Eterni privilegi

Ici, Imu e indulgenze fiscali: vent’anni di regali miliardari alla Chiesa cattolica a spese dei contribuenti. Affronta il tema il giornalista Federico Tulli sul numero 3/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


Sono passati tredici anni da quando la Commissione europea intimò all’Italia di recuperare dagli enti ecclesiastici le somme non versate tra il 2006 e il 2011 per il pagamento dell’Ici sugli immobili di loro proprietà nei quali l’attività religiosa convive, senza soluzione di continuità, con attività economiche (vale a dire, in gran parte, scuole paritarie di ogni ordine e grado e dormitori di conventi ormai svuotati dall’inarrestabile crisi di vocazioni trasformati in alberghi, boutique hotel, case per ferie, case di riposo).

Sono passati tredici anni ma la questione è ancora aperta, come dimostra una recente sentenza (la numero 20/2025) mediante la quale la Corte costituzionale ha respinto le censure sollevate dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte nei confronti di un articolo cardine del decreto legislativo sul Riordino della finanza degli enti territoriali 504/92, quello che appunto stabiliva l’esenzione dall’imposta municipale propria per gli enti religiosi.

Secondo i giudici tributari del Piemonte tale normativa non consente di distinguere, all’interno di un unico immobile accatastato, le aree destinate al culto da quelle impiegate per attività economiche. E tale lacuna avrebbe come conseguenza l’assoggettamento a imposta anche delle porzioni utilizzate per scopi religiosi, configurando così una «violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in riferimento agli obblighi derivanti dal Concordato con la Santa sede del 1984».

La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dai giudici tributari nell’ambito di una controversia tra il Comune di Novara e il locale Seminario vescovile, relativa all’Imposta comunale sugli immobili (Ici) su un fabbricato di proprietà dell’ente ecclesiastico (stabile di circa 12mila metri quadrati), che – si legge nella sentenza – originariamente destinato in esclusiva alla formazione del clero, successivamente è stato in parte adibito a liceo classico parificato (per circa 600 metri quadrati) e in parte dato in locazione a due società (per complessivi 900 metri quadrati circa).

La Corte costituzionale ha giudicato infondata l’ordinanza di rimessione. Secondo la Consulta, il rimettente non solo ha mal interpretato il Concordato del 1984 ma non ha nemmeno considerato le regole europee in base alle quali l’esenzione Ici riconosciuta agli enti religiosi tra il 2006 e il 2011 si configura come un aiuto (illegittimo) di Stato.

Vale la pena a questo punto approfondire la posizione dell’Europa sulla questione ma per poterlo fare bisogna ricostruire brevemente la storia “politica” dell’esenzione Ici. Tutto inizia nel 2005, anno in cui il governo Berlusconi introduce una norma che esonera dal pagamento dell’imposta comunale strutture come alberghi, cliniche, case di cura, scuole paritarie e altri immobili di proprietà ecclesiastica: era sufficiente che anche solo una minima parte dell’edificio fosse adibita ad attività religiosa per ottenere l’esenzione totale.

Con l’arrivo dell’Imu nel 2011, al posto dell’Ici, il premier Mario Monti introduce una regola più articolata: l’esonero si applica anche alle onlus. La condizione imposta è che i servizi offerti abbiano un costo “simbolico”, oppure non superino soglie specifiche, spesso difficili da individuare con precisione. Un caso concreto: una scuola paritaria dell’infanzia può ottenere l’esenzione se le rette annuali restano al di sotto dei 6.000 euro. Ma quante organizzazioni di questo tipo non religiose e non afferenti alla chiesa cattolica gestiscono realmente strutture come hotel, scuole o ospedali? La norma, anche se per l’Ue non si configurava più come un aiuto di Stato, restava chiaramente un’agevolazione “ad personam”, anzi ad ecclesiam.

Arriviamo al 2012. La Commissione europea conclude un’indagine avviata in seguito alla denuncia presentata nel 2006 dal fiscalista Pontesilli, dall’avvocato Nucara e da Maurizio Turco (attuale segretario del Partito Radicale). Secondo i querelanti le esenzioni Ici costituivano una violazione delle norme europee sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato. Bruxelles, sei anni dopo, riconobbe la fondatezza delle “accuse” e che l’esenzione rappresenta effettivamente un aiuto illecito, ma consentì all’Italia di non procedere al recupero degli importi, ritenendo eccessivamente complesso quantificarli.

La vicenda viene poi esaminata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea che, in una prima sentenza del 2016, sorprendentemente conferma che i soldi non riscossi possono essere considerati perduti. Tuttavia, nel novembre del 2018, la decisione viene annullata in appello, e si stabilisce finalmente un principio chiaro: le somme dovute a titolo di Ici tra il 2006 e il 2011 devono essere recuperate dallo Stato italiano.

Passano altri cinque anni e nel marzo del 2023 di fronte all’immobilità totale dell’Italia nell’azione di recupero dei soldi “regalati” agli enti ecclesiastici, Bruxelles intima di non indugiare oltre, pena l’avvio di una costosa procedura di infrazione che pagherebbero i contribuenti. La Commissione – si legge a chiare lettere nella nota ufficiale – «riconosce l’esistenza di difficoltà per le autorità italiane nell’identificare i beneficiari dell’aiuto di Stato illegale. Tuttavia tali difficoltà non sono sufficienti per escludere la possibilità di ottenere almeno un recupero parziale dell’aiuto».

L’ordinanza 20/25 della Consulta sta lì a testimoniare che dopo altri due anni tutto è ancora in alto mare.

Ma non è finita qui. Se il governo Meloni si è mosso, lo sta facendo in direzione ostinata e contraria, quindi non per chiedere finalmente conto dei privilegi fiscali goduti per anni dagli enti ecclesiastici, bensì per tentare di proteggerli da ogni possibile conseguenza.

Lo si capisce da quanto detto dal viceministro dell’economia Maurizio Leo, durante un recente convegno all’Università Pontificia salesiana: il Mef è al lavoro per evitare che la procedura d’infrazione europea si trasformi in un salasso per le congregazioni religiose. In buona sostanza il governo sta cercando di contenere o cancellare il dovuto, invocando deroghe “de minimis” o non meglio precisate difficoltà documentali da parte degli enti coinvolti.

In base alla legge anti-infrazioni del 2024 gli enti soggetti all’obbligo di restituzione sono tutti quelli che nel 2012 o nel 2013, applicando le regole Imu/Tasi (in sostituzione dell’Ici), hanno dichiarato o, in ogni caso, versato una somma superiore a 50mila euro, anche in seguito a un accertamento del Comune.

Secondo il ministro, come riporta il Sole24ore, si potrebbe cercare di approfondire gli spazi – per gli anni contestati – collegati agli aiuti de minimis, fuori dal perimetro dell’aiuto di Stato contestato dalla Ue: in particolare, per quegli anni i limiti sono 200mila euro in un triennio, 500mila sempre nei tre anni per chi esercita servizi di interesse generale. Leo ha inoltre aggiunto che verrà dato un peso anche alla difficoltà da parte degli enti coinvolti di trovare tutta la documentazione di prova, considerando quanti anni sono passati.

Non esiste una stima precisa delle somme Ici in ballo, ma se il piano del Mef andasse in porto il Tesoro rischia di dover dire addio a somme considerevoli. Secondo un calcolo del ministero dell’economia risalente a una decina di anni fa l’Ici 2006-2011 non incassata a livello nazionale ammonta a circa 100 milioni l’anno, cioè 700 milioni complessivi a livello nazionale. Ma c’è chi ha stimato un importo ben diverso compreso tra 3,5 e 5 miliardi di euro complessivi.

Questo calcolo fu eseguito in collaborazione con l’Anci-Associazione nazionale comuni italiani, da Pontesilli, Turco e Nucara in occasione della presentazione dell’esposto del 2006. Più di recente l’Ares, Agenzia di ricerca economica e sociale, ha stimato in 2,2 miliardi l’anno per 5 anni, cioè 11 miliardi complessivi, il mancato gettito per lo Stato.

Al momento non è dato di sapere se la bilancia penda più verso i 700 milioni calcolati dal Mef o gli 11 miliardi stimati dall’Ares e stando al senso delle dichiarazioni del vice ministro Leo, come detto, il governo attuale non intende mettere in campo misure per approfondire. E lo fa nel nome di un patrimonio – quello ecclesiastico – «al servizio del bene comune», secondo una narrazione che evita di affrontare il nodo centrale: può un’attività con caratteristiche commerciali, come una scuola privata che richiede rette elevate, essere esentata dalle imposte solo perché gestita da un ente religioso?

La questione riguarda anche l’Imu, introdotta nel 2011. Un passaggio emblematico è quello sulle scuole paritarie cattoliche, formalmente private ma riconosciute come parte del sistema nazionale di istruzione grazie alla legge “Berlinguer” 62/2000. In base alle norme attuali, se svolgono attività non esclusivamente religiosa (ad esempio, educativa ma a pagamento), dovrebbero essere soggette a Imu.

Ma anche qui il governo cerca una via d’uscita gradita alla chiesa cattolica. Il viceministro Leo ha proposto infatti di agganciare l’esenzione ai “costi standard”: se la scuola privata dimostra di mantenere i costi entro una certa soglia, verrebbe considerata non commerciale e quindi esente. Una soluzione apparentemente tecnica che in realtà mira a istituzionalizzare l’esenzione per centinaia di scuole cattoliche, senza una verifica effettiva della loro natura economica.

In conclusione, è passato un ventennio dall’esenzione introdotta da Berlusconi e l’Italia continua a offrire una corsia preferenziale fiscale a favore della chiesa cattolica e delle sue ramificazioni nel mondo dell’istruzione, dell’assistenza, dell’ospitalità e del turismo. In nome di una visione “sociale” delle attività religiose, si legittimano agevolazioni che altri enti, privi del legame confessionale, non ricevono.

Federico Tulli

 


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