Il poeta e saggista Franco Buffoni ha recentemente pubblicato “Il Gesuita”, un romanzo dal sapore autobiografico che esplora temi come omosessualità, cambiamento sociale e religione. La responsabile iniziative legali Uaar Adele Orioli lo ha intervistato sul numero 6/2023 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Il suo ultimo libro, Il Gesuita, una sorta di viaggio autobiografico di educazione erotico-sentimental-culturale si svolge nel 1966, anno nel quale il giovanissimo e altrettanto curioso protagonista sente per la prima volta la parola “gay” associata a una specifica preferenza sessuale e per giunta in senso non dispregiativo.
Senza voler spoilerare troppo sulla trama, che tiene volutamente in suspense il lettore, quanto è diverso quel mondo presessantottino da quello contemporaneo? Tanto quanto sembra?
Sì, sicuramente tanto, almeno nel mondo occidentale, dove ci sono Paesi in nord America come in nord Europa che io definisco “post gay”. Le scuole, le famiglie, la società nel complesso è attrezzata e scoprirsi e dichiararsi persone Lgbt+ non crea all’adolescente assolutamente alcun problema e anzi passa semmai nella giusta indifferenza.
Se pensiamo invece che nella feroce Gran Bretagna (quella del processo Wilde, per intenderci) quando venne eletta la regina Elisabetta erano ancora detenute nelle carceri inglesi più di tremila persone, adulte e mediamente di buon livello socioculturale, per il reato di sodomia! La legge venne cambiata per l’appunto solo nel 1967.
Va detto che per fortuna anche nelle zone ancora oggi più arretrate in tal senso, gli Stati africani ad esempio, grazie a internet è possibile far penetrare la conoscenza e il lessico adeguati, in un continuo insufflare che senza dubbio facilita il processo di consapevolezza e accettazione.
La stessa rivoluzione di cui si accenna appena nel libro e che sarà di lì a venire, partita da Berkeley, ha consentito comunque anche l’avvio della liberazione femminile, del femminismo, della rivendicazione della parità fra l’uomo e la donna. In questo caso prima i diritti civili, poi il lesbismo.
E l’Italia?
L’Italia è in mezzo al guado. Se guardiamo a Roma o Milano, o comunque solo a certi ambiti, possiamo dire che già cinquecentomila persone vivono in un’epoca post gay. Certo è che nelle zone meno coltivate culturalmente vale più un festival di Sanremo come è stato quello dell’anno passato che un libro di Butler o di Buffoni… Ben vengano insomma Fedez o Mahmood.
Eppure ci sono ancora molteplici elementi divisivi, persino all’interno dello stesso movimento Lgbt+. La Gpa, ad esempio.
Indubbiamente la risoluzione di questi conflitti nelle società post gay avviene naturalmente, cade lo stigma e i desideri hanno libero corso. Paesi come il Canada ad esempio riescono a dare risposte convincenti sull’argomento. Forse risposte non definitive, ma risposte. Inoltre al crescere del livello culturale cresce anche il tasso di ateismo e la consapevolezza sull’autodeterminazione riproduttiva.
La contrarietà alla Gpa è poi di stampo prettamente omofobico, perché non nasce affatto per le coppie Lgbt+ ma lo scandalo è sorto quando anche queste ultime hanno cominciato a utilizzarla. A ogni modo ritengo sia una questione transitoria: mi risultano studi avanzati sulla creazione dell’utero artificiale e presto quindi ci occuperemo di altro tipo di problematizzazioni.
Si fa oggi un gran parlare dell’educazione affettiva che sarebbe da impartire nelle scuole, mentre non si nomina mai quella sessuale. Eppure tra le due dovrebbe esserci qualche differenza…
Certo! L’educazione al sentimento è educazione in senso ampio, dalla lettura al cinema: tutti gli insegnanti di materie umanistiche dovrebbero contribuire senza che sia una materia specifica. Ben diversa l’educazione sessuale, non è possibile che per pruderie certe nozioni vengano divulgate solo attraverso la pornografia.
Bisogna in ogni caso lavorare molto culturalmente: ad esempio non è mai ribadita con sufficiente vigore la dichiarazione dell’Organizzazione mondiale della sanità del 17 maggio 1990 che dichiara l’omosessualità una variante naturale della sessualità umana. Trentatré anni che per molti non esistono.
Per tornare a Il Gesuita lei già da studente si dichiarava fermamente ateo: eppure per la società di allora era ancora più rivoluzionario di adesso. Come ha vissuto questo conflitto, se conflitto c’è stato?
Beh, io stesso sono stato educato dai gesuiti. E sicuramente ne ho imparato, e ne sono felice, il metodo, l’approccio ai problemi filosofici, lo studio rigoroso. Ho poi vissuto la ribellione di un adolescente contro i mulini a vento, e anche questa in realtà è stata un’enorme istruzione.
Solo attraverso lo studio ho conosciuto ad esempio Marsilio da Padova, che parlava di “invenzione della religione” nella prima metà del trecento. Non ha alcuna università o aula a lui dedicate qui in Italia: in Gran Bretagna sì.
Va detto che ho passato il grosso della mia vita con gli hate speech di due papi violentemente omofobi in sequenza: prima Wojtyla e poi Ratzinger. Entrambi hanno fomentato un clima pessimo su un terreno peraltro già predisposto all’odio e all’ipocrisia. Certo, con Ratzinger e Wojtyla gli sbattezzi forse erano più numerosi, sia lodato Stefano Rodotà per aver riconosciuto questa procedura.
Perché, Bergoglio?
Non a caso, un gesuita, un astutissimo. Non ci sono più gli hate speech, lui stesso è ben diverso da papa rispetto a come era prelato in Argentina, dove si scagliò ad esempio contro il matrimonio egualitario. Per certi versi considerano persa la partita, qui in Occidente, e guardano maggiormente all’Africa. Due miliardi e mezzo di persone che possono ancora almeno in parte dominare culturalmente. Difficile comunque che si torni indietro ai tempi di Ratzinger, ormai Bergoglio ha forgiato a sua immagine l’intero collegio cardinalizio.
Quasi in contemporanea con Il Gesuita è uscito anche un suo saggio per Vallecchi, Giustizia: essere omosessuali non è una scelta, essere omofobi sì, per citarne la conclusione. Una produzione, la sua, tanto prestigiosa quanto fitta e costante. Inevitabile a maggior ragione quindi la domanda di rito: progetti per il futuro?
Sono felicemente in pensione e, a parte qualche piccolo incarico che ho mantenuto, ho la fortuna di poter scrivere con più tempo e soprattutto ancora maggiore libertà.
Nel 2025 festeggio i 50 anni di poesia e uscirà un nuovo libro che verrà inglobato nell’edizione Oscar Mondadori che conterrà tutta la mia opera. Inoltre ho in cantiere anche un nuovo libro di narrativa, sempre a forte componente saggistica, in cui uno fra i protagonisti sarà Mario Mieli, mio amico dall’adolescenza e scomparso a 31 anni nel 1983.
Certo, i suoi scritti e le sue lotte degli anni settanta trovano oggi un mondo completamente diverso, quando è morto non c’era nemmeno ancora l’aids: eppure la sua tesi di laurea ha indubbiamente gettato le basi dei cosiddetti attualissimi “gender studies”. Non è un caso se in Uk è un autore conosciuto e stracitato, mentre da noi… Nemo propheta in patria.
Intervista a Franco Buffoni a cura di Adele Orioli
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