La Democrazia cristiana italiana non esiste più. Ma i suoi quadri dirigenti, trapiantati nella seconda repubblica, hanno continuato a comportarsi come nella prima. Raffaele Carcano ripercorre questa ingombrante presenza nella politica italiana sul numero 1/2024 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Finita la seconda guerra mondiale, i tre grandi sconfitti sono stati governati a lungo da partiti centristi. In Giappone, i liberaldemocratici (più di nome che di fatto) sono tuttora al potere. I democristiani tedeschi ne sono stati estromessi due anni fa per la terza volta, ma stando ai sondaggi ci ritorneranno presto. Per contro, la Democrazia cristiana italiana non esiste più da trent’anni. Ciononostante, il nostro capo dello Stato è un suo storico esponente – per nulla pentito di quell’esperienza, a quanto risulta.
Si è dunque avverato il titolo del Manifesto in occasione delle elezioni del 1983 («Non moriremo democristiani»), però di ex democristiani ce ne sono ancora in giro davvero molti. E potrebbero restarci ancora per tanto tempo: in fondo, vista l’età media dei nostri rappresentanti, i ventenni che entrarono trent’anni fa nello scudocrociato possono sperare di avere ancora quattro decenni di tempo per influenzare, e parecchio, la politica italiana.
E dire che in quel 1983 la Dc era “soltanto” scesa al 32,9%. Nel 1992 calò per la prima volta sotto il 30%, attestandosi al 29,6%. E poi crollò, rovinosamente, a una velocità sorprendente per chiunque. Ci fu l’inchiesta di Mani Pulite, e fu introdotto un sistema elettorale a doppio turno per le elezioni comunali nelle città. Anche se è difficile misurare l’impatto specifico dei due eventi, i numeri raccontano la storia di un improvviso abbandono di massa: nelle comunali del 1993, il partito crollò al 12,5% a Torino, al 12% a Roma, al 10% a Napoli e al 9,4% a Milano.
La caduta dei consensi innescò immediate fuoriuscite: Mario Segni si mise in proprio, mentre dalla porta di sinistra uscirono i cristiano-sociali (tra cui Carniti e Franceschini). Svoltarono invece a destra Casini e Mastella, che formeranno il Ccd, e ancor più a destra Publio Fiori, che entrerà in An.
Nell’ansia di rifarsi una verginità, la Dc cambiò il nome in Partito popolare italiano e si presentò alle elezioni politiche del 1994 al seguito di Segni e insieme ad Amato, La Malfa e quel che di presentabile restava al centro. La coalizione del Patto per l’Italia arrivò però soltanto terza, staccatissima. Prese il 15,6%: per dare un’idea del tracollo, la somma dei voti che il pentapartito aveva raccolto alla camera appena due anni prima era stata del 53,2%.
E non era che l’inizio: il “grande centro”, che si ripropone più frequentemente del peperone, nella neonata seconda repubblica si sarebbe rivelato soltanto un centrino. Il minimo storico del Patto per l’Italia nel 1994 rappresenta infatti il miglior risultato ottenuto da allora.
Tanti ex dc compresero ben presto che, per continuare a restare al potere, occorreva dunque parassitare o la destra, o la sinistra. Tra i ministri del primo governo Berlusconi ce n’erano già tre: D’Onofrio, Mastella e Fiori. In seguito saranno ancora più numerosi: non sorprendentemente, gli orfani della balena bianca avrebbero rivelato una ragguardevole capacità di farsi adottare sotto qualunque bandiera.
Conseguenza inevitabile, già nel 1995 il Ppi si divise tra chi si alleava a destra e chi a sinistra, generando spesso sfide elettorali che contrapponevano candidati con un retroterra molto simile. Il fenomeno fu ulteriormente accentuato dalla successiva scomparsa del Ppi, che confluì nella Margherita dopo aver raggiunto un deludente 4,2% alle europee del 1999.
Nulla di nuovo sotto il sole: erano cambiati i panettieri, ma si continuava a praticare la politica andreottiana dei due forni. Tra l’altro, anche il vecchio Giulio continuava a far politica quale senatore a vita, e continuava a essere determinante. Nel febbraio 2007, la sua astensione su un progetto di legge duramente osteggiato dai vescovi, quello sulle unioni civili (i famosi Dico), unita alla contrarietà di Mastella (che nel frattempo era migrato nelle schiere del centrosinistra), provocarono le dimissioni del primo ministro Romano Prodi.
Che poi rientrarono, ma solo dopo aver sacrificato il progetto di legge. Il buon cattolico Prodi, forse troppo adulto, era del resto già caduto nel 1998 a causa del voto della super-zelante Irene Pivetti (che aveva anch’essa abbandonato la coalizione di destra) e, nel 2008, avrebbe definitivamente abbandonato Palazzo Chigi a causa della sfiducia di diversi deputati centristi, tra cui il solito Mastella. Storie da prima repubblica clonate tali e quali nella seconda, con protagonisti prelevati dal medesimo ambiente.
Lo stesso Prodi è un ex dc. Ed è stato anche l’ispiratore della nascita del partito più innaturale della seconda repubblica, quello democratico, frutto di un’unione tra ex democristiani, ex comunisti e diversi altri elementi che, più che da collante, avrebbero fatto da detonatore. All’assemblea costituente della compagine, nel 2007, Prodi si disse certo che «il Partito democratico sarà un esempio riformista per tutta l’Europa.
Sono convinto, e ne ho già avuto testimonianza, che saremo noi ad anticipare l’Europa e non viceversa». Sono passati diciassette anni e nessuno l’ha ancora imitato, né in Europa né altrove. Qualcosa vorrà pur dire. Ma nessuno sembra voler ascoltare.
Più che un punto di equilibrio, il centro politico italiano rappresenta un punto di rottura: l’ex Ppi Matteo Renzi è stato determinante nel far cadere il governo Conte II, nel 2021. Ma gli ex dc hanno creato numerosi problemi pure alla destra. Il caso più celebre è costituito dalla rapida fine, nel 2013, delle larghe intese Pd-Forza Italia.
La loro eutanasia fu voluta dai vescovi e organizzata da monsignor Rino Fisichella, già cappellano di Montecitorio: ne scaturì una scissione dal partito di Berlusconi e la nascita dell’effimero Nuovo centrodestra, guidato da Angelino Alfano (che appena ventenne era già segretario provinciale Dc ad Agrigento) e al cui interno era particolarmente attiva la componente di Comunione e liberazione capitanata da Maurizio Lupi (già consigliere comunale milanese Dc nel 1993).
Cielle è stato sin dalla nascita il movimento ecclesiale più politico che si possa concepire: se agli albori cercava “soltanto” di condizionare la Dc, ora invita annualmente a Rimini la crema della classe dirigente italiana, che si svende per un’apparizione sul palco del meeting.
Il risultato, deprimente per noi laici, è che tutte le coalizioni politiche hanno avuto e hanno marcate caratteristiche confessionali, e sono ormai distinguibili quasi solamente per la scelta di citare più frequentemente Ratzinger o Bergoglio. A riprova, è triste dover constatare come il bilancio laico della legislazione della seconda repubblica non sia migliore di quello della prima, nonostante la sparizione della Dc e la crescente secolarizzazione della società. Già l’approvazione pressoché plebiscitaria del secondo concordato faceva presagire una deriva: non a caso l’Uaar nacque proprio in reazione a essa. Purtroppo, la laicità è sempre più un vessillo di pochi (benché meritori) parlamentari.
Al contrario, la voce vaticana trova orecchie ancora più attente che in passato, nonostante, o forse proprio perché, l’elettorato non sembri avere una voglia matta di votare partiti dichiaratamente democristiani. L’Udc, l’unico che ha riscosso qualche attenzione, non ha mai raggiunto il sei per cento.
Numerosi partiti rivendicano ancora oggi l’eredità e il nome della Dc (Wikipedia ne conta addirittura sette), ma il confronto elettorale non li tenta mai, viste le percentuali da prefisso telefonico che raccoglierebbero. Non andrà diversamente con coloro che hanno recentemente lasciato il Pd: l’ex ministro dell’istruzione Fioroni ha fondato “Tempi nuovi” nella speranza che ritornino i bei tempi andati, ma è indubbio che nell’ultimo trentennio sia stato più facile aver successo da soli che in compagnia.
Gli ex dc/popolari hanno infatti ricoperto, e ricoprono ancora, diversi incarichi importanti. Il bilancio della seconda repubblica è di un capo dello Stato su tre, tre presidenti del consiglio su undici (Prodi, Letta e Renzi), tre presidenti su otto al senato (Mancini, Marino e Schifani) e uno su otto alla camera (Casini). Anche i ministri sono stati numerosi (più nei governi di centrosinistra che in quelli di destra). E questo senza considerare le impronte scudocrociate che si rintracciano anche in altri esponenti delle istituzioni: Mario Draghi, per ricordarne uno importante, fu un collaboratore del ministro Goria.
Come ha scritto qualche settimana fa Agostino Giovagnoli su Avvenire, oggi «i cattolici votano per tutti i partiti e sono in tutti i partiti». Non la considero una buona notizia. Perché i cattolici vogliono continuare a contare, come conferma la recente polemica per l’esclusione dei loro esponenti dalla segreteria di Schlein.
Tuttavia, dell’attività di governo dei vari Casini, Mastella, Fioroni, Lupi e compagnia orante nessuno ricorda nulla, se non che sono personaggi immarcescibili. Buoni per tutte le stagioni, forse, ma non certo per il Paese. La drammatica stagnazione italiana degli ultimi lustri è anche figlia della loro perdurante e ingombrante presenza.
Raffaele Carcano
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Chi vince sempre alle elezioni è il vaticano. Così si spiega il declino inarrestabile dell’ Italia. E’ una metastasi incurabile che anzi si aggrava sempre di più. Oggi poi con il patto clerico fascista anche i più elementari diritti civili sono diventati una chimera. Ma sembra che agli italioti non freghi proprio niente sono abituati a navigare nella fogna della politica nazionale…avanti popolo!
Ho sentito dire che i partiti dichiaratamente cristiani vanno forte in Germania.
In Francia che si dice?