Premio Brian all’81a Mostra internazionale del cinema di Venezia

Quest’anno il Premio Brian va al film “The Room Next Door” di Pedro Almodóvar per la riflessione laica sulla morte e sul fine vita. Paolo Ferrarini parla di questo e altri film dell’ultima mostra del cinema di Venezia interessanti per la giuria del premio sul numero 5/2024 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.


«Andarsene da questo mondo puliti, dignitosamente, credo sia un diritto fondamentale. Non è una questione politica, ma umana, ed è dal punto di vista umano che va approcciata, anche se sta ai governi articolare le leggi necessarie perché ciò si possa realizzare. So che questo diritto è in conflitto con alcune tradizioni o fedi che considerano Dio come unica fonte di vita, e quindi unico a decidere quando terminarla. Io chiederei ai praticanti di qualsiasi fede di rispettare e di non intervenire in decisioni individuali in questo ambito. L’essere umano deve essere libero: di vivere e di morire, quando vivere diventa insostenibile».

Con queste emozionanti parole, il celebre regista spagnolo Pedro Almodóvar ha accettato il Leone d’oro all’81a Mostra internazionale del cinema di Venezia per il suo ultimo film The The Room Next Door (La stanza accanto). Non potrebbe essere più forte ed esplicito, nel film come nelle intenzioni dichiarate del regista, il raccordo con una delle tematiche più urgenti affrontate dalla nostra associazione, il bisogno di una legge che garantisca il diritto all’eutanasia, motivo per cui la giuria Uaar, presente a Venezia per il diciannovesimo anno consecutivo, ha risolutamente deciso di assegnare a The Room Next Door il premio Brian per il film della mostra che mette maggiormente in risalto i valori del laicismo.

La trama di The Room Next Door ruota attorno a una coppia di amiche che si ritrovano casualmente dopo diversi anni: Ingrid (interpretata da Julianne Moore), è un’affermata scrittrice che esprime nei suoi libri la propria difficoltà a fare i conti con l’idea che la vita debba finire, Martha Hunt (interpretata da Tilda Swinton), è un’ex reporter di guerra che al contrario non ha alcun timore di affrontare la morte a viso aperto, preoccupata soltanto della propria dignità umana nel momento in cui la sua fine si avvicina inesorabile a causa di un cancro incurabile alla cervice.

Martha, dopo il fallimento di un’ultima terapia sperimentale, convince Ingrid a farle compagnia in una lussuosa villa in montagna affittata per un mese allo scopo di godersi gli ultimi giorni di vita insieme a una persona amata, ripercorrendo momenti salienti del passato e condividendo l’amore per l’arte e la letteratura prima di assumere una pillola dell’eutanasia recuperata per vie traverse nel dark web.

Martha non ha dubbi né accetta che la sua volontà di morire una morte pulita e dignitosa venga minimamente messa in discussione. Ciò che la far star male non è l’inevitabilità del proprio fato, ma piuttosto la falsa speranza di guarigione, ed è disgustata dalla retorica di certi gruppi di supporto che invitano a considerare la malattia come una sfida da affrontare con lo spirito di un guerriero, o peggio ancora come un’occasione di cosiddetta crescita spirituale. Per lei, averla vinta sul cancro significa letteralmente «fregarlo prima che sia lui a fregare te».

Se in questa storia si può parlare di crescita spirituale, o più semplicemente di maturazione, questo vale piuttosto per Ingrid, per certi aspetti la vera protagonista del film: mentre vomita e si dispera quando conclude erroneamente che Martha sia morta dietro una porta chiusa, nel momento in cui alla fine vede materialmente la morte in faccia, nella serena, elegantissima e sgargiante immagine dell’amica esanime, non c’è traccia di paura o di repulsione nella sua reazione: soltanto tenerezza e orgoglio per il gesto di Martha, un gesto di cui è pronta a farsi carico personalmente nell’iter legale che la aspetta per giustificare il proprio coinvolgimento in quello che agli occhi della legge appare come un crimine premeditato.

La figura di un agente di polizia che non si fa remore nel citare la propria fede religiosa nell’aggressivo interrogatorio in cui tenta di incastrare Ingrid è un esplicito riferimento al bigottismo che in molte democrazie ancora si frappone alla promulgazione di leggi a favore di un fine vita dignitoso. È anche il momento in cui emerge più chiaramente l’intento militante del regista, il quale ha dichiaratamente realizzato questo film per scuotere le coscienze in una fase storica in cui le destre e i populismi che vogliono soffocare tali diritti non solo hanno smesso di restare nascosti e ai margini della scena politica, ma hanno dimostrato di avere i numeri per prendere il sopravvento sui partiti di mainstream.

È per questo motivo che Almodóvar ha comunicato alla nostra giuria di aver ricevuto con soddisfazione il premio Brian, conferito da un’associazione come l’Uaar di cui afferma di condividere filosofia e finalità.

Diversi altri film sono stati attenzionati dalla nostra giuria. Il secondo dei tre arrivati alla discussione finale si intitola Shahed (The Witness), di Nader Saeivar, regista iraniano e stretto collaboratore di Jafar Panahi (Nessun Dogma 5-2022 e 6-2022), assieme al quale ha scritto questa sceneggiatura. È una storia di resistenza e di opposizione al corrotto regime islamista iraniano, che da una parte impone inaccettabili restrizioni alla libertà di espressione delle donne, soggetti considerati civilmente e fisicamente sacrificabili, e allo stesso tempo sfrutta ataviche leggi religiose sul delitto d’onore per garantire immunità agli uomini utili alle istituzioni.

Tarlan, un’ex insegnante di ballo, è testimone dell’assassinio dell’amica Rana da parte del marito, pedina del governo, ma si scontra con un muro di gomma quando cerca di renderle giustizia: i magistrati invocano la legge islamica per giustificare lo scarso interesse sia per la testimonianza di una donna, sia per la morte stessa di una donna tacciata di infedeltà coniugale. Portando alle estreme conseguenze la metafora dei clericali come ratti che infestano la casa (animali da tollerare e rispettare come creature di Dio, nelle parole del marito di Rana) Tarlan, esasperata paladina della laicità, giunge a un passo dal prendere la giustizia nelle proprie mani e far fare all’assassino letteralmente la fine del topo.

Manas, di Marianna Brennand, terzo “finalista” per il premio Brian, è un film brasiliano ambientato sull’isola di Marajó, in piena Amazzonia. Tielle è una ragazza minorenne che vive in povertà con la numerosa famiglia sulle sponde del fiume, in una comunità che campa vendendo prodotti della foresta. La monotonia della vita è punteggiata dai passaggi di grandi chiatte commerciali che solcano periodicamente le acque al largo del villaggio.

Sognando una vita migliore con un “buon uomo” che la porti altrove, come è convinta sia accaduto alla sorella maggiore, Tielle decide di tentare la fortuna a bordo di una di queste chiatte, ulteriormente spinta dal fatto che il padre ha iniziato ad abusare sessualmente di lei. A tal riguardo, né la madre né la comunità, insistentemente descritta come profondamente cristiana, sanno offrirle l’aiuto di cui ha bisogno, predicando la paziente sopportazione di questi abusi ed esponendo un sistema di endemica ipocrisia che va a detrimento della salute delle ragazze del villaggio.

Purtroppo, anche le speranze riposte da Tielle in un’ipotetica fuga romantica si rivelano illusorie, perché agli uomini sulle chiatte non interessa altro che sfruttare sessualmente le ragazze che salgono a bordo, presumibilmente mandate anche dalle famiglie per portare a casa qualche soldo in più. L’eroica affermazione di individualità di Tielle si manifesta nello spezzare la catena della violenza, impedendo almeno che la sorella minore subisca il suo stesso destino.

Fra i documentari presentati alla mostra, Soudan, souviens-toi, di Hind Meddeb, va sicuramente segnalato come di interesse per i nostri soci. Il Sudan è un Paese che ci ha regalato forti emozioni nel 2019, quando alla caduta della dittatura islamo-militare è subentrato un governo civile che ha promulgato una delle costituzioni laiche più all’avanguardia del continente africano, eliminando per esempio i reati di apostasia e blasfemia che tanto affliggono la libertà di coscienza nei Paesi a maggioranza musulmana.

Ma leggere queste notizie da lontano non rende sufficientemente l’idea della passione con cui i cittadini hanno portato nelle piazze la loro voglia di cambiamento, e questo documentario ce la mostra: donne con velo a fianco di donne senza velo che articolano pubblicamente il loro disprezzo nei confronti degli imam oppressori, definiti come «mercanti di religione e non uomini di Dio», ragazzi che chiedono a gran voce la tutela del pluralismo religioso, rapper che inneggiano a un Sudan libero dal tribalismo e dalle tradizioni tossiche, cartelli che accusano il governo di avere ucciso in nome della religione. Materiale che dà i brividi a chi come noi ha particolarmente a cuore questi temi.

Sappiamo naturalmente che la storia ha poi tristemente fatto inversione a U, con la ripresa del potere da parte dei militari e lo scoppio della guerra civile, ma il documentario cerca di tenere vivo l’originale spirito rivoluzionario e la fame di democrazia attraverso le testimonianze dei principali attivisti (per lo più oggi in esilio).

Altri film ritenuti interessanti o particolarmente apprezzati dai nostri giurati: Quiet Life, di Alexandros Avranas, che affronta il tema della misteriosa sindrome della rassegnazione, che in Svezia ha colpito numerosi adolescenti di famiglie migranti dal medio oriente, o dai Paesi dell’ex Unione Sovietica, nel momento in cui il diritto all’asilo non è stato riconosciuto. Sembra che i traumi vissuti nelle terre d’origine, uniti all’incertezza per il futuro nell’indifferente Paese d’accoglienza, abbiano portato alcuni giovani a chiudersi patologicamente in sé stessi fino al punto di finire in uno stato catatonico simile al coma.

Pooja Sir, un dramma-poliziesco nepalese di Deepak Rauniyar, che prende le mosse da un caso di rapimento di bambini per portare alla luce, attraverso le vicende dell’investigatrice protagonista, la pesante situazione di razzismo istituzionalizzato nei confronti dell’etnia madhesi e denunciare al contempo la forte misoginia della società nepalese.

Ainda estou aqui (I’m Still Here) di Walter Salles, bellissimo e riuscitissimo film sulla dittatura brasiliana, incentrato sulla vicenda del politico e attivista desaparecido Rubens Paiva, e che vede protagonista la moglie Eunice, per tutta la vita devota all’eroica ricerca di una verità certificata che attribuisca definitivamente la responsabilità dell’accaduto allo Stato sotto la dittatura militare.

Marco, di Aitor Arregi e Jon Garaño, un film che invita a riflettere sul concetto di verità biografica/psicologica/storica/giornalistica/cinematografica attraverso la vicenda dello spagnolo Enric Marco, sedicente reduce dal campo di sterminio nazista di Flossenbürg, il quale per anni ha partecipato a incontri, parlato nelle scuole e rappresentato le associazioni dei sopravvissuti, fino a quando uno storico è riuscito a smascherarlo come impostore.

Aïcha, di Mehdi Barsaoui, film tunisino che affronta le disattese speranze riposte dai cittadini laici nella rivoluzione del 2011. La protagonista, giovane originaria della remota Tozeur, riesce a sfuggire a un rassegnato destino come sposa in un matrimonio di convenienza, lasciandosi credere morta dopo essere in realtà sopravvissuta a un drammatico incidente stradale.

Trasferitasi nella capitale in cerca di fortuna con una nuova identità, ma senza documenti per certificarla, Aïcha si ritrova nuovamente impantanata, questa volta in quanto testimone di un delitto perpetrato in un club da poliziotti corrotti. Dichiarare la verità in questa losca vicenda esporrebbe la menzogna sulla sua identità, con disastrose conseguenze sul suo futuro in Tunisia.

Paolo Ferrarini

 

Il premio Brian per l’81a edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia è stato conferito al film The Room Next Door di Pedro Almodóvar con le seguenti motivazioni: «La scelta di un fine vita dignitoso è solo il privilegio di chi se lo può permettere, quando manca un diritto riconosciuto, e in un contesto dominato dal clericalismo questa dignità porta pure lo stigma della criminalizzazione. La protagonista del film possiede le risorse economiche e culturali per organizzare la propria morte aggirando i limiti della legge, un percorso vissuto con serenità, senza ripensamenti o preoccupazioni metafisiche, sfruttando l’occasione per confrontarsi con il passato e recuperare rapporti umani. Un esempio di come un approccio laico alla morte possa diventare una celebrazione della vita».

Composizione della giuria Uaar 2024
Presidente: Paolo Ferrarini
Giurati accreditati alla mostra: Glauco Almonte, Enrica Berselli, Joana Fresu De Azevedo, Carmelo Lucchesi, Irene Tartaglia
Giurati proiezioni a Mestre: Maria Teresa Crisigiovanni, Giuseppe Indelicato Giurati online: Emanuele Albera, Micaela Grosso

 


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