Nel mondo, la censura su internet non è stata mai così estesa. Quando si può accedere a internet… Ne parla Massimo Redaelli sul n. 3/2021 della rivista Nessun Dogma.
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Durante gli attacchi terroristici di Parigi del novembre 2015, l’Europa ha sperimentato per la prima volta il Facebook Safety Check: gli utenti che in quel momento erano nei dintorni di Parigi hanno potuto segnalare ai loro cari, tramite il loro profilo sul social network, di non essere stati coinvolti nella tragedia. Applausi generali, viva la tecnologia.
Si confronti questo edificante episodio con quel che è invece successo in Azerbaijan lo scorso settembre, all’apertura delle ostilità con l’Armenia: dichiarata la legge marziale, l’accesso a Facebook e compagnia è stato limitato o bloccato, con lo scopo dichiarato di «evitare provocazioni su larga scala da parte dell’Armenia».
A questi blocchi, se temporanei, ci si riferisce col termine shutdown. Un’ottima risorsa per farsi un’idea dell’estensione di questo fenomeno è il report #KeepItOn (“tienilo acceso”, riferito a internet), pubblicato annualmente da Access Now, dal quale trarremo molti esempi.
Il Ministero delle (tra le altre cose) comunicazioni dell’Azerbaijan ha anche avuto la faccia tosta di sconsigliare ai cittadini di usare Vpn (virtual private networks) perché esse sarebbero «pericolose, raccolgono informazioni sensibili e sono anche in grado di infettare i dispositivi con malware». Peccato che i malware (software dannosi) si prendano ugualmente bene con o senza Vpn, e che queste servano precisamente per evitare che le proprie informazioni sensibili siano raccolte da alcuni soggetti. Non è il caso di spiegare il funzionamento delle Vpn in maniera tecnica, ma una digressione… analogica aiuterà a capire il seguito del discorso.
Il lettore può immaginare la situazione scolastica in cui Alice, seduta nel banco più isolato dell’aula, vuole mandare un bigliettino a Bruno, che è ahimè dall’altra parte della stanza, e deve quindi giocoforza ricorrere ai servizi di quell’impicciona e delatrice di Eva, sua compagna di banco meglio collocata, ma in combutta col preside. Per beffarla Alice, invece di scrivere «TVB» al bel Bruno, prepara un messaggio che dice: «y Csvop: UZC» e lo indirizza a Vera, l’altra vicina di banco dell’impicciona; la quale impicciona, perplessa, inoltra l’incomprensibile garbuglio di lettere a Vera; ma Vera sa, e traduce rimpiazzando ogni lettera con quella che la precede nell’alfabeto, recuperando il significato originale: «x Bruno: TVB». Sicché il messaggio raggiungerà felicemente il suo vero destinatario, l’antipatica Eva e il preside resteranno all’oscuro di tutto, e la privacy regnerà.
Fuor di metafora:
- Eva è spesso l’operatore del telefonino (o della fibra) che usiamo (meglio, dobbiamo usare) per connetterci a internet. Vede a chi mandiamo messaggi, e spesso anche il contenuto dei messaggi. Già di suo può avere incentivi (commerciali) ad analizzare il nostro traffico dati, ma sempre più spesso succede che…
- …il preside, cioè gli stati nazionali e loro agenzie, esigano che i provider non solo esaminino le comunicazioni, ma le filtrino o le blocchino del tutto.
- Vera è un computer “amico” e fidato, cui chiediamo di ricevere e ritrasmettere un messaggio…
- …in un codice concordato, che è un algoritmo crittografico che protegge i dati.
La Vpn è appunto il canale criptato tra noi e il computer “fidato”.
Alcuni stati si limitano semplicemente a bloccare tutto: non si può sbagliare, ma è un tantino drastico. L’India, per esempio, che è di gran lunga più la nazione con l’interruttore più facile (avendo “spento” l’accesso alla rete ai suoi cittadini ben 109 volte nel solo 2020, spesso con la giustificazione delle «misure cautelative» in momenti di instabilità politica), ha la mano pesante, anche se localizzata. Un caso recente è avvenuto in occasione della grande protesta dei contadini dello scorso febbraio, durante la quale la rete nelle regioni intorno a Delhi è stata brutalmente tagliata; mentre il più duraturo è senz’altro quello di oltre 18 mesi in Jammu e Kashmir, dove le reti mobili sono state disponibili al massimo in 2G (ovvero del tutto inutili): nemmeno le richieste del personale medico di avere accesso a linee guida per il trattamento del Covid in piena epidemia hanno ottenuto un allentamento della stretta ai bit. Tra le altre possibili scuse indiane per shutdown fa poi impressione il “coprifuoco internet” imposto durante il Madhyamik (il periodo degli esami delle scuole secondarie), ai fini di evitare che gli studenti barassero.
Altri stati chiedono ai provider di isolare solo alcuni siti, come i social network, il che è sufficiente per colpire la maggior parte degli utenti “normali” – ma non chi usa una Vpn. È quel che accade spesso nel caso delle elezioni, altra diffusa occasione di stretta alla rete: nel solo 2020 è successo almeno in Togo, Burundi, Kirghizistan, Tanzania e per ben due volte in Ghana. (Sorprende che poi il partito di opposizione abbia rifiutato di accettare il risultato?)
Altri stati ancora, più sofisticati, hanno una lista di computer che sanno essere servizi di Vpn, e bloccano anche quelli. Esempio clamoroso è la meno esotica e più vicina Bielorussia, dove il tutto è stato condotto… scientificamente: ci si è procurata l’attrezzatura per tempo (passando dalla Russia), la si è testata a giugno, il giorno dell’elezione si sono bloccati YouTube, WhatsApp, Telegram eccetera, e si sono tagliate le mani perfino alla fidata amica Vera/Vpn. Quasi tutto fermo, quindi, per 121 giorni, sull’altare del “democraticamente eletto” Alexander Lukashenko (la ragione ufficiale dei “problemi” con internet erano non meglio precisati hacker – un alibi che ci sembra di aver sentito usare anche in Italia recentemente).
Ci sono infine stati estremamente sofisticati, che analizzano il codice criptato e riescono spesso a capire se siano stati generati da tecnologie usate per aggirare le limitazioni. Si tratta di investimenti tecnologici talmente importanti che in questi casi le restrizioni sono spesso permanenti, continue e profonde. Se si vive in Corea del Nord, per esempio, non si ha accesso a praticamente nulla che sia prodotto all’estero o non approvato dall’Agenzia stampa centrale. La Cina è poco lontana, con il suo Great Firewall, gestito direttamente dal Ministero di pubblica sicurezza, che blocca l’accesso a larga parte dei social media occidentali, ma anche semplicemente a Google. Questo approccio così ampio alla censura ha avuto conseguenze economiche che avranno una coda molto lunga, visto che hanno spinto alla creazione di “versioni cinesi” di servizi come Amazon (Alibaba), Google (Baidu) e altri, che vista la dimensione del mercato cinese sono a loro volta giganti; oltre a esercitare una stretta sorveglianza su tutti i contenuti (e ad avere il carcere facile per reati d’opinione). Il tutto per creare una bolla di uniformità di opinioni, promuovere le “idee corrette” e sradicare il dissenso.
Nel 2013 la Cina, che sulla corsa alla tecnologia ha costruito gran parte della sua strategia economica, ha pensato bene di bloccare l’accesso a GitHub, che per i non iniziati altro non è che il sito sul quale viene pubblicato, sostanzialmente, tutto il software open source del mondo. Milioni di sviluppatori software e aziende cinesi si sono trovati senza accesso a codice di cui avevano assoluto bisogno. Due giorni dopo l’allarme è rientrato, ma GitHub continua a ricevere richieste da parte del governo cinese, che esige che certe pagine vengano rimosse: sono tutte (?) documentate a questo indirizzo.
Un esempio include il repository, che al momento è ancora accessibile, e che a giudicare dal nome sembra suggerire un programma che genera immagini e suoni che contengono una qualche mistura di Xi Jinping (hail!), Winnie Pooh (ciccione), un arcobaleno (rainbow), e flatulenze intestinali (fart). Screanzati…
È facile per noi, nell’Europa del Gdpr (Regolamento generale sulla protezione dei dati), fare spallucce e facile ironia sulla mancanza di senso dell’umorismo del Partito (unico) comunista cinese. Meno facile, forse, per chi ha amici che vivono a Hong Kong (o a Taiwan), e che potrebbero ritrovarsi presto in condizioni simili. Ma noi, liberi pensatori che diamo grande importanza alla libertà di parola e di ricerca, dovremmo scandalizzarci un po’ di più di quel che accade là fuori e, magari, fare sentire la nostra voce.
Ancora, noi favorevoli alla libertà religiosa dovremmo trovare particolarmente grave che una delle richieste di censura della Cina a GitHub reciti: «Segnalo un link illegale a Falungong sulla vostra piattaforma. Il Falungong è stato definito un’eresia in Cina, che viola il diritto penale, la legge sulla protezione dei minori e altre leggi e regolamenti».
Anche la Russia esercita un controllo non indifferente sulla rete, e blocca siti religiosi considerati “estremisti”, o semplicemente pagine che discutono il suicidio (che siano esposizioni della filosofia stoica o contenuti ironici, spesso con l’esplicita intenzione di attirare le ire dei censori).
Avvicinandoci ancora un po’, almeno geograficamente, la censura internet è estremamente diffusa in Medio Oriente, forse anche in seguito al contributo dato dalla Rete alle primavere arabe. Siti a contenuto religioso sono bloccati per esempio in Yemen, Arabia Saudita, Giordania.
L’Iran ha poco da invidiare alla Cina (dalla quale si rifornisce di tecnologia), e la Turchia è talmente spaventata dall’idea di “informazione” che è riuscita a impedire l’accesso a tutta Wikipedia per ben due anni (qualche tempo prima si erano limitati a bloccare le pagine relative agli organi sessuali).
Pure l’Egitto ha un pugno di ferro, e tra i siti colpiti, secondo un report dell’Association for Freedom of Thought and Expression, se ne trovano molti che si occupano di diritti delle donne, delle comunità Lgbt+ e altre minoranze.
Tutti, poi, sembrano bloccare i siti pornografici.
A questi esempi di censura di stato generalizzata si aggiungono quelli specifici che partono da privati ma sono resi possibili dalle leggi illiberali. Per esempio un’altra vittima illustre della censura turca è stato Richard Dawkins, il cui sito è stato bloccato in seguito a una causa promossa da un creazionista che si è sentito insultato da alcuni commenti là presenti che lo riguardavano.
E cosa succede invece nel nostro orticello? Prendiamo la abbastanza recente decisione di Donald Trump di bannare TikTok (un’app per video) e WeChat (una specie di WhatsApp multifunzione indispensabile in Cina) negli Stati Uniti, con la motivazione che il loro uso: «minaccia di consentire al Partito comunista cinese l’accesso alle informazioni personali e proprietarie degli americani, consentendo potenzialmente alla Cina di rintracciare le posizioni di dipendenti e appaltatori federali, creare fascicoli di informazioni personali per ricatti e condurre spionaggio aziendale».
Si sarebbe trattato di un primo, piccolo abbozzo di uno “Small US Firewall”, ad aggiungere un blocco dalla Cina al blocco verso la Cina già esistente? Sia chiaro, la preoccupazione in sé è certamente motivata (basti vedere le documentate influenze russe nelle due ultime elezioni americane, e il clamoroso attacco a SolarWinds), ma il rimedio proposto non sembra per nulla efficace.
Prendiamo il consenso sempre più ampio negli Stati Uniti e in Europa che sta ottenendo l’idea di aggiungere una “backdoor (porta sul retro) di stato” agli algoritmi di crittazione usati nelle comunicazioni sicure (in sostanza, si chiede che l’impicciona Eva/lo stato debba sempre avere la possibilità di capire quello che scriviamo sul bigliettino). Le intenzioni, come sempre, sono ottime (e i pedofili?! Non vogliamo proteggere i nostri figli?), ma cosa succede quando, per esempio, un giornalista scomodo non ha più un canale sicuro per comunicare con le sue fonti? (Non serve andare lontano).
Prendiamo infine il problema della disinformazione e delle fake news, che da una parte hanno esasperato cittadini americani fino a portarli ad attaccare il Campidoglio, e dall’altra diffondono paure irrazionali e comportamenti controproducenti (ad esempio contro il vaccino). Il discorso di cosa fare per regolamentare le piattaforme social («è giusto che Twitter blocchi l’account di Trump?», «lo stato dovrebbe ritenere le piattaforme responsabili di quello che scrivono i loro utenti?»), o almeno trovare soluzioni organiche per renderle meno esplosive, è tutto da scrivere.
Ma dovrebbe essere scritto tenendo presenti le storture tipo gli shutdown indiani (qual è il confine tra le “misure cautelative” di Delhi e il blocco di TikTok?), i dati empirici (come, ad esempio, chiudere il rubinetto dell’informazione sembra peggiorare la situazione invece di calmarla; e le backdoor sono controproducenti) e, almeno per noi dell’Uaar, l’assunzione che, in mancanza di dati, è bene errare dal lato non della censura ma della libertà.
Massimo Redaelli
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