Make India Hindu Again

Nel 2014 i nazionalisti induisti hanno preso il potere in India con Narendra Modi. L’impatto, in un paese già colpito da profonde spaccature sociali, è pesantissimo. Sono in crisi il principio di laicità e il modello di convivenza tra culture diverse, assediati dal revanchismo confessionalista indù. Valentino Salvatore ripercorre la storia di questi conflitti religiosi sul numero 5/22 di Nessun Dogma.

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Un paese esotico, povero ma festoso, caotico e colorato florilegio di culture, culla di spiritualità non contaminata. Questa è l’immagine che tanti occidentali, sedotti da un benevolo orientalismo hippy, hanno ancora dell’India. Ma c’è anche altro: una nazione tecnologica che aspira al ruolo di superpotenza, con un’economia rampante (e inquinante) e il nucleare, solcata da profonde spaccature sociali. E che vive, in questi decenni, una sterzata identitaria.

Con la sua storia plurimillenaria, l’India è ricca di religioni e filosofie. Sono antiche pure scuole di pensiero atee, come la cārvāka. Ma oggi sull’immaginario collettivo pesano le dominazioni straniere. Le incursioni musulmane portano ai sultanati (come quello di Delhi nel XIII secolo). Poi l’impero islamico moghul, instaurato dal conquistatore turco-mongolo Babur, tra il XVI e il XVIII secolo occupa gran parte del subcontinente. Un dominio a fasi alterne, con sovrani che si accaniscono contro templi e fedeli indù (anche sikh) e altri che regnano all’insegna della tolleranza.

L’odiato imperatore Aurangzēb, bellicoso e fanatico, porta la sharia a livelli talebani e perseguita induisti. In quest’epoca sorgono anche fastosi monumenti come il Taj Mahal. Tra lotte intestine e reconquista degli induisti marāthā si insinua la corona britannica, che nell’ottocento impone il dominio coloniale. Gli inglesi giocano sulle divisioni religiose per consolidare l’impero, non senza intoppi. Ad esempio nel 1857 le truppe indigene (sepoy) si ammutinano per le cartucce lubrificate con grasso di maiale o bue, cosa che offende musulmani e indù.

Il movimento animato da figure come Gandhi porta alla liberazione nel 1947. Gli indipendentisti sono però divisi tra non violenti e fautori della rivolta armata, ma anche tra induisti e musulmani. La concordia anti-inglese si sfalda con la partition tra un Pakistan musulmano (unito al Bangladesh) a trazione islamista e un’India a maggioranza indù ma a costituzione laica. Milioni di induisti e musulmani migrano nei paesi di “elezione”, tra violenze e massacri. Gandhi viene ucciso da Nathuram Godse, estremista che lo accusa di aver ceduto alle minoranze. Tra India e Pakistan scoppiano guerre: subito per il Kashmir, a maggioranza islamica ma governato da un maharaja indù; ma anche quando il Bangladesh nel 1971 lotta per l’indipendenza dal Pakistan.

Nei primi decenni della “più grande democrazia del mondo” è egemone il partito del congresso nazionale indiano, erede della linea gandhiana: il primo ministro Jawaharlal Nehru, agnostico e umanista, dà uno slancio moderno. Ma dal vaso di pandora dell’indipendentismo escono pure i movimenti del revanscismo nazional-induista. Il più rilevante è la Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), alla lettera “organizzazione nazionale di volontari”: fondata nel 1925 da Keshav Baliram Hedgewar, si caratterizza per militarismo, simpatie fasciste, esaltazione patriottica e confessionale.

I raduni sono un misto tra esercitazioni paramilitari e cerimonie religiose. Emblema è la bandiera color zafferano stendardo di Shiva e dell’impero marāthā. Il sogno è l’Hindu Rashtra, la nazione (culturalmente pura) indù. Nel nome dell’hindutva, traducibile come “induità”, ideologia identitaria nazionalista enunciata da Vinayak Damodar Savarkar. Sebbene ateo, concepisce un radicale confessionalismo etnico. L’assassino di Gandhi è un militante dell’Hindu Mahasabha, partito nazionalista di Savarkar, e prima era un affiliato Rss.

Nonostante le messe al bando, l’idra hindutva cresce. Oggi la Rss è la più grande associazione di volontariato dell’India con 6 milioni di soci. In teoria non fa politica, ma alimenta il brodo di coltura dell’estrema destra da cui emerge il Bharatiya Janata Party (Bjp), “partito popolare indiano” oggi al potere. Molti militanti e politici vengono da questi ambienti: pure Narendra Modi, attuale premier, da giovane è affiliato Rss e poi aderisce al Bjp.

Il partito del congresso declina tra i compromessi delle fazioni anche religiose e l’egemonia della dinastia Gandhi. Nessun legame col mahatma: il capostipite Feroze Ghandy cambia grafia al cognome in suo onore e sposa Indira, figlia di Nehru. Pure lei diventa primo ministro, assume poteri emergenziali, reprime proteste sikh fino al feroce sgombero del tempio d’oro ad Amritsar nel 1984. Viene uccisa dalle guardie del corpo sikh per vendetta. Rosicchia posizioni proprio il Bjp, ma non abbastanza: con Atal Bihari Vajpayee guida alcune coalizioni tra fine anni novanta e primi duemila.

La tinta laica del Partito del congresso sbiadisce. Famoso è il caso di Shah Bano, musulmana ripudiata dal marito con il “triplo talaq” (pronunciando tre volte la parola “divorzio”). La donna perde così il mantenimento, ma la spunta in corte suprema nel 1985. Il governo di Rajiv Gandhi (figlio di Indira) smorza però la portata della sentenza per non scontentare i musulmani intransigenti. L’incostituzionalità del triplo talaq è confermata nel 2017: Modi passa da difensore delle donne contro l’integralismo.

Lascito amaro delle secolari divisioni confessionali è la disputa dei luoghi sacri: gli integralisti indù sono alla carica da decenni per riavere spazi che ritengono usurpati dai musulmani. Ora hanno una sponda nel governo. I rapporti si avvelenano per casi come quello della moschea Babri nella città di Ayodhya, costruita dal moghul Babur sul luogo di “nascita” del dio Rama. Una folla di estremisti indù nel 1992 la distrugge, scoppiano scontri con migliaia di morti. Nel 2019 la spuntano gli induisti: possono ricostruire il tempio, inaugurato da Modi.

La scalata di Narendra Modi è segnata nel 2001 dall’incarico di primo ministro dello stato del Gujarat, che guida per 13 anni. Ottiene consensi per la spiritualità austera, il decisionismo, i risultati economici, il sostegno all’induismo militante. Nel 2002 l’attentato a Godhra contro un treno di pellegrini indù di ritorno da Ayodhya causa una cinquantina di morti. Si sospetta una vendetta islamista per la dissacrazione della moschea Babri.

La rabbia induista esplode, nei disordini muoiono almeno mille persone, soprattutto musulmani. Sospetti di complicità lambiscono la polizia e anche Modi, che ne esce pulito. Nel 2007 per la strage sul Samjhauta Express che porta fedeli musulmani è sospettato Swami Aseemanand, santone già affiliato Rss e coinvolto negli attacchi ai cristiani del Gujarat nel 1998. Prima reo confesso, è scagionato nel 2019.

Nel 2014 Narendra Modi è eletto primo ministro dell’India: è il salto di qualità del Bjp, che conquista da solo la maggioranza dei seggi. Ha le mani libere per promuovere l’identitarismo indù a scapito della laicità, in un paese di circa 1,4 miliardi di persone dove l’80% si professa induista, il 13% musulmano e a ruota ci sono tanti altri culti (tra cui 3% cristiani e 2% sikh). La saffronization (“zafferanizzazione”, dal colore dei movimenti hindutva) investe ogni settore. Con la “scienza” vedica – piegata alla teologia induista – viene sdoganata la pseudoscienza, persino in campo medico. L’indottrinamento a scuola riscrive la storia in salsa hindutva.

Si millanta che l’antica cultura indiana abbia anticipato scoperte, tecnologie e invenzioni moderne. Tanti sono convinti, ad esempio, che i vimana citati nei Veda siano oggetti volanti di migliaia di anni fa. La studiosa Meera Nanda ribattezza l’andazzo «modernismo reazionario»: i nazionalisti indù si appropriano di scienza e tecnologia ma rigettano gli ideali di modernità che sono alla base. Ne risente pure la libertà di stampa: l’India crolla al 150esimo posto della classifica di Reporter senza frontiere.

Diversi media propalano propaganda e fake news contro le minoranze. Tra le teorie del complotto con protagonisti musulmani spicca il “love jihad”: si plagerebbero ragazze di altre confessioni per convertirle, sposarle, fare figli. Questa e altre narrazioni presentano l’islam come una minaccia all’integrità nazionale ed etnica. I musulmani (e in misura minore cristiani e sikh) sono demonizzati, sono oggetto di discriminazioni e violenze. Diversi stati vietano commercio e macellazione di bovini, sacri agli induisti, e decine di persone sono linciate da autoproclamati vigilantes che sorvegliano le vacche.

Le leggi contro le conversioni “forzate” di fatto scoraggiano l’apostasia dall’induismo. Infatti molti appartenenti a caste inferiori, come i dalit (“intoccabili”), o a tribù aborigene adivasi si convertono a cristianesimo o islam. Strette dal sapore anti-islamico anche sull’immigrazione: una norma del 2019 ammette domande di cittadinanza da chi è arrivato da paesi vicini, citando cristiani, buddhisti, indù, parsi, sikh e giainisti ma non i musulmani. Gli “illegali” nel solo stato dell’Assam, confinante col Bangladesh, sono quasi 2 milioni: in gran parte musulmani, rischiano arresti ed espulsioni per cavilli burocratici e difficoltà nel trovare documenti. Viene abolito lo statuto speciale del Kashmir, gesto che indispettisce pure il Pakistan.

Modi trionfa alle elezioni del 2019. Batte Rahul Gandhi, ultimo rampollo della dinastia del congresso figlio di Rajiv e Sonia, l’italiana che oggi guida il partito. L’emergenza covid – complici i coccolati raduni di pellegrini indù – non intacca il consenso per il Bjp: tiene in diversi stati alle consultazioni del 2022. Compreso l’Uttar Pradesh, con 204 milioni di abitanti, governato dal guru estremista Yogi Adityanath.

Croniche le tensioni confessionali, anche recentissime. In un’accesa arena televisiva con musulmani la giovane e ormai ex portavoce del Bjp Nupur Sharma cita la tenera età di Aisha, sposa di Maometto. L’uscita scatena proteste dei musulmani locali e reazioni diplomatiche di parecchi paesi islamici. Persino il partito la scarica per le incaute dichiarazioni.

Sharma dice di aver reagito alle offese dei musulmani verso le divinità, durante un dibattito su un presunto shivalinga (simbolo fallico del dio Shiva) dentro la moschea Gyanvapi a Varanasi. Luogo di culto islamico che sorge sulle rovine di un tempio induista distrutto nel 1669 dal famigerato imperatore moghul Aurangzēb. Per gli induisti c’è l’artefatto sacro, per i musulmani è solo una fontana per abluzioni. Un caso non ancora chiuso, non l’unico, di terreno sacro contestato.

Da buoni italiani chiudiamo con una metafora culinaria. A differenza del melting pot, dove tutti gli ingredienti si mischiano, il modello multiculturale indiano è spesso descritto come un thali, tipico piatto completo suddiviso in ciotoline che permette di gustare sapori diversi. Oggi però a New Delhi sembra esserci uno chef che guasta tutto con una montagna di zafferano: soluzione indigesta per laicità, diritti e progresso sociale.

Valentino Salvatore

Approfondimenti

  • Amartya Sen, L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana, Mondadori, 2006
  • Meera Nanda, The God Market. How Globalization Is Making India More Hindu, Monthly Review Press, 2011
  • Martha Nussbaum, Lo scontro dentro le civiltà. Democrazia, radicalismo religioso e futuro dell’India, Il Mulino, 2009

 

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Un commento

laverdure

Basti pensare che il Taj Mahal,il piu’ famoso monumento dell’India,meta ogni anno di visitatori da tutto il mondo,pare sia preda di un degrado crescente per mancanza di manutenzione,frutto dell’avversione delle autorita Indu’ per quello che vedono come un legato del periodo musulmano.

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