A cent’anni dalla nascita lo scrittore Primo Levi ci lascia una grande eredità: non solo perché è uno dei più influenti intellettuali italiani del Novecento noti nel mondo, ma perché ha saputo raccontare l’orrore esistenziale del nazismo con un profondo e sofferto taglio laico e con una sensibilità schiettamente incredula.
Nasce a Torino nel 1919 da una famiglia di origine ebraica, che gli trasmette una tradizione religiosa ma non è particolarmente osservante. Frequenta il ginnasio e il padre gli instilla l’interesse per la scienza e la letteratura. Si laurea in chimica, nonostante le difficoltà poste dalle leggi razziali del regime fascista. Discriminato in quanto ebreo, matura la sua consapevolezza politica, si avvicina al Partito d’Azione e dopo l’armistizio del 1943 entra in un gruppo di partigiani. Catturato dai fascisti, viene infine internato nel campo di concentramento di Auschwitz fino alla liberazione a opera dell’Armata Rossa. Poi il rocambolesco viaggio che lo riporta a casa, attraversando un’Europa centrale devastata dalla guerra, raccontato ne La tregua. Fino a diventare uno dei protagonisti della cultura italiana nei decenni successivi.
Levi è un eroe riluttante e mite che come l’antitesi modernissima di Giobbe subisce grandi tragedie ma riesce a salvarsi senza affidarsi alla fede, senza darsi contorte giustificazioni provvidenzialistiche o ritenendosi un eletto. Anzi ricordando spesso la sua identità laica, da non credente e non praticante, anche rispetto a chi con insistenza lo vuole semplicemente “ebreo” o cerca di ammantare di religiosità il suo pensiero per renderlo profondo. Spiega infatti di essere tale solo “come anagrafe” e di aver preso consapevolezza di essere tale a causa delle leggi razziali emanate nel 1938 dal fascismo e della deportazione nel lager nazista. Solo in tarda età, e con una certa riluttanza, ha accettato di farsi chiamare “scrittore ebreo”. Sempre però criticamente e senza riverenze, consapevole di quanto fosse “un’etichetta”, e avendo approfondito lo studio della cultura ebraica con cui era venuto in contatto durante la prigionia e le sue peregrinazioni in Europa.
La poetica e l’esistenza di Primo Levi si nutrono di suggestioni diverse. C’è un sottofondo di cultura ebraica ereditata dalla famiglia e poi coltivata come dirà “con un certo distacco scientifico, quasi zoologico”. Matura però una sua personalità laica, scettica nei confronti della religione, anche per il rigoroso ma appassionato approccio scientifico. Proprio la sua formazione di chimico risuona nella raccolta Il sistema periodico, con racconti in parte autobiografici che prendono i titoli dagli elementi della tavola periodica. Un testo premiato nel 2006 dalla Royal Institution come miglior libro di scienza. Non manca il legame con la letteratura italiana, di cui è grande estimatore e che spesso ricorre nei suoi scritti. Una cultura ampia e variegata con cui Levi affronta laicamente interrogativi sul senso umano dell’esistenza, sull’insufficienza della religione, sull’insostenibilità della teodicea, cui non si può sottrarre di fronte ad Auschwitz.
Non a caso nel libro in cui racconta la sua prigionia, Se questo è un uomo, la poesia di apertura ricalca la Shemà, ovvero una delle preghiere più importanti della tradizione ebraica. Ma lo fa con evidente ribaltamento laico, perché quell’Ascolta (Shemà, appunto) è rivolto all’umanità (non certo a dio) affinché coltivi la memoria indispensabile a evitare nel futuro simili tragedie. E sempre riprendendo stilemi della Bibbia, chiude la poesia con una serie di comandi e maledizioni.
A proposito di riferimenti letterari nel suo resoconto del lager, vale la pena di ricordare che uno molto significativo ruota intorno al XXVI canto dell’Inferno della Divina Commedia, con protagonista Ulisse. Diventa l’occasione per uno scampolo di umanità, amicizia e speranza dentro il campo di concentramento. Primo e un compagno, il francese Jean, si ritrovano a dover trasportare il pentolone del rancio. Iniziano a parlare, Jean vorrebbe imparare l’italiano e Levi gli propone quel canto dantesco, cercando di ricordarlo. Ulisse diventa un simbolo secolare dell’umanità che ha grandi aspirazioni di conoscenza e libertà, una via di connessione umana e di emancipazione momentanea dalla miseria e dal degrado del lager.
Il resoconto della vita nel campo di concentramento è infatti impietoso, nella descrizione asciutta dell’insensatezza che nessuna consolazione religiosa può metabolizzare. Un passo potente, che descrive bene l’attitudine di Levi nei confronti della fede, è la sua reazione alla preghiera del vecchio Kuhn, un altro recluso. Dopo essere scampato a una atroce “selezione” dei prigionieri, Kuhn si mette ossessivamente a pregare, nel silenzio del dormitorio: “ringrazia Dio perché non è stato scelto”. Ma per l’autore “Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più?”. E sentenzia in chiusura: “Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn”. Se Kuhn rappresenta la fede cieca, Beppo sembra un ideale di stoicismo più degno di ammirazione, in un mondo però in cui nessuna divinità salverà i giusti per la propria fede o condannerà gli iniqui. Tutti nel lager sono destinati alla morte e chi sopravvive si salva per caso e non per meriti morali.
Levi stesso è consapevole dell’imprevedibilità di fondo dell’esistenza, resa crudamente evidente dal massacro indiscriminato nel lager cui assiste ogni giorno. Lui stesso sa bene di essersi salvato non perché “eletto”: lo ha aiutato avere una formazione da chimico e la conoscenza del tedesco, che gli hanno permesso di essere assegnato a incarichi meno pesanti nel campo di Auschwitz. Con il crollo del fronte orientale, evita di essere evacuato dal lager e non viene intruppato in una “marcia della morte” perché ammalatosi di scarlattina. Tutto questo rinsalda in Levi l’idea che non esista una provvidenza, tema cui dedica toccanti riflessioni in I sommersi e i salvati (pubblicato nel 1986, l’anno prima della morte).
Tornato a casa, Levi racconta in questo libro dell’incontro con un suo amico, “cultore di una religione sua personale”, il quale si rallegra del fatto che sia sopravvissuto, attribuendolo alla provvidenza. “Ero un contrassegnato, un eletto”, chiosa Levi parafrasando l’altro: “io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato”. “Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza”, secondo l’amico. “Questa opinione mi parve mostruosa”, sentenzia però l’autore, “Mi dolse come quando si tocca un nervo scoperto”. Perché l’eventuale intervento per vie misteriose e incomprensibili del divino – uno dei cavalli di battaglia della finta modestia apologetica – invece di arrecare sollievo lascia in Levi una ferita nella coscienza: “potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei avere soppiantato, cioè di fatto ucciso”.
Nella tragedia dio non salva i giusti e Levi ne ha ampia testimonianza: “i ‘salvati’ del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio”. Anzi, anche se “non era una regola certa”, “sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della ‘zona grigia’, le spie”.
Levi sa bene e umanamente comprende quanto la religione possa essere un rifugio in situazioni disperate, ma non cederle diventa segno di solidità morale e profonda consapevolezza – al contrario di quello che una diffusa vulgata vuole far credere. Nel libro racconta l’angoscia che lo colse in vista della seconda selezione, cui si presentò ammalato: temendo di essere avviato alla “soluzione finale” nell’ottobre del 1944, quella fu l’unica volta in cui ammette di aver provato “la tentazione di cedere, di cercare rifugio nella preghiera”. Ma qui riemerge quella spinta per la ricostituzione di una dignità personale: “nonostante l’angoscia, ha prevalso l’equanimità: non si cambiano le regole del gioco alla fine della partita, né quando stai perdendo. Una preghiera in quella condizione sarebbe stata non solo assurda (quali diritti potevo rivendicare? e da chi?) ma blasfema, oscena, carica della massima empietà di cui un non credente sia capace. Cancellai quella tentazione: sapevo che altrimenti, se fossi sopravvissuto, me ne sarei dovuto vergognare”. Lo scrittore lucidamente afferma: “Sono entrato in Lager come non credente, e come non credente sono stato liberato e ho vissuto fino ad oggi; anzi, l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità. Mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire qualsiasi forma di provvidenza o di giustizia trascendente”.
Primo Levi verrà spesso intervistato per la sua preziosa testimonianza del lager, riflettendo in maniera consapevole anche sulla religione. In una conversazione con il giornalista Ferdinando Camon dice che “l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto”. In maniera toccante aggiunge: “C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al problema. La cerco, ma non la trovo”. A Giuseppe Grieco, del settimanale Gente, nel 1982 riferisce di credersi “un caso estremo, nel senso che quello di Dio è un problema del quale finora non mi sono mai veramente occupato. La mia è la vita di un uomo che è vissuto, e vive, senza Dio, nell’indifferenza di Dio”. Si confronta con un altro sopravvissuto all’Olocausto, l’intellettuale Elie Wiesel, che è rimasto credente e definisce in un certo senso un “ossesso” di Dio. Ammette di invidiare i credenti, ma rispetto a Wiesel che ha vissuto in maniera traumatica per la sua religione lo sterminio ed è arrivato ad “accusare Dio di permetterlo”, Levi chiarisce: “mi sono limitato a concludere: ‘Dunque è proprio vero: Dio non c’è'”.
Primo Levi muore nel 1987, in circostanze che fanno supporre un suicidio, forse a causa della depressione. Per alcuni non si sarebbe mai liberato dei fantasmi di Auschwitz che lo attanagliavano, cercando così la morte. Ma forse è una spiegazione che non rende giustizia a uno scrittore che per decenni ha saputo esplorare la condizione umana oltre il racconto dell’Olocausto, fino ai territori della poesia e persino della fantascienza. Levi è tuttora un intellettuale molto rispettato e studiato all’estero, forse in maniera più sentita rispetto alla lettura scolastica e didascalica in voga in Italia. Si veda l’amicizia con Philip Roth, il noto scrittore statunitense anch’egli non credente e di origine ebraica. Anche il polemista ateo Christophen Hitchens dedica l’antologia di citazioni The Portable Atheist a Primo Levi, per la “forza morale nel rifiutare la falsa consolazione persino mentre pativa il processo di ‘selezione’ ad Auschwitz”. Alcune opere accademiche ne mettono in risalto il carattere laico, umanista, anche con accezione “austera”, il suo ispirarsi a valori illuministi di dignità, giustizia e libertà contro la barbarie irrazionale e violenta del totalitarismo. Quello di Levi è un appello di buon senso alla ragione, senza barricate ideologiche ma per difenderne la preziosa essenzialità, come strumento di discernimento per affrontare la tragedia, l’insensatezza e la distruzione del mondo. Senza “divinizzarla” (qualunque cosa significhi), ma senza nemmeno metterla in soffitta o farla diventare una specie di discarica intellettuale cui attribuire frettolosamente tutti i mali del mondo e della modernità (Olocausto e nazismo compresi). La memoria di Primo Levi risveglia le nostre coscienze ancora oggi per l’autorevole impronta laica e l’instancabile affermazione della dignità umana di fronte alla degradazione nichilistica e a scorciatoie fideistiche.
Valentino Salvatore
Dopo “Se questo è un uomo” non sono più riuscita a leggere un libro di testimonianze sui lager per molto tempo: ricordo un enorme dolore ad ogni pagina. Insieme con “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, il libro di Levi è stato il più significativo della mia adolescenza.