“Il grande racconto dell’evoluzione umana”, intervista a Giorgio Manzi

Giorgio Manzi, biologo, insegna paleoantropologia, ecologia umana e storia naturale dei primati all’università La Sapienza di Roma. Il suo ultimo libro è Il grande racconto dell’evoluzione umana (Il Mulino 2013).

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Il volume ha un taglio divulgativo ed è arricchito da numerosissime fotografie e illustrazioni. Tuttavia, non rinuncia affatto all’utilizzo di dettagliatissime spiegazioni scientifiche. Con quali obiettivi ha deciso di avviare tale impresa?

Forse ciò che più mi ha motivato è stato il desiderio — ma anche la necessità, direi quasi l’urgenza storica (specie nel nostro Paese, così imbevuto di una certa cultura umanistica) — di raccontare la storia più intrigante che sia mai stato possibile raccontare: la nostra, quella di tutta l’umanità. Al tempo stesso, mi è sembrato indispensabile farlo nel modo giusto. E il modo “giusto”è quello che discende dalle conoscenze scientifiche che oggi abbiamo sulle origini di noi Homo sapiens e sul nostro posto nella natura.

Da qui una serie di premesse e di divagazioni iniziali, che ho ritenuto funzionali alla comprensione della narrazione che si basa su quanto sappiamo dai fossili, dai manufatti paleolitici e dal DNA. Più in dettaglio, ho pensato che i contenuti tecnici del racconto paleoantropologico potessero essere compresi meglio e resi più gradevoli se preceduti da un percorso narrativo di storia della biologia, utile anche come spunto per mettere in chiaro alcune conoscenze di base. Sono partito allora dal secolo dei lumi, dominato dalle imponenti figure di Linneo e Buffon, per attraversare poi l’ottocento dei Darwin, degli Haeckel, dei Mendel e di tutti gli altri grandi maestri di quell’epoca, per arrivare infine al novecento della teoria sintetica dell’evoluzione, della genetica e della biologia molecolare, di eretici ortodossi (ossimoro voluto) come Stephen Jay Gould o di scopritori e descrittori di antenati come Don Johanson (“papà” della celebre Lucy).

La casa editrice Il Mulino ha fatto il resto, offrendomi la possibilità di riempire il libro di tante belle immagini, sia quelle integrate nel testo e funzionali alla comprensione dello stesso, sia quelle contenute in alcuni splendidi inserti iconografici a tema, sia quelle immaginifiche rappresentazioni di antenati che fungono da apertura dei capitoli.

Lei ritiene che il bipedismo sia una caratteristica saliente del genere Homo. Benché sia da considerare “una sola delle facce di un poliedro”, avanza l’ipotesi che, affiancato alla locomozione arboricola, possa inizialmente averlo aiutato a spostarsi da una foresta all’altra di fronte all’avanzata della savana. All’epoca gli esemplari del genere Homo non dovevano essere molto numerosi. Va considerato un (per noi) fortunato adattamento, oppure una precoce spia della sua ingegnosità?

Senz’altro la prima ipotesi mi sembra la più corretta delle due. Va però precisato che il bipedismo (cioè un’efficiente locomozione bipede in postura eretta) non è una caratteristica del solo genere Homo, bensì un adattamento ad ambienti progressivamente più aperti — rispetto alle foreste tropicali dove ancora sopravvivono i nostri parenti più stretti (gli scimpanzé e i gorilla) — acquisito da antenati come quelli del genere Australopithecus, che erano delle vere e proprie scimmie antropomorfe bipedi. Da loro, da quei primi passi, sono venute poi tutta una serie di altre caratteristiche sempre più “umane”. È stato un po’ come innescare una miccia, o come attivare una valanga.

L’origine della nostra specie umana è da lei definita una “rivoluzione ontogenetica”. Una formulazione che ricorda un po’ il “salto ontologico” di cui parla la dottrina cattolica. Senza dubbio il pianeta è rimasto rivoluzionato dall’avvento di Homo sapiens, anche se dopo decine e decine di migliaia di anni. Le possibilità che tale “rivoluzione” avesse luogo rientrano in una dinamica evoluzionistica, oppure erano effettivamente talmente basse da rendere concepibile un intervento esterno soprannaturale?

L’intervento soprannaturale non è nemmeno da prendere in considerazione. L’uso dell’espressione “rivoluzione ontogenetica” è semmai una sorta di provocazione. Una provocazione voluta; e riuscita, mi sembra, visto che anche a voi ha fatto l’effetto di evocare (quanto meno come assonanza) “il ‘salto ontologico’ di cui parla la dottrina cattolica”. Qui però — e a me pare che dal libro questo si possa intendere con chiarezza — non siamo nel campo della teologia, ma della scienza: un campo nel quale un evento, ancorché improbabile, come la comparsa di una varietà di scimmia bipede, in possesso di un grande cervello globulare e capace di lasciare testimonianze archeologiche mai viste in precedenza, si è verificato in una determinata contingenza storica e per una di quelle combinazioni fra “caso” e “necessità” che sono alla base del fenomeno dell’evoluzione, così come lo comprese Darwin e così come è stato poi consolidato dalle ricerche di oltre un secolo e mezzo, inclusi i formidabili sviluppi della biologia contemporanea.

Lei ricorda che la comunità scientifica considera ormai i Neanderthal una specie a parte, e sostiene che “è anche possibile che siano avvenuti degli incroci, come talvolta capita fra specie sorelle, ma probabilmente non furono in grado di andare molto oltre la prima generazione di ‘ibridi'”. C’erano del resto altre specie ancora in circolazione, come i denisoviani, circostanza che rende la ricostruzione dei “rapporti” ancora più complessa. Cosa ci si può aspettare dalle indagini — sempre più approfondite — sul genoma? Possiamo ancora attenderci la scoperta di ulteriori specie?

È possibile che abbia ragione il noto paleoantropologo newyorkese Ian Tattersall. Chiosando il già citato S.J. Gould, il mio collega e amico Ian ha più volte ipotizzato che forse ancora sottostimiamo il numero delle specie estinte implicate nel percorso dell’evoluzione umana. Nuove conoscenze su specie vecchie e nuove continueranno a venire dai fossili come dalle molecole.

Il contatto con i moderni Homo sapiens fu fatale anche per le forme “pigmee” di Flores. Nel testo ci rammenta peraltro che i primi segni inequivocabili di cannibalismo risalgono addirittura a 800.000 anni fa, su esemplari di Homo antecessor. Secondo lei, l’estinzione delle numerose specie di Homo diverse dalla nostra fu semplicemente dovuta all’affermarsi di popolazioni evolutivamente più “adatte”, oppure a veri e propri feroci conflitti interspecifici?

La comparsa (200 mila anni fa circa, in Africa orientale) e la successiva diffusione geografica della nostra specie, Homo sapiens, segna evidentemente una cruciale discontinuità nel corso dell’evoluzione umana, sia per gli aspetti morfologici — con tutto ciò che questi comportano, specie in una chiave di lettura evo-devo (dove cioè si combinano evolution e development) — sia per quelli comportamentali e culturali. Doveva avere qualcosa in più dei suoi contemporanei, il nostro Homo sapiens, visto che gli capitò di assistere e in parte di contribuire all’estinzione di diverse altre specie umane ancora diffuse ai quattro angoli del mondo: gli ultimi Homo heidelbergensis africani, i Neanderthal in Eurasia, i “denisoviani” ancora più a ovest, le residue popolazioni di Homo erectus in Asia sudorientale, il piccolo popolo dell’isola di Flores nell’arcipelago della Sonda… Ritengo che il confronto tra noi e loro avvenne perlopiù sul piano ecologico, in base a un principio ben noto come “esclusione competitiva”, anche perché si estese per un periodo di tempo davvero molto lungo (nell’ordine di diverse decine di migliaia di anni) e riguardò bassissime densità di popolazione. Ciò naturalmente non esclude episodi di violenza interpersonale e/o tra gruppi, a livello intraspecifico e interspecifico, ma semplicemente non credo che questo aspetto sia stato determinante.

La dimensione del cervello ci distingue dalle altre scimmie antropomorfe. Tuttavia, la differenza quantitativa non è così eclatante da giustificare la differenza qualitativa, che peraltro non si è nemmeno manifestata immediatamente. Si può dire che il “buon uso della ragione” è qualcosa di incrementale? Se sì, possiamo essere ottimisti sul futuro della nostra specie?

La differenza mi pare sensibile anche sul piano quantitativo oltre che su quello qualitativo: abbiamo un cervello tre o quattro volte più grande di quello di uno scimpanzé o dei nostri antenati del Plio-Pleistocene, come le varie specie di Australopithecus, cioè almeno tre volte più grande di quello che, in base alla mole corporea, dovremmo avere come primati (un gruppo zoologico dove l’encefalizzazione è attesa, ma non a questi livelli). È vero, d’altra parte, che la “differenza qualitativa” non si è manifestata immediatamente, ma in modo graduale e progressivo, a tal punto che nemmeno la comparsa di Homo sapiens corrisponde a un cambiamento di tipo culturale che sia contestuale al cambiamento morfologico. È un fenomeno che ha interessato e fatto discutere paleoantropologi, genetisti e archeologi preistorici soprattutto negli ultimi vent’anni. Personalmente, ritengo che sarebbe sufficiente rendersi conto che non esiste una relazione scontata tra dimensioni del cervello, comportamenti complessi ed evoluzione culturale. Piuttosto, è per me del tutto ragionevole attendersi “fasi di latenza” dovute al fatto che le potenzialità di un grande cervello hanno bisogno di un tessuto sociale dove svilupparsi appieno e dove estrinsecarsi.

Da questo punto di vista, penso che oggi possiamo essere ottimisti sul futuro della specie se solo saremo capaci di dare una decisiva impennata alla nostra evoluzione culturale, sfruttando la straordinaria potenzialità che ci è capitata di possedere un così grande cervello e facendolo funzionare efficacemente in un contesto sociale divenuto oggi “globale”. Solo così potremo gestire lo straordinario potere che abbiamo su noi stessi, sulla nostra sopravvivenza e sul destino del pianeta che ci ospita.

Il testo parte da molto lontano: la parte iniziale racconta la nascita (e persino la gestazione) della teoria evoluzionista. Prima di Darwin, “c’era la Natura e c’era Dio, la mano che aveva creato tutto”. Ma ancora oggi una parte significativa della popolazione, anche nel mondo occidentale, “crede” nel creazionismo. Come vede la situazione, anche in prospettiva?

Non la vedo; mi limito a fare meglio che posso il mio lavoro e, nel farlo, penso che sia venuto anche il tempo di raccontare, raccontare, raccontare.