Il sapere accademico non è al sicuro dalle assurdità derivanti dall’uso di un linguaggio oscuro e sregolato. Questa tendenza all’oscurità ha origini profonde, difficili da superare. Affronta il tema Giovanni Gaetani sul n. 2/2022 della rivista Nessun Dogma.
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Quando ci si avvicina al mondo accademico “da profani”, specialmente se in giovane età, se ne esce il più delle volte delusi o intimoriti: ai cosiddetti “non addetti ai lavori” l’accesso al sapere accademico è infatti sbarrato da un linguaggio oscuro e incomprensibile. Ma c’è oscurità e oscurità.
Per le discipline scientifiche, come la fisica o la matematica ad esempio, un certo gergo specialistico è inevitabile: un fisico o un matematico non possono non avvalersi che di formule e definizioni comprensibili solo da altri colleghi; in questo contesto, il profano non ha che due scelte di fronte a sé: ammettere la propria ignoranza, o mettersi a studiare per penetrare, nel corso degli anni, quell’oscurità.
Per altre discipline, prima fra tutte la filosofia, l’oscurità del linguaggio è invece in ultima analisi soltanto una mera scelta stilistica che non si sostiene su reali necessità oggettive, ma che viene tramandata acriticamente soltanto per motivazioni di ordine secondario, come vedremo più avanti; il paradosso, in questo caso, è che il profano che decida di penetrare quell’oscurità potrebbe accorgersi, dopo anni di studio, che dietro quel linguaggio pomposo e incomprensibile c’è spesso davvero poco di interessante – o addirittura nulla, per quanto spaventoso possa sembrare ammetterlo.
L’obiettivo di questo articolo sarà triplice: 1) analizzare brevemente lo stile scelto da molti accademici in ambito umanistico, prendendo a mo’ di esempio i filosofi contemporanei; 2) identificare alcune delle motivazioni occulte di questa scelta; 3) proporre un’alternativa, difendendo la chiarezza del linguaggio in un’ottica sia di democrazia che di efficienza.
Ora, prendersi gioco dell’oscurità del linguaggio dei filosofi è un po’ come sparare nel mucchio: c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Esiste infatti una tradizione millenaria che dal misticismo di Parmenide arriva fino alle supercazzole dei nostri Cacciari, Severino e Fusaro. Per fortuna, esiste anche una parallela tradizione di “smascheratori di supercazzole”, come ad esempio Aristotele che, già nel quarto secolo a.e.v., smontava gli artifici retorici dei sofisti, accusandoli di essere meri «negozianti di merce spirituale»; o ancora Schopenhauer, che distruggeva la fraudolenta retorica di Hegel, liquidandolo come «uno sciupatore di carta, di tempo e di cervelli». Tutto questo per dire che, se è vero che da sempre esistono gli affabulatori accademici, è altrettanto vero che sono sempre esistiti studiosi che hanno avuto l’ardire e l’onestà di smascherare le frodi linguistiche e concettuali dei loro colleghi.
Prendiamo a mo’ di esempio un “gigante” della filosofia contemporanea: Martin Heidegger. Il suo capolavoro indiscusso è il mastodontico Essere e Tempo, un unico e ininterrotto “esercizio di stile” (come l’ha definito Jean-François Revel) dove è possibile leggere, una dietro l’altra, frasi di questo tipo: «L’Esserci non è soltanto un ente che si presenta fra altri enti. Onticamente, esso è piuttosto caratterizzato dal fatto che, per questo ente, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. La costituzione d’essere dell’Esserci implica allora che l’Esserci, nel suo essere, abbia una relazione d’essere col proprio essere. Il che di nuovo significa: l’Esserci, in qualche modo e più o meno esplicitamente, si comprende nel suo essere. È peculiare di questo ente che, col suo essere e mediante il suo essere, questo essere è aperto a esso. La comprensione dell’essere è anche una determinazione d’essere dell’Esserci. La peculiarità ontica dell’Esserci sta nel suo esser-ontologico».
Leggendo frasi di questo genere, il “profano” della filosofia si domanda non solo perché Heidegger abbia scelto un linguaggio così arzigogolato e ridondante, ma anche se poi, in fondo, abbia detto effettivamente qualcosa di sensato e rilevante. Per fortuna, lo stesso scetticismo è stato condiviso anche a livello accademico: nel 1932, infatti – quando Heidegger era all’apice della sua carriera accademica, un anno prima di aderire al nazismo – il filosofo tedesco Rudolf Carnap pubblicò il saggio L’eliminazione della metafisica tramite l’analisi logica del linguaggio, nel quale analizzò logicamente alcune proposizioni di Essere e Tempo per poi dichiararle non tanto “false”, bensì “insensate” poiché fondate su un linguaggio indeterminato e volutamente oscuro, capace di dar vita solo a “pseudo-problemi” e “pseudo-proposizioni”.
Indeterminatezza e oscurità, insomma, ma anche prolissità, ipotassi estreme, mescolanza di lingue straniere, uso sconsiderato della punteggiatura (come quando ad esempio un Cacciari scrive “pro-getto” o “de-cisione” invece che “progetto” o “decisione”), ricerca della frase a effetto o della citazione erudita: sono queste alcune costanti retoriche del linguaggio accademico, ben oltre il recinto della mera filosofia.
A tal riguardo è interessantissimo il cosiddetto “Affaire Sokal”. Nel 1996, il fisico francese Alan Sokal propose alla rivista accademica Social Text un suo articolo intitolato Transgressing the Boundaries: Towards a Transformative Hermeneutics of Quantum Gravity. Nell’articolo, volutamente e totalmente insensato, Sokal sosteneva che la gravità quantistica fosse un costrutto sociale e linguistico (sic!), ma nel farlo adoperava citazioni erudite e un linguaggio suggestivo in linea con l’ideologia politica della rivista – il termine “femminista”, ad esempio, compariva ben 35 volte, come nell’assurda espressione “algebra femminista” (sic!). Tre mesi dopo la pubblicazione, Sokal denunciò l’accaduto in un’altra rivista, dando così vita a un dibattito ancora oggi irrisolto: l’accademia è o non è al riparo dalle assurdità derivanti dall’oscurità del linguaggio?
La risposta, purtroppo, è negativa. Esiste infatti in seno all’accademia, specialmente in ambito umanistico, una tendenza non solo a tollerare, ma addirittura a incentivare l’oscurità del linguaggio. A cosa si deve tutto ciò? Le motivazioni sono molteplici, io in questa sede proverò a identificarne quattro: tradizione, interesse, prestigio, impunità.
La persistenza dell’oscurità nel linguaggio accademico si deve innanzitutto a un principio di autorità: «Poiché si è sempre scritto così, allora anche noi scriveremo così», pensano gli aspiranti accademici, incuranti del fatto che le discipline evolvono e che l’obiettivo principale del sapere accademico dovrebbe essere la comunicazione della verità, non il rispetto della tradizione. A tal riguardo è interessante un lungo passaggio di Popper in Congetture e confutazioni che posso citare solo parzialmente: parlando dello spaesamento degli studenti di filosofia nel momento in cui vengono “iniziati” agli oscuri testi dei grandi pensatori, Popper scrive che «lo studente, tuttavia, sa che questi sono i grandi filosofi, e che tale è la maniera della filosofia. Egli compirà così uno sforzo per adeguarsi a quello che ritiene […] il loro modo di pensare. Cercherà di parlare il loro strano linguaggio, di uniformarsi alle tortuose spirali del loro argomentare, e forse addirittura di cacciarsi nei loro singolari guai. Alcuni possono apprendere questi artifici in modo superficiale, altri possono avviarsi a diventare dei cultori genuinamente affascinati. Penso, tuttavia, che dovremo rispettare chi, compiuto il proprio sforzo, giunge alla conclusione, che potrebbe considerarsi wittgensteiniana: anch’io, come tutti, ho imparato il gergo. – È molto ingegnoso e affascinante. Anzi, è pericolosamente affascinante; la semplice verità al riguardo, infatti, è che si tratta di molto rumore per nulla, una quantità di parole senza senso». Insomma, si impara e si adopera l’oscuro gergo dell’accademia per riverenza nei confronti del gergo stesso, e non perché sia necessariamente utile a dipanare problemi e scoprire nuove verità.
Similmente, in ambito accademico l’oscurità del linguaggio persiste anche per una questione di mero interesse. Non c’è niente di più facile, infatti, che scrivere difficile – citando ancora una volta Popper. In tal senso, in un ambito spietatamente arrivista come quello accademico, l’oscurità del linguaggio serve a costruire imperi di carta su aria fritta (vedi l’Affaire Sokal più sopra), ad allungare ad libitum la lista delle proprie pubblicazioni e, di conseguenza, a sottrarsi allo scrutinio dei propri colleghi, concentrati a loro volta nella medesima impresa di diluizione del significato a fini di carriera. Parlare in maniera chiara, onesta e concisa il più delle volte semplicemente non premia, come confessò Foucault a Searle: «In Francia bisogna avere un 10% di incomprensibilità, altrimenti le persone non penseranno che tu sia un pensatore profondo». Meglio adattarsi insomma a quel che richiede il mercato – quello accademico, in questo caso.
Da qui arriviamo al terzo motivo della lista: il prestigio. Parlare in maniera oscura ci permette di far vanto di essere saggi conoscitori della materia, anche quando in realtà non si sta dicendo nulla di importante, un po’ come sciamani post-moderni, in grado di attingere a una presunta “Verità” utilizzando espressioni come “trascendentalismo neo-fenomenologico” o “ermeneutica post-strutturalista”. Questo vale non solo in ambito accademico, ma in generale ogni volta che ci si trovi di fronte a un uditorio acritico e facilmente suggestionabile: non solo matricole universitarie, ma anche spettatori televisivi, cospirazionisti online, credenti o “spirituali ma non religiosi” – si pensi a tal riguardo all’incredibile proliferazione di nuovi guru e predicatori in giro per il mondo. Del resto, come scriveva Gómez Dávila, «idee confuse e acque torbide sembrano profonde», e allora per impressionare gli altri non c’è niente di meglio che adoperare un linguaggio volutamente oscuro che intorbidisca le acque e oscuri i concetti.
Veniamo infine all’ultimo motivo: l’impunità. Se – come ci ricorda Steven Pinker nel suo ultimo libro Razionalità – a partire da un’affermazione contraddittoria è possibile sostenere qualsiasi tesi, allora l’oscurità del linguaggio ha un duplice vantaggio: da una parte, permette una libertà di argomentazione pressoché infinita; dall’altra, offre un’impunità altrettanto ampia, vista la possibilità di poter sempre sostenere di essere stati fraintesi in questo o quel passaggio. Da questo punto di vista, la teologia è probabilmente la disciplina universitaria che gode della più ampia impunità, visto che si fonda per essenza su un linguaggio indeterminato e indeterminabile, potendo così argomentare a favore di qualsiasi tesi: se da domani le università obbligassero tutti i suoi professori ad attenersi a un linguaggio chiaro e verificabile, i dipartimenti di teologia sarebbero tra i primi a chiudere, vista l’impossibilità per un teologo di appoggiarsi su basi comprovate.
Esiste un’alternativa a tutto ciò? Difficile saperlo. Recentemente un accademico di prestigio come Steven Pinker, in un articolo dal titolo Why Academics Stink at Writing (Perché gli accademici fanno schifo a scrivere), ha definito polemicamente il linguaggio accademico come «turgido, fradicio, legnoso, gonfio, goffo, oscuro, sgradevole da leggere e impossibile da capire»; simili posizioni, però, per quanto auspicabili, sono sempre di minoranza nel mondo accademico.
Il punto è che la chiarezza di linguaggio garantirebbe una maggiore accessibilità ai contenuti del sapere accademico: per tutti, non solo per gli specialisti, in un’ottica al tempo stesso di democraticità e di efficienza del sapere, in grado così di circolare più liberamente e di influenzare più velocemente larghe fette della popolazione mondiale. Ciò non potrebbe essere che un bene in un’epoca come la nostra, nella quale i non addetti ai lavori avvertono l’arroccamento dell’accademia in se stessa e si rivolgono di conseguenza altrove nelle loro personali ricerche della verità. Forse che fenomeni come il complottismo o le pseudoscienze siano una sorta di riflesso negativo del ripiegarsi dell’accademia su se stessa? Bisognerebbe chiederlo agli accademici stessi. A patto che accettino di rispondere usando un linguaggio accessibile a tutti.
Giovanni Gaetani
Approfondimenti
- Massimo Baldini, Contro il filosofese, Laterza, 1991
- Jean-François Revel, A che servono i filosofi?, Pgreco, 2015
- Diego Marconi, Il mestiere di pensare, Einaudi, 2014
- Alan Sokal, Jean Bricmont, Imposture intellettuali, Garzanti, 1999
- Giovanni Gaetani, Come se Dio fosse antani. Ateismo e filosofia senza supercazzole, Nessun Dogma, 2018
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“…se da domani le università obbligassero tutti i loro professori ad attenersi a un linguaggio chiaro e verificabile, i dipartimenti di teologia sarebbero tra i primi a chiudere… ”
Qui è come sparare sulla Croce Rossa: la teologia è una pseudo scienza: già dal nome ‘teo-logìa’ ovvero studio di dio… è il caso di infierire? 😛 C’è più serietà nella Patafisica, che si definisce
‘la scienza delle soluzioni immaginarie’. Più onesti di così.
La teologia è la “scienza delle scuse”. Come diceva un teologo critico: la teologia è quella scienza che con discorsi contorti e complessi ti dimostra che il bianco è nero. Hai già l’obiettivo e devi giustificarlo ed ovviamente non potrai farlo in modo semplice, altrimenti le persone capiscono l’inganno: basta vedere come argomentava B XVI.
La sua inattendibilità è già data dal fatto che il più grande teologo per i cattolici non potrà che essere un cattolico, per i protestanti, un protestante, per un ebreo un teologo ebreo e per un musulmano ovviamente un teologo musulmano, cioè non funziona al di fuori della religione scelta in partenza. E se studiando in modo più serio arrivi a posizioni critiche vieni buttato fuori ed attaccato duramente come con Bart Ehrman.
“…se da domani le università obbligassero tutti i loro professori ad attenersi a un linguaggio chiaro e verificabile, i dipartimenti di teologia sarebbero tra i primi a chiudere… ”
Nelle Università italiane i Dipartimenti di Teologia non esistono, anche se spesso altri Dipartimenti ne fanno le veci.
Un classico di questo argomento e’ al “Beffa Sokal”,che trovate qui :
https://it.wikipedia.org/wiki/Affare_Sokal
“Non tanto false quanto insensate” diceva Rudolf Carnap di certe perle filosofiche.
Il famoso fisico Wolfgang Pauli invece,commentando qualche teoria completamente campata in aria,senza il minimo collegamento con fatti accertati o teorie gia verificate,senza nessuna prova verificabile a supporto,diceva semplicemente :
“Non e’ nemmeno sbagliata!!”
Curioso che nel centenario dell’edizione inglese del Tractatus logico-philosophicus qualcuno arrivi alle stesse conclusioni. Stiamo a vedere se, come Wittgenstein, tra qualche anno rivedrà le proprie conclusioni e proporrà dei correttivi. Con un secolo di ritardo, vabbè, ma ognuno ha i propri tempi.
….. per impressionare gli altri non c’è niente di meglio che adoperare un linguaggio volutamente oscuro che intorbidisca le acque e oscuri i concetti…..Dice giustamente l’articolo !
La filosofia classica (da non confondere con quella analitica che denuncia sistematicamente le velleità della metafisica e teologia, svelandone la « magia » dei giochi linguistici) è praticamente fatta di risposte sovente incomprensibili a problemi insolubili….
E’ già da tempo irreversibilmente morta, non avendo potuto seguire lo sviluppo della scienza moderna, specialmente la fisica. Ha questo di utile, che serve a consolarmi della sua inutilità.
PS -La scienza, dotata di una metodologia unica prettamente razionale, ha cominciato a far luce sulle falsità delle conoscenze e dei ragionamenti intuitivi riguardanti il mondo naturale, ovvero come e perché i fatti della natura e della vita, biologicamente intesa, accadono nel modo in cui accadono.
Gli avanzamenti nel campo della neuroscenza stanno chiaramente spiegando le origini e identificando le basi neurobiologiche della moralità umana, mettendo radicalmente in discussione una parte importante dell’etica classica !
Se si ha bisogno di impressionare gli altri con un linguaggio volutamente pedante, criptico, desueto e complicatamente fine a sé stesso, allora significa che la sostanza non c’è: vedi QUALSIASI discorso di Fusaro.
Gli studenti entrano in una facoltà che hanno scelto per imparare tutto di un campo accademico, compreso il gergo specialistico. I docenti certamente dovrebbero essere chiari ai fini didattici. Ma onestamente non ho mai visto nessuno intimorito, dal cominciare un corso di studio, se non la normale apprensione di inizio di un’esperienza lunga e a volte impegnativa.
I fisici,trattando problemi di per se complicati e difficili,devono fare grandi sforzi per esprimersi nel modo piu’ semplice possibile.
Pero’,ammoniva Einstein,”Non piu’ semplice di cosi !”
Dal canto suo il suo collega,amico e rivale Nils Bohr diceva “Non cercate di esprimervi in maniera piu chiara dei vostri stessi pensieri !”
“L’obiettivo supremo di ogni teoria è quello di rendere gli elementi basilari irriducibili più semplici e di minor numero possibile, ma senza dover rinunciare alla rappresentazione adeguata di ogni singolo dato esperienziale”…..
(“On the Method of Theoretical Physics,” the Herbert Spencer Lecture, Oxford, June 10, 1933)
C’è, però, una differenza notevole tra filosofi classici del tipo di Cacciari e Fusaro, incomprensibili ed inconclusivi, ed infatti si sono dati alla politica, da altri filosofi, in particolare quelli della scienza che evidentemente hanno mutuato la mentalità dei ricercatori scientifici con cui lavorano a stretto contatto. C’è un’abisso di chiarezza tra un Telmo Pievani ed un Cacciari. Anche Gualerzi che scriveva su questo sito era abbastanza chiaro, forse perchè si confrontava su problemi concreti e non sul sesso degli angeli.
Gualerzi! Qualcuno sa che fine ha fatto?
E Engy, la mia diletta? 😛
Quella può stare benissimo dov’è 🤭😜