Gli italiani lo fanno peggio

La politologa Flavia Restivo fa emergere nel suo libro “Gli svedesi lo fanno meglio” l’arretratezza del nostro Paese in materia di educazione sessuale e affettiva. L’abbiamo intervistata sul numero 3/2025 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


Ha trent’anni, Flavia Restivo, ma è già un’affermata politologa e attivista, fondatrice del progetto Italy Needs Sex Education: L’Espresso l’ha inserita tra gli under 30 che stanno cambiando l’Italia.

A marzo è uscito per Rizzoli il suo libro Gli svedesi lo fanno meglio. Come un’educazione affettiva e sessuale di stampo nordico può cambiare il nostro Paese (in meglio). Un titolo che non lascia adito a fraintendimenti, un vero e proprio manifesto civile. Le abbiamo rivolto qualche domanda in merito.

Perché, volendo trattare di educazione sessuale e affettiva, ha scelto come esempio la Svezia?

Perché la Svezia rappresenta non solo un modello virtuoso, ma un vero laboratorio sociale di lungo corso. Parliamo di un Paese che ha introdotto l’educazione sessuale obbligatoria nelle scuole già nel 1955, aggiornandola costantemente con l’evolversi della società: oggi include tematiche come il consenso, la parità di genere, il rispetto delle differenze e la prevenzione degli stereotipi. Non è solo una questione di “sesso”, ma di democrazia educativa e benessere collettivo. La Svezia dimostra che parlare di sessualità in modo serio, strutturato e senza giudizi rende le persone più consapevoli, più libere e – come suggerisce anche il World Happiness Report – più felici.

Dati alla mano, l’Italia è invece il fanalino di coda tra i Paesi dell’Europa occidentale. Per quali ragioni?

In Italia manca una legge nazionale sull’educazione sessuoaffettiva. L’approccio è disomogeneo, sporadico e spesso lasciato all’iniziativa delle singole scuole o associazioni. Le cause? Un mix tra cultura del silenzio, disinformazione, retaggi patriarcali e una pesante ingerenza della religione cattolica nelle scelte politiche. È un Paese che ha paura di nominare il corpo, il desiderio, le emozioni. E chi ha paura di nominarle, non sa nemmeno come affrontarle.

Quali sono le conseguenze culturali e sociali del tanto ritardo accumulato?

Le conseguenze sono ovunque: nella violenza di genere che esplode tra i giovanissimi, nella diffusione della pornografia come unica “fonte educativa”, nell’imbarazzo di molti adulti nel parlare con i figli, nella mancanza di conoscenza sul consenso, nell’ansia relazionale diffusa, nei numeri allarmanti su bullismo, revenge porn e discriminazioni. E tutto questo ha un prezzo enorme in termini sociali, emotivi, sanitari ed economici.

Nel libro elenca anche le normative che i vari Stati hanno con l’insegnamento della religione. Quale ruolo gioca il cattolicesimo nell’arretratezza italiana?

Un ruolo chiave. Il problema non è la fede in sé, ma la sovrapposizione costante tra politica e dettami della chiesa cattolica. L’Italia non è, nei fatti, un Paese laico. Questo frena da decenni ogni tentativo di riforma strutturale sull’educazione affettiva e sessuale. Si preferisce continuare a destinare ore all’insegnamento della religione cattolica, spesso gestito in modo dogmatico, piuttosto che investire su una formazione trasversale e scientificamente fondata. In altri Paesi a maggioranza protestante, questa ingerenza non esiste, e si vede.

Nello stesso tempo si moltiplicano già ora i tentativi di infilare nei programmi scolastici anche qualche lezione di “sessualità alla cattolica”. Cosa ne pensa?

Credo sia pericoloso. L’educazione sessuale non può essere un’ora di catechismo travestita. Inserire corsi di “sessualità alla cattolica” rischia di rafforzare sensi di colpa, stereotipi di genere e visioni moraliste del corpo e del desiderio. È giusto parlare di valori, ma devono essere valori universali come il rispetto, il consenso, l’autodeterminazione. L’educazione sessuale non è un terreno ideologico, è un diritto. E come tale va protetto.

Come si colloca, in questo contesto, l’ossessiva campagna politica contro i libri Lgbt-friendly e la presunta “ideologia gender”?

È la conseguenza diretta della paura del cambiamento. Alcuni movimenti politici e culturali hanno bisogno di costruire un nemico immaginario – l’“ideologia gender” – per rafforzare un’identità reazionaria. In realtà, parlare di orientamento sessuale, identità di genere, famiglie diverse non è propaganda: è rappresentazione della realtà. Censurare libri, bandire favole inclusive, attaccare i docenti che parlano di diritti significa negare l’esistenza di milioni di persone. E alimentare un clima d’odio.

A larghissima maggioranza, gli italiani chiedono che l’educazione sessuale sia impartita nelle scuole. Non tutti, però (soprattutto se sono adulti di sesso maschile), brillano per apertura mentale. Uno stereotipo diffuso vede la Svezia come il paradiso del sesso libero, più che del sesso consapevole: non c’è il rischio che qualcuno faccia confusione?

Sì, il rischio c’è. Ma nasce proprio dall’ignoranza sul significato di “educazione sessuale”. Non si tratta di “insegnare a fare sesso”, ma di educare alla consapevolezza, alla cura di sé, al rispetto dell’altro. La sessualità non è solo atto fisico: è relazione, comunicazione, identità. In Svezia non c’è più libertà in senso caotico, c’è più alfabetizzazione emotiva. Il sesso libero può esistere anche dove regna il patriarcato; il sesso consapevole nasce solo dove c’è educazione.

Perché è importante che si parli anche dell’affettività, oltre che della sessualità?

Perché siamo esseri complessi, e il desiderio non è separabile dalle emozioni. Parlare solo di contraccezione o rischi sanitari riduce la sessualità a un problema da evitare. Parlare anche di affettività – di emozioni, consapevolezza, relazioni sane – significa fornire strumenti per vivere meglio sé stessi e gli altri. È questo che può fare la differenza, anche in termini di benessere mentale.

Quali reali possibilità ci sono che una buona legge venga approvata non diciamo subito, ma quantomeno nei prossimi anni?

Non sarà facile, ma non è impossibile. I sondaggi ci dicono che c’è una maggioranza trasversale di cittadini favorevoli. Le nuove generazioni sono più aperte. Servono però una classe politica coraggiosa e un’opinione pubblica informata. La pressione culturale deve salire dal basso: genitori, insegnanti, studenti, associazioni. Cambiare l’immaginario collettivo è il primo passo. Non sarà un decreto legge a cambiare tutto, ma una rivoluzione educativa può partire anche da lì.

Intervista a cura della redazione

 


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