In tutto il mondo la politica usa la tradizione religiosa come strumento identitario per attirare consensi. Così legittima privilegi, ostacola diritti e maschera l’assenza di una prospettiva sul futuro. Affronta il tema il direttore Raffaele Carcano sul numero 6/2024 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Per tanta parte della storia del mondo, replicare nella legge la dottrina della religione predominante (che spesso era anche l’unica) è stata una pratica pressoché universale. I peccati diventavano reati, i precetti venivano imposti a tutti. Il mondo sta attraversando oggi un processo di secolarizzazione di dimensioni mai viste in precedenza, che non si traduce però in una laicità giuridica altrettanto estesa.
Un elemento che può aiutare a comprendere questa incongruenza risiede nel tipo di reazione che il mondo clericale sta attuando per fronteggiare l’allontanamento della fede di così tante persone (politici compresi): non è più la dottrina il faro che deve illuminare il diritto, perlomeno esplicitamente, ma lo è la tradizione religiosa del Paese, svuotata di ogni riferimento immediato al sovrannaturale. Fa presa anche su diversi elettori non credenti, perché “la tradizione” è un argomento dotato di indubbia forza. Persino maggiore della stessa religione.

Venticinque secoli fa, Erodoto raccontò che il re persiano Dario aveva organizzato un provocatorio confronto tra rappresentanti di due gruppi etnici. Ne venne fuori che gli indiani callati non avrebbero mai bruciato i cadaveri dei loro morti, come facevano i greci, mentre i greci non li avrebbero mai mangiati, come facevano invece i callati. Erodoto, sulla scia di Pindaro, ne traeva la conclusione che la tradizione è «regina del mondo». E aveva ragione.
Una tradizione è semplice da trasmettere («abbiamo sempre fatto così»), si incrosta facilmente nei nostri cervelli (fa leva su infiniti bias), rimanda a un passato ritenuto migliore (anche se raramente è vero) e prospera in società in cui è tradizionale enfatizzarla (più o meno tutte). Inoltre, poiché pochi conoscono la storia, può pure essere inventata di sana pianta, come dimostrarono qualche decennio fa Hobsbawm e Ranger.
Chi le si oppone è malvisto, e lo constatava già Montaigne: «noi chiamiamo contro natura ciò che avviene contro la consuetudine». Il ricorso alla tradizione è infine un classico errore di ragionamento, compreso in qualsiasi elenco di fallacie argomentative: l’antichità di qualcosa non è assolutamente una prova della sua validità – altrimenti i cattolici dovrebbero ammettere che l’ateismo è automaticamente migliore del cristianesimo, essendo attestato quasi un millennio prima. Insomma, per come è fatto l’essere umano, le sirene della tradizione non potrebbero essere più potenti.
La tradizione non è però un monolite. È semmai uno scaffale da cui chiunque può prelevare quella parte della tradizione che più gli conviene in quel determinato momento. Noi umani abbiamo scarsa memoria, che si rafforza soltanto sottoponendola a messaggi continui e possibilmente amplificati in ogni contesto. E siamo anche una specie conformista. Ne consegue che chi ha alle spalle una storia bimillenaria, mantiene un predominio quasi totalitario nell’informazione ed è proprietaria di interi quartieri arredati a scaffali uso archivio, partirà sicuramente in pole position.
Non è un caso, se la chiesa cattolica rivendica che «la Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa» (costituzione dogmatica Dei verbum, approvata dal Concilio Vaticano II). Per il Vaticano è verità indiscutibile che la tradizione debba essere posta sullo stesso piedistallo della Bibbia – anche perché, se la Chiesa si rifacesse soltanto alla Bibbia, dovrebbe essere demolita e ricostruita ex novo.
Alla tradizione, essendo modellabile a piacere, può invece ricorrere ogni volta che vuole e può anche inventarla, quando è il caso (la donazione di Costantino, per esempio). Insieme alla trasmissione familiare della fede, la tradizione è il vero pilastro su cui si regge oggi la chiesa cattolica. Un’evidenza che emerge dalla maggioranza delle risposte che gli stessi fedeli cattolici danno nel corso dei sondaggi.
La retorica sulle radici cristiane dell’Italia (o dell’Europa, o dell’occidente) ne costituisce una riprova. È un mito relativamente recente, creato a tavolino in reazione alla progressiva secolarizzazione delle nostre società. Ed è abbastanza incoerente, per un’organizzazione che, fin dal nome, si proclama “universale”. Non a caso, vi ricorre laddove rappresenta la religione “tradizionale”. Dove non lo è, reclama invece a gran voce la (sua) libertà religiosa.
Questo atteggiamento ambivalente è stato fatto proprio anche da Bergoglio. Nel 2016, intervistato dal giornale La Croix, affermò che, «quando sento parlare delle radici cristiane dell’Europa, a volte temo il tono, che può essere trionfalista o vendicativo. Allora diventa colonialismo». Eppure, soltanto due anni prima aveva sostenuto, davanti al parlamento di Strasburgo, che «un’Europa che sia in grado di fare tesoro delle proprie radici religiose» sarà «più facilmente immune dai tanti estremismi che dilagano nel mondo odierno, perché è proprio l’oblio di Dio, e non la sua glorificazione, a generare la violenza».
A parte la bizzarra idea che le radici cristiane possano fermare la violenza, e a parte il fatto che nel mondo odierno la violenza è molto minore che durante il medioevo e la controriforma, ma come può non pensare che, attribuendone l’esistenza alla secolarizzazione, stia usando esattamente quel tono che lui stesso ha deplorato?
Il discorso sulle radici è comunque errato fin dalla radice. Perché l’Italia dovrebbe riconoscere le proprie radici cristiane, se per farsi Stato dovette dichiarare guerra al papa (poi proclamato addirittura beato)? Il cristianesimo, oltre ad avere evidenti basi ellenistiche, non rappresenta forse anche una rottura all’interno di un’altra tradizione, quella ebraica? A poco vale ricorrere alla formula inclusivamente aggiornata delle «radici giudaico-cristiane», visto che non solo dimentica un passato di antisemitismo e pogrom, ma esclude anche tante altre radici e viene usata quasi solamente per negare diritti e reclamare privilegi. Non tutte le radici sono peraltro necessariamente positive: l’Italia ha purtroppo anche radici fasciste da cui fatica moltissimo a staccarsi.
Del resto, per essere considerata «tradizionale», la stessa Chiesa dovette innanzitutto combattere le tradizioni europee precedenti. Lo fece con la forza degli editti degli imperatori romani cristiani e con la violenza dei suoi vescovi: san Martino di Tours edificava chiese sui templi pagani che aveva fatto demolire. Quando Simmaco chiese all’imperatore Valentiniano II che il senato romano tornasse a riunirsi, come da tradizione, in presenza dell’altare della vittoria, sant’Ambrogio rispose sprezzante che «ciò che voi ignorate, noi lo sappiamo dalla voce di Dio», e lodò apertamente l’editto che trasformava i riti tradizionali in reati, in quanto crimen maiestatis.
Non andò diversamente più di un millennio dopo, quando i missionari al seguito dei conquistadores si sentirono dire dai dignitari aztechi che «non ci sembra giusto che i costumi e i riti che i nostri antenati ci hanno lasciato, che hanno ritenuto buoni e ci hanno tramandato, noi, con sconsideratezza, li si debba abbandonare e distruggere. Badate che il popolo non abbia a sollevarsi». Parole che anche Salvini potrebbe fare sue.
E lo potrebbe fare perché sono concezioni condivise ovunque, in ogni tempo. L’essere umano è un animale tribale che è portato a diffidare di chi non appartiene al suo gruppo, e su questo atteggiamento innato hanno sempre prosperato i governanti: noi contro loro, buoni contro cattivi, “civili” contro barbari. Il culto tradizionale ha sempre rappresentato un supporto formidabile al potente di turno, anche quando ha introdotto cambiamenti: Augusto seppe far accettare l’impero (e il culto dovuto all’imperatore) presentandolo come se fosse il ripristino della repubblica romana che aveva appena abbattuto. Lo stesso islam ha avuto un percorso simile: ha distrutto il panorama religioso preesistente e si è fatto percepire rapidamente come “tradizione”.
A tale esito contribuiscono particolarmente i simboli identitari (croci, veli, turbanti, kippà), perché sono gli stessi fedeli a fare da testimonial della profondità della loro religione. Ma è proprio il concetto di “tradizione” a esercitare un richiamo irresistibile: pensate all’uso del pomodoro nella cucina napoletana, che fino a qualche secolo prima non ne aveva visto mai uno (e nemmeno era a conoscenza dell’esistenza del caffè). Tutto il mondo è paese, dunque, al punto che i fanatici della propria tradizione religiosa finiscono per far pensare che, se solo fossero nati in un luogo diverso, glorificherebbero senza alcun problema la tradizione religiosa di quel luogo.
Non si deve far l’errore di considerarla una strategia ristretta alla destra cristiana. La Cina comunista riconosce una posizione privilegiata alle religioni ritenute “tradizionali” dal governo (che, guarda caso, sono anche quelle che gli sono fedeli) e sostiene con trasporto la medicina tradizionale del Paese, ascientifica e spesso pericolosa, anche se i leader del partito preferiscono curarsi all’occidentale. Una situazione analoga è quella indiana, dove se ne avvantaggia l’ayurveda.
In Nuova Zelanda, la matauranga maori è stata ormai equiparata alla scienza, anche se è soltanto un insieme di tradizioni religioni etniche, e al fiume sacro Whanganui è stata attribuita la personalità giuridica soltanto perché i maori l’hanno tradizionalmente venerato come sacro. Anche il mondo culturale non è insensibile a queste posizioni: un quotatissimo filosofo progressista come Jürgen Habermas riuscì a scrivere un imbarazzante panegirico in cui sosteneva che «le tradizioni religiose provvedono ancora oggi all’articolazione della coscienza di ciò che manca.
Mantengono desta una sensibilità per ciò che è venuto meno. Difendono dall’oblio le dimensioni della nostra convivenza sociale e personale, nelle quali anche i progressi della razionalizzazione culturale e sociale hanno prodotto distruzioni immani». Bisognerebbe davvero inventare una macchina del tempo per spedire ogni nostalgico di totem e tribù indietro di diversi secoli, quando la consuetudine non era ancora stata rimpiazzata dal diritto.
Un passato spesso manipolato e dipinto come un paradiso perduto è il cemento di una classe politica radicatissima nell’attualità più bieca, ma assolutamente incapace di disegnare un futuro plausibile. Nello stesso modo in cui i regimi autoritari regolarmente sovrastimano i propri successi, taroccano senza pudore qualsiasi evidenza.
Nella tradizione umana rientrano a pieno titolo anche le guerre, l’omicidio, la pena di morte, la schiavitù, la sottomissione della donna, l’inquisizione, le crociate, il pensiero unico, l’analfabetismo, la mortalità infantile, la povertà generalizzata. Per chi disprezza questi fenomeni aberranti, rinascimento, illuminismo e scienza rappresentano radici ben più importanti, perché ci hanno aiutato a minimizzarli. E costituiscono un significativo esempio sulla strada del progresso – che non è una parola vuota, ma ciò che gli stessi esseri umani pongono in cima alle loro aspirazioni, quando si chiede loro quali siano.
Non dobbiamo soltanto affermare la laicità e la razionalità, ma farle conoscere come le leve più efficaci per creare un mondo migliore. Nell’interesse anche dei credenti, che possono coltivare liberamente le loro tradizioni (col solo limite della libertà altrui), e persino salvaguardando quanto di meglio può offrirci la tradizione. Ovvero ciò il cui valore è attestato dall’esperienza, dai dati di fatto, dalle prove a cui viene sottoposta quotidianamente. È la sua sacralizzazione che è invece sempre, e inevitabilmente, un freno all’avanzamento dell’umanità.
Raffaele Carcano
Iscriviti all’Uaar Abbonati Acquista a €2 il numero in digitale
Sei già socio? Entra nell’area riservata per scaricare gratis il numero in digitale!