Filomena Gallo è la segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica. Avvocato cassazionista, ha seguito da vicino le numerose vicende che hanno portato a definire un quadro giuridico sul fine vita che, tuttavia, rimane ancora differenziato e in evoluzione (non necessariamente positiva). Abbiamo conversato con lei per comprendere meglio lo stato dell’arte di questa fondamentale tematica sul numero 5/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Negli ultimi mesi, come associazione Luca Coscioni, avete seguito due casi simili (anche se non identici) che si sono conclusi in modo diverso. Laura Santi è morta a casa sua, auto-somministrandosi un farmaco letale; Martina Oppelli si è invece dovuta recare in Svizzera e ricorrere alla morte assistita. Al di là dell’eco che hanno ricevuto dai mass media e nell’opinione pubblica, quali riflessioni possiamo trarne?
I due casi mostrano con chiarezza l’iniquità del sistema attuale. Laura Santi è morta a casa sua, autosomministrandosi un farmaco letale; Martina Oppelli, pur essendo in condizioni più gravi, è stata costretta ad andare in Svizzera per accedere al suicidio medicalmente assistito. Entrambe avevano fatto ricorso alla propria Asl, entrambe avevano ottenuto dinieghi.

Solo in un secondo momento, nel caso di Laura, è stato riconosciuto il diritto previsto dalla Corte costituzionale. Non sono differenze di bisogno che determinano l’accesso al fine vita, ma la disponibilità di medici e l’interpretazione locale delle norme. È inaccettabile che la possibilità di scegliere come morire dipenda dalla fortuna o dal luogo di residenza.
I cittadini italiani, in materia di scelte di fine vita, hanno dunque diritti che variano secondo la Regione (e secondo la posizione politica di chi governa al momento la Regione)?
Purtroppo sì. Alcune Regioni, anche grazie alla nostra proposta di legge popolare ‘Liberi Subito’, hanno provato a stabilire procedure e tempi certi per applicare la sentenza Cappato della Corte costituzionale. Altre no, e in alcuni casi i provvedimenti sono stati impugnati dallo Stato. Questo significa che un diritto riconosciuto dalla Corte non è oggi garantito in modo uniforme, violando il principio di uguaglianza. La sentenza 242/2019 vale per tutti, eppure l’Italia è a macchia di leopardo. E se un diritto non è garantito davvero e a tutti, non è più un diritto.
Si sa benissimo come la pensa in merito il governo Meloni, e l’ha dimostrato impugnando le direttive emanate dalle Regioni maggiormente sensibili alla libertà di scelta. A suo parere, l’esecutivo agisce più sul piano simbolico, lanciando segnali ai suoi sostenitori, oppure le conseguenze sui cittadini sono concrete e deleterie?
Le conseguenze sono molto concrete. L’impugnazione delle leggi regionali serve a bloccare percorsi organizzati e sicuri che garantirebbero procedure e tempi certi, lasciando le persone in condizioni di sofferenza e di incertezza e indeterminatezza. Significa spingerle verso l’estero o verso soluzioni clandestine. Certo, il gesto ha anche una valenza simbolica, utile a rassicurare la propria base elettorale – anche se sempre più persone sono favorevoli a riconoscere la libertà di poter decidere. Ma dietro alla propaganda ci sono persone vere, costrette a vivere e a morire senza tutele.
Il governo ha elaborato un disegno di legge che sembra essere stato concordato direttamente col Vaticano. Quali possibilità ha di essere approvato così com’è? O di essere ulteriormente peggiorato?
Il testo della maggioranza si apre con il principio della ‘inviolabilità e indisponibilità della vita’, che è già un chiaro segnale politico. Con i numeri che hanno, potrebbero approvarlo così com’è. Ma temo che in parlamento possano arrivare emendamenti che rendano la legge ancora più restrittiva, di fatto inapplicabile. In ogni caso, una legge che contrasta con i principi fissati dalla Corte costituzionale sarebbe inevitabilmente impugnata, e la Consulta tornerebbe a pronunciarsi. Intanto resta depositata in senato anche la nostra proposta di legge popolare, che recepisce pienamente le sentenze e tutela davvero l’autodeterminazione delle persone.
Il testo in discussione comincia affermando un concetto eminentemente cattolico, «il principio dell’inviolabilità e dell’indisponibilità del diritto alla vita». Se approvato, quanto potrebbe incidere su altri diritti, in particolare su quello all’aborto?
Introdurre come principio costituzionalmente orientante una nozione così rigorosa può avere effetti di vasta portata. Sul piano giuridico, frasi di quel tipo tendono a orientare l’interpretazione di norme successive e a creare un clima normativo restrittivo rispetto a tutte le scelte che riguardano il corpo e l’autodeterminazione.
Non dico che automaticamente l’aborto verrebbe messo in discussione, ma una logica legislativa e interpretativa che enfatizza una “indisponibilità” della vita può certamente alimentare tentazioni restrittive e fornire argomenti a chi vuole irrigidire tutele esistenti. È un rischio reale che va denunciato e contrastato con argomenti giuridici, clinici e sociali. Se la mia vita è davvero indisponibile, rischia di saltare anche il consenso informato e la possibilità che oggi abbiamo di rifiutare un trattamento o una diagnosi.
La Corte costituzionale ha definito un quadro entro cui il legislatore dovrebbe muoversi. Visto l’atteggiamento della maggioranza di governo, ci possiamo attendere qualche ulteriore intervento dei giudici?
La Corte costituzionale ha già segnato il terreno: la sentenza n. 242/2019 (il caso Cappato/Dj Fabo) ha indicato condizioni precise in cui l’aiuto al suicidio non è punibile e ha rimandato al legislatore il compito di regolamentare. Le sentenze successive e gli orientamenti sugli aspetti procedurali stabiliscono paletti che il legislatore dovrà rispettare.
Se il Parlamento approverà una legge che ignora questi criteri costituzionali, è assai probabile che si aprano nuove impugnazioni e che la Consulta venga di nuovo chiamata a dirimere i conflitti tra legge ordinaria e principi costituzionali. In questo percorso, i giudici resteranno garanti fondamentali dei diritti.
Il diritto alle scelte di fine vita è stato riconosciuto per la prima volta due decenni fa, e la sua applicazione in diversi Paesi sembra aver dato buoni risultati. In altri, come la Francia e il Regno Unito, i parlamenti ne stanno discutendo in una direzione molto più laica della nostra. Quali riflessioni possiamo trarre da queste esperienze?
La realtà internazionale mostra che regole chiare, criteri di accesso precisi, percorsi di valutazione multidisciplinare e garanzie procedurali riducono i rischi di abusi e aumentano la trasparenza. Paesi che hanno regolato in modo laico (o che stanno discutendo aperture laiche) mettono al centro controlli sanitari, piani di cure palliative, verifiche psichiatriche e tempi di riflessione: questo non solo tutela i più vulnerabili, ma normalizza una rete pubblica che evita spostamenti all’estero o percorsi clandestini. Il nocciolo della lezione è che la regolazione rigorosa e pubblica – non il divieto totale né la desertificazione normativa – è la strada più sicura per tutelare i diritti e la libertà delle persone.
Ricevete in media cinque telefonate al giorno che chiedono informazioni sul fine vita, il tema trova spesso spazio nelle pagine dei giornali e, stando ai sondaggi, da diversi lustri circa tre italiani su quattro sarebbero favorevoli alla legalizzazione dell’eutanasia. Perché non siamo ancora riusciti ad avere un parlamento disposto ad accordarla?
Perché la politica è indietro rispetto al Paese. I sondaggi mostrano che circa tre italiani su quattro sono favorevoli, eppure le maggioranze parlamentari, per calcoli ideologici o elettorali, non hanno mai avuto il coraggio di legiferare. È una distanza che mina la credibilità delle istituzioni.
La vostra proposta di legge di iniziativa popolare per legalizzare il fine vita (sostenuta anche dall’Uaar) ha raggiunto e ampiamente superato le 50.000 firme necessarie per essere depositata in parlamento. Quale contributo potrà dare al dibattito in corso?
La proposta di legge di iniziativa popolare che abbiamo promosso (con il sostegno di Uaar e di migliaia di firmatari) serve a due scopi concreti. Primo: portare in parlamento un testo che traduce in norme i diritti indicati dalla Corte costituzionale, evitando ambiguità e proponendo procedure chiare e tutele effettive. Secondo: dimostrare che esiste una spinta sociale organizzata che non si limita alle parole dei sondaggi ma passa attraverso la partecipazione attiva dei cittadini.
Anche se il parlamento non dovesse approvarla integralmente, la proposta popolare può orientare il dibattito, costringere i legislatori a confrontarsi su punti tecnici (ruolo delle Asl e del servizio sanitario nazionale, tempistiche, comitati di valutazione, garanzie) e offrire un concreto progetto politico alternativo rispetto ai testi più restrittivi. Sulla raccolta firme e deposito: la proposta ha superato il quorum per la presentazione e prevede sia l’aiuto medico alla morte volontaria con auto somministrazione del farmaco, sia la somministrazione da parte di un medico su richiesta della persona malata.
La redazione
Iscriviti all’Uaar Abbonati Acquista a €2 il numero in digitale
Sei già socio? Entra nell’area riservata per scaricare gratis il numero in digitale!
