c’è motivo di pensare che i vertici ecclesiastici siano consapevoli che l’insegnamento scolastico di “religione cattolica” è oggi per la chiesa più un peso che un’opportunità. Gli istituti diocesani di scienze religiose, sorti in tutta Italia per formare i nuovi docenti laici di “religione cattolica”, se non già chiusi, sono spesso un costo a scarso ricavo, dato che i docenti laici, una volta formati e inseriti nella scuola, diventano dipendenti pubblici stipendiati e autoriferiti, a differenza degli insegnanti preti che in passato con lo stipendio della scuola mantenevano sé stessi e la Chiesa.
Inoltre dall’insegnamento cattolico a scuola la chiesa non deriva nuovi cattolici frequentanti, né sembra essere in grado di incidere in maniera significativa sulla cultura religiosa dei ragazzi italiani che, quando sono intervistati, mostrano di conoscere quasi nulla del cattolicesimo.
Quello che poi più rileva è che la Chiesa italiana stessa, alla base come al vertice, si ritiene oggi minoranza sociale, convinta che il regime di cristianità è finito, ci sono sempre meno preti e fedeli, le chiese e le parrocchie – in passato diffuse capillarmente sul territorio nazionale – ora prima si accorpano poi chiudono, e quindi non resta altro che serrare le fila e vivere o nella diaspora o in una piccola chiesa più o meno settaria.
Stanti queste premesse si potrebbe pensare che la Chiesa italiana non riuscirà a sostenere l’insegnamento cattolico di massa, se non al prezzo di una vistosa dissonanza cognitiva tra l’essere socialmente minoritaria e scolasticamente maggioritaria, una dissonanza, questa, che potrebbe essere gravata da rilevanti implicazioni negative: come quella che vedrebbe nella scuola l’insegnamento cattolico sussistere per mero artificio organizzativo della scelta obbligata e dell’erogazione certa, similmente a quanto accade con il dispositivo capzioso dell’8×1000 che dà alla Chiesa molto più di quanto gli italiani le destinano; oppure quella che porterebbe quel che resta della Chiesa cattolica a svolgere, a proprie spese, la sola funzione di ufficio di collocamento di nuovi docenti che, una volta assunti nella scuola statale e divenuti di ruolo, diverrebbero pienamente autosufficienti, lasciando alle spalle la struttura di provenienza.
Sebbene due sociologi francesi, Danièle Hervieu-Léger e Jean-Louis Schlegel, abbiano preconizzato «l’implosione» del cattolicesimo, e questa in linea teorica non sia affatto da escludere anche in Italia, sembrerebbe tuttavia irragionevole ritenere che la Chiesa cattolica italiana arrivi fino a subire l’implosione o la consunzione dell’insegnamento cattolico concordatario sostenendo – per semplice coazione a ripetere o pura ostinazione – qualcosa che, da vari punti di vista e da non poco tempo, ha già ampiamente manifestato la sua insostenibilità.
Quali prospettive per l’IRC?
A 40 anni dalla Revisione del Concordato e dell’Intesa base tra CEI e MPI sembrerebbe pertanto auspicabile non tanto celebrare la data e tessere le lodi dell’insegnamento cattolico scolastico, quanto piuttosto liberarsi dall’anacronistico privilegio concordatario e agire un ripensamento generale della questione, superando le criticità e affacciandosi alle nuove opportunità che si stanno dischiudendo.
La CEI, se volesse, potrebbe valutare l’opportunità di rivedere l’Intesa con il Ministero rinunciando in tempi brevi all’insegnamento neoconcordatario massivo e ubiquitario, e lasciando l’insegnamento cattolico – al pari di quello di altre confessioni o religioni dotate di un’Intesa con lo Stato, ma anche di quello di altre spiritualità o visioni, comprese quelle atee e agnostiche – alla libera richiesta delle scuole e degli alunni, da soddisfare fuori dell’orario obbligatorio delle lezioni.
In questo modo realizzerebbe qualcosa di più rispettoso delle altre confessioni, religioni, spiritualità, oltre che della libertà di coscienza delle persone, e qualcosa di più corrispondente alla laicità della scuola e alla pluralità sociale, ma anche alle proprie condizioni strutturali e funzionali attuali, e alle attese di non pochi cattolici, che auspicano un deciso cambio di passo.
Questa metamorfosi potrebbe esigere alcuni anni per realizzarsi compiutamente, ma i tempi dovrebbero essere definiti e dichiarati, e la trasformazione dovrebbe comunque essere compiuta nel breve periodo e in modalità aperta e dinamica, con la consapevolezza di realizzare un passaggio intermedio, che in tempi non lunghi potrebbe cedere il passo ad una nuova configurazione scolastica, ancor più corrispondente ai bisogni educativi degli alunni e alle esigenze formative conseguenti ai mutamenti umani e sociali intervenuti negli ultimi decenni da un lato e dall’altro alle nuove disponibilità culturali, formative e didattiche.
E quali prospettive per le alternative?
Lo stesso si potrebbe pensare per le attività alternative. Sono certamente da sostenere e promuovere al posto dell’insegnamento cattolico, e finché questo durerà, saranno da svolgere a garanzia della libertà di coscienza, della laicità della scuola, della non discriminazione dei non avvalentisi e di una adeguata offerta formativa anche per loro. Le attività alternative meriterebbero di divenire casi di studio, almeno in qualche tesi di dottorato in pedagogia o didattica o in organizzazione scolastica, per tutto quello che hanno comportato e tuttora implicano in termini di iniziative, risorse, scelte disciplinari e formative, attitudini auto-organizzative, competenze didattiche, modalità di svolgimento e risultati.
La ricerca applicata alle attività alternative potrebbe offrire più di qualche spunto e contributo all’aggiornamento delle altre attività scolastiche, spesso ancora troppo ancorate a modelli rigidi di discipline, programmi, classi e orari, con esiti formativi inferiori a quelli di modelli più flessibili, interagenti e personalizzati, utilizzati in altri Paesi e in Italia soltanto in alcune scuole particolari.
Le attività alternative, per essere diffuse e maggiormente efficaci, meriterebbero di transitare dalla spontaneità circoscritta ad una organizzazione più strutturata e generalizzabile. A tal fine potrebbero essere considerati, in successione logica e cronologica, cinque passaggi.
Il primo è di rendere, per via amministrativa o giurisdizionale, contestuale e contemporanea la scelta dell’insegnamento cattolico e delle varie alternative ad esso. È infatti irragionevole che i genitori o gli alunni scelgano di avvalersi o no dell’insegnamento di religione senza conoscere, prima di questa scelta, che cosa potrebbero trovare nel caso non fruissero dell’insegnamento cattolico. Non c’è alcuna norma cogente che obbliga le scelte differite, prima sì o no a “religione cattolica” poi, se si è optato per il no, la scelta di qualche alternativa.
E non c’è alcuna violazione della libertà di coscienza e della libertà di religione o di principi e criteri dell’organizzazione scolastica se i richiedenti si trovano a esercitare una sola opzione in un unico questionario contenente l’insegnamento cattolico, l’uscita da scuola se possibile, lo studio individuale assistito, una delle varie attività alternative già strutturate e proposte dalla scuola, e l’attività alternativa proposta dal richiedente stesso in uno spazio apposito della scheda, realizzabile se compatibile con l’organizzazione e le norme dell’ordinamento scolastico.
Un secondo passaggio consiste nella richiesta al Ministero di prevedere in bilancio una specifica posta finanziaria per le attività alternative all’insegnamento cattolico, equivalente a quella prevista per la “religione cattolica” a scuola. Attualmente i due differenti impegni scolastici confluiscono nella stessa posta e non è facile conoscere quanto vada all’uno e quanto all’altro, anche se è verosimile che la maggior spesa sia per la “religione cattolica” a scuola.
Senza risorse adeguate che assicurino mezzi e persone è difficile dare sostanza, solidità e rendere generalizzabili le attività alternative. Dato che lo Stato e il Ministero non devono boicottare le attività alternative per via finanziaria, ove occorresse dovranno procedere ad una perequazione tra le risorse messe a disposizione dell’insegnamento cattolico e quelle per le attività alternative, eventualmente integrando finanziariamente le voci carenti.
Un terzo passaggio riguarda lo stato giuridico dei docenti di alternativa. Finora essi esistono e operano in forza di circolari ministeriali che prevedono il ricorso all’attività di insegnanti che nella scuola hanno disponibilità di ore e, soltanto in via residuale, all’assunzione di docenti, ma soltanto in funzione di supplenti.
Questo assetto stride vistosamente con lo stato giuridico degli insegnanti di “religione cattolica”, approvato nel 2003 con specifica legge, che prevede la loro assunzione in ruolo quali docenti titolari della materia. Quello pensato e praticato per i docenti di alternativa è un assetto ingiusto e discriminatorio, e necessita di essere rapidamente superato, tanto più ora che l’abuso di incarichi a tempo determinato nella scuola è pesantemente sanzionato dalla magistratura del lavoro, con obblighi risarcitori persino nei confronti dei docenti di “religione cattolica” ritenuti abusati.
È del tutto irragionevole che ai docenti di alternativa non sia riconosciuto almeno lo stesso trattamento riservato agli insegnanti di “religione cattolica”, essendo le due attività didattiche scolasticamente speculari ed equivalenti ed essendo per la scuola l’attività alternativa obbligatoria, ogni anno e in tutte le classi, al pari dell’insegnamento cattolico.
Un quarto passaggio – coerente anche con le indicazioni ministeriali che propongono in alternativa all’insegnamento cattolico contenuti non curriculari, riferiti ai saperi dell’area umanistica, e finalizzati alla conoscenza della condizione umana e dei valori fondamentali della vita e della convivenza civile – è quello di prevedere, tra le attività alternative praticabili, la conoscenza scientifica dei dati e dei fenomeni religiosi e di quelli spirituali non religiosi, comprensivi degli approcci atei e agnostici.
Molte discipline si sono applicate a ciò (archeologia, storia, geografia, demografia, antropologia, semiotica, sociologia, diritto, economia, filosofia, fenomenologia, psicologia, neurobiologia, ecc.). Dal corpus delle loro conoscenze è possibile derivare, in maniera aconfessionale, multi-inter-disciplinare, comparativa e critica, una conoscenza sintetica e specifica, sufficiente a familiarizzare con tali discipline e ad offrire agli allievi cognizioni razionali degli elementi spirituali della vita collettiva ed individuale che altrimenti rimarrebbero loro estranee.
Ciò rientrerebbe a pieno titolo nella previsione dello Stato italiano che riconosce il valore della cultura religiosa, in senso positivo ma anche negativo, e in tal modo potrebbe completarla nella scuola, non solo dando accesso diretto alle religioni e alle confessioni munite di Intesa con lo Stato, ma anche veicolando una conoscenza sulle religioni e sulla spiritualità svincolata dalle varie fedi.
Un quinto passaggio riguarda la messa in rete, in un sito dedicato, delle informazioni sulle varie attività alternative svolte nel territorio nazionale, in modo da diffonderne la conoscenza, suscitare confronti e condivisioni, discutere criticità e soluzioni, offrire spunti di generalizzazione delle esperienze.
Se da un lato è importante che ciascun Istituto o scuola individui e costruisca una propria offerta formativa al riguardo, dall’altro condividere le esperienze è un modo per ricevere e dare sostegno motivazionale ed operativo; un modo per muovere e promuovere attività alternative, se non altro per imitazione, negli Istituti dove ancora stentano ad affermarsi; un modo, infine, di fondare su un contesto telematico ricco di relazioni l’evoluzione delle attuali attività e costruire in quel contesto la massa critica occorrente ad affrontare proattivamente i nuovi scenari scolastici e le sfide che inevitabilmente toccheranno le stesse attività alternative.
Le sfide della scuola di domani
Il prossimo futuro non avrà in Italia una scuola come quella di 40 anni fa, quando sorse la coppia oppositiva “religione cattolica/attività alternativa”, con tutto il portato di discussioni, distinzioni, tensioni più o meno latenti e ammiccamenti vari in una direzione o nell’altra, protratti per decenni. Questioni che allora erano emergenti e di cui si avvertiva l’urgenza – quali la libertà di coscienza, la laicità dello Stato e della scuola, le garanzie e tutele occorrenti a salvaguardarle, come pure lo studio dei fenomeni religiosi con postura non confessionale – sembrano ora non più urgenti e neppure tanto rilevanti.
Esemplare al riguardo è il caso dell’educazione civica che, essendo prevista trasversalmente nelle varie discipline, e attribuita agli insegnanti in organico, vede non pochi docenti contenti di affidare l’incombenza agli insegnanti di religione, e costoro felici di svolgere una funzione aggiuntiva, che li rende più prossimi ai colleghi delle altre materie, anche a costo di sacrificare lo svolgimento del programma legale di “religione cattolica”.
Ad eccezione della puntuale e pertinente rimostranza dell’Uaar, ai più appare del tutto irrilevante che le indicazioni programmatiche di educazione civica possano essere insegnate dai docenti di “religione cattolica” a studenti che non si avvalgono dell’insegnamento cattolico, e magari svolte persino secondo l’impostazione derivata dalla dottrina sociale della chiesa come quella proposta per l’insegnamento cattolico di educazione civica nella scuola statale da docenti dell’Università cattolica; e quasi a nessuno viene in mente che i non avvalentisi dell’insegnamento di “religione cattolica” dovrebbero eventualmente seguire le equivalenti ore di educazione civica nelle attività alternative, se scelte, e non nell’insegnamento cattolico.
La dialettica “religione cattolica/attività alternativa”, nonostante alcuni toni accesi del passato, nella scuola è stata ritenuta, e oggi lo è ancor più, questione nel complesso secondaria, e comunque adattabile alle varie esigenze del sistema scolastico. Tuttavia questo sottosistema sociale oggi è esposto a situazioni drammatiche, e talvolta perfino tragiche, che mettono a dura prova la sua stessa tenuta, oltre che la sua struttura.
Molte disfunzioni, deprivazioni, tensioni dell’intero sistema sociale, e della vita quotidiana di molti, si scaricano sulla scuola come fulmini che generano bagliori, onde d’urto, sbalzi di tensione, esplosioni, ustioni e danni nervosi e cognitivi. In questa situazione, che evoca quella del “si salvi chi può”, tutte le risorse e le forze in campo potrebbero essere chiamate ad interagire per uscire dall’emergenza nel migliore dei modi possibili.
Si parla e si scrive, tra l’altro, di emergenza educativa, ma ovviamente non tutti i problemi scolastici sono riconducibili e riducibili a questa emergenza. E persino la migliore educazione che la scuola potrebbe offrire non riuscirebbe a risolvere storture e perversioni di sistema che richiederebbero altri e diversi interventi. Tuttavia la questione educativa, che riguarda non solo gli alunni ma tutti gli attori della scuola e della società, oggi ha quasi conquistato una posizione di primo piano e interpella a vasto raggio.
Non è facile ma sembra quasi imperativo affrontarla il più possibile in modo saggio e prudente, per rispondere in maniera equilibrata e veramente efficace ai bisogni e alle domande di educazione, che sono rimaste latenti per anni e ora stanno riaffiorando con forza. Il rischio che invece si corre – e in parte sembrerebbe già realtà – è quello reattivo, che fa assumere posture d’impeto, paradossali, prevalentemente regolatorie, selettive, marginalizzanti e repressive, quasi a dover compensare ora con un ordine artefatto intollerabili vissuti di sregolatezza e libertinaggio, o anche soltanto di deprivazione, scarso rendimento o comportamento riprovevole. Ma l’educazione non è questo.
In quanto processo complesso di interazioni – volte a mobilitare le potenzialità personali, accompagnando lo sviluppo, la crescita e la formazione con l’esperienza diretta e l’acquisizione critica e responsabile di conoscenze, abilità, valori e comportamenti – l’educazione, a scuola come in famiglia e nella società, più che dispositivi perentori e coercitivi necessita di quella discreta, paziente e perseverante coltivazione dell’interiorità, che anche nelle situazioni estreme alimenta l’arte di vivere, inducendola maieuticamente dalla persona, senza imposizioni autoritarie o manipolazioni ideologiche. Ed è esattamente questo quello che da tempo immemorabile fanno i migliori insegnanti e ora meriterebbe di assurgere a paradigma integrativo, se non addirittura fondativo, di tutte le relazioni, e non solo di quelle didattiche, del sottosistema scolastico.
Uno spazio per l’etica laica nella scuola
Sullo sfondo dell’educazione stanno gli orientamenti etici di chi educa e di chi è educato. È importante non subirli ma conoscerli e riconoscerli, metterli a confronto e sottoporli a critica, consapevoli che l’etica non è mai data una volta per tutte e ci possono essere spunti e valori meritevoli in etiche tra loro differenti. Il pluralismo etico e l’approccio critico da un lato, e dall’altro il comportamento cosciente e responsabile muovono, sostengono e completano l’educazione individuale e collettiva.
Da questo punto di vista potrebbe risultare sorprendente e certamente utile alla scuola italiana fare oggi quello che non si è fatto 40 anni fa, cioè conoscere comparativamente gli insegnamenti di etica laica, etica religiosa ed educazione civica impartiti nelle scuole dei vari Paesi del mondo. Emergerebbero aspetti molto istruttivi, applicabili con profitto alla scuola italiana sia per suscitare un approccio etico non imposto, ma discusso e condiviso da tutti in ciascuna comunità scolastica, sia per consentire agli alunni di acquisire le varie conoscenze etiche e civiche in una unica nuova materia scolastica, garante del pluralismo morale e svolta al posto degli insegnamenti confessionali e delle attività alternative; oppure, se i vari insegnamenti religiosi a scuola dovessero durare anche nel prossimo futuro, prevedere che gli allievi di alternativa seguano le lezioni di etica laica e quelli di insegnamenti confessionali seguano le lezioni di etica religiosa.
L’etica laica, seppure soltanto per titoli occasionali, era già indicata nelle prime circolari sulle attività alternative a “religione cattolica”, è presente nella cultura italiana, orienta i comportamenti di persone e gruppi, e costituisce punto fermo anche per strutture che si occupano di attività alternative a scuola, come l’Uaar, che si riferisce esplicitamente all’etica laica, civile e umanistica. L’etica religiosa è presente in quasi tutte le religioni e confessioni, compresa la cattolica.
Il suo insegnamento, seppure non in modo sistemico ed esaustivo, è già previsto, ad esempio, nei programmi e nei testi di “religione cattolica”. Se impartito secondo le finalità della scuola – quindi in modo critico, libero e senza fanatismi o battaglie sui principi morali, anzi cercando di enfatizzare gli aspetti comuni alle altre etiche, condivisibili in una società laica – anche l’insegnamento etico cattolico o di altre confessioni o religioni potrebbe dare un contributo utile alla conoscenza e alla formazione scolastica.
In tal modo la scuola italiana contribuirebbe a soddisfare, secondo ragione e non secondo coercizione, i bisogni e le domande di educazione e di etica, e le due ore opposte – quella di “religione cattolica” o altra religione e quella delle attività alternative – potrebbero trovare in questa opportunità, secondo le modalità descritte, più di qualche possibilità per ridefinirsi nella competizione o nella cooperazione, salvaguardando in ogni caso il pluralismo etico e l’educazione multiculturale.
Silvano de Bortoli

prevedere, tra le attività alternative praticabili, la conoscenza scientifica dei dati e dei fenomeni religiosi e di quelli spirituali non religiosi, comprensivi degli approcci atei e agnostici.
Molte discipline si sono applicate a ciò (archeologia, storia, geografia, demografia, antropologia, semiotica, sociologia, diritto, economia, filosofia, fenomenologia, psicologia, neurobiologia, ecc.). Dal corpus delle loro conoscenze è possibile derivare, in maniera aconfessionale, multi-inter-disciplinare, comparativa e critica, una conoscenza sintetica e specifica, sufficiente a familiarizzare con tali discipline e ad offrire agli allievi cognizioni razionali degli elementi spirituali della vita collettiva ed individuale che altrimenti rimarrebbero loro estranee.
Non mi pare che queste conoscenze siano molto diffuse nelle Università italiane. Che io sappia ci sono pochi opere nel campo degli studi evoluzionistici e cognitivi sulle religioni dovuti ad autori italiani. Ne posso citare tre: “Nati per credere”, di Girotto, Telmani e Vallortigara, ” Neuro psicologia dell’esperienza religiosa,” di Fabbro, e “Theism as a Product of the Human Triune Brain”, di Ernandes. Dopo di che si possono citare “Credo in un solo Dio … O me lo immagino?” di Ichino, e “Il bisogno di Dio” di De Biase. Non mi pare ci sia altro.
Nelle Università italiane, semmai, sono sorti alcuni Corsi di Laurea in Scienze Religiose o Religioni e Culture dove si studiano in particolare le religioni “abramitiche”, ma dai punti di vista storici o teologici.
Ho dimenticato di mettere tra virgolette il passo citato per distinguerlo dal mio commento
Sei proprio sicuro che questi studi possano essere aconfessionali, comparativi e critici? A me sembra che la presenza in questi studi sia prevalentemente di religiosi e le religioni hanno notevoli interessi nei risultati (e magari li finanziano anche) e se penso a come sono stati trattati Bart Ehrman o il biblista Pesce per non essere allineati ho qualche dubbio. Ci sono ancora fior di studiosi impegnati a cercare l’arca di Noè o a dimostrare la storicità dei vangeli e della bibbia: pensi che potrebbero accettare l’idea di una religione come effetto collaterale di sviluppi evolutivi della mente o solo vantaggiosa a livello sociale, militare e politico?
……pensi che potrebbero accettare l’idea di una religione come effetto collaterale di sviluppi evolutivi della mente o solo vantaggiosa a livello sociale, militare e politico?……
Su questo dilemma ho la risposta senza nessun equvoco….Ma lascio a Mixtec il privilegio di rispondere.
Ringrazio Alessandro, spero di non deludere.
Ho tra le mani il libro di Dunbar “How Religion Evolved. And Why it Endures”, titolo corrispondente al sottotitolo di “The Faith Instinct” di Nicholas Wade, che però non vedo citato in bibliografia. Il libro è stato già tradotto in italiano, e di tale traduzione ho chiesto l’acquisto alla biblioteca del Dipartimento in cui sono “Cultore della materia”, e che si chiama “Culture e Società” (Università di Palermo). Aspetto da febbraio. E dire che, volendo, non si tratta di un libro alla “New Atheism”: la prima cosa che fa l’autore è ringraziare la “Templeton Religion Trust for a three-year research project (Religion and the Social Brain)”. Finisce dicendo: “IN short, it is difficult to see any convincing evidence for anything that will replace religion in human affairs. Religion is a deeply human trait. The content of religion will surely change over the longer term, but, for better or for worse, it is likely to remain with us.”
A parte ciò, quel che sta in mezzo fra queste due frasi è abbastanza interessante, e forse non tanto gradito a molti del Dipartimento citato, che preferiscono partecipare al DREST (The Italian Doctoral School for Religious Studies) (drest.eu) il cui coordinatore è Alberto Melloni, dell’Università di Modena e Reggio Emilia, volto noto in RAI (e altre TV) e in Vaticano. Nel sito “drest.eu” si possono vedere gli altri volti degli studiosi coinvolti, ma quel che è più interessante è sapere quali pensieri ci sono dietro.
La faccio semplice: se un individuo si attenesse alle regole espresse nel codice penale – e di solito questo è il comportamento diffuso – così facendo soddisfarebbe il 99% anche della dottrina cattolica: dico 99% perché quell’1% mancante sarebbe, agli occhi del bigotto, la credenza nell’esistenza di dio, per loro fondamentale, pur molto ipotetica. Quindi, a conti fatti un doppione, un investimento che non vale la candela. L’ora di educazione civica sarebbe molto più formativa.