Quando si affronta il tema dell’esistenza di Dio fra i due opposti e netti schieramenti di atei e teisti viene spesso a forza e quasi sempre da altri collocata e subito dimenticata in un ambiguo spazio mediano la posizione dell’agnostico. Tacciato da altrettanto spesso ambo le parti di ignavia, di incapacità o di mancante coraggio, parrebbe essere filosoficamente e antropologicamente quasi il riflesso della propria posizione di indifferenza.
Non manca però una certa iconografia classica che vede l’agnostico anche in perpetua e pencolante sofferenza, troppo pavido per imboccare una via piuttosto che un’altra ma, si dice di lui, schizofrenicamente tormentato dalla necessità di prender partito.
Non ultima, la riflessione dal titolo eloquente “L’agnosticismo scomodo e la sua speranza” su l’Osservatore romano del filosofo digitale Luciano Floridi, autodefinitosi agnostico di ritorno. In sostanza un non più credente ma ancora aspirante tale, al contempo assolutamente certo e ben al di là del suo singolo caso che la necessità di sperare che dio esista e comportarsi di conseguenza rappresenti una virtù della ragione, una virtù epistemica. Addirittura.
A dir la verità la stessa premessa del ragionamento di Floridi, quello che cioè la domanda sull’esistenza di Dio sia la più importante “perché la risposta è la prima tessera del domino rappresentato dalla nostra vita” è facilmente respingibile. Al di là del dibattito anche seriamente scientifico sulla propensione dell’essere umano alla credenza in entità sovrannaturali, sappiamo per fortuna come la religiosità per di più trascendente sia solo una delle molteplici forme di espressione della coscienza, caleidoscopica e variegata ben al di là della dicotomia “dio sì o no” nella quale la vorrebbe restringere e racchiudere il filosofo dell’infosfera.
Per Bergoglio e, per onestà, anche per alcuni atei, esiste l’agnostico comodo, l’ignavo superficiale e pigro dell’inferno dantesco; per Floridi e per molti altri dell’iconografia classica di cui sopra, l’agnostico però è molto più spesso scomodo nella sua posizione, “quello che cerca risposte e soffre per la loro assenza”.
E se l’agnostico fosse semplicemente colui il quale ha, razionalmente, serenamente, ponderatamente riflettuto sulla questione e deciso con altrettanta serenità per la sua completa irrilevanza all’interno e all’esterno persino del proprio mondo, scientifico, valoriale o pragmaticamnete sensoriale che sia? Non è forse questa una scelta, chiara e netta, ben lontana da quella zona di grigio confuso, incerto e cupo nel quale si vorrebbe relegare la cosmogonia agnostica?
Per altri versi, la stessa Margherita Hack scriveva che “una persona completamente razionale dovrebbe essere agnostica, vista l’impossibilità di stabilire scientificamente l’esistenza o la non esistenza di Dio”.
E, non al contrario, ma nell’insieme dei tanti agnosticismi quanti sono gli agnostici, non potrebbe invece che dolente e scomodo aver dimostrato nei fatti essere un atteggiamento mentale propositivo, di relativismo critico, sempre aperto all’implorazione, vivacemente curioso? Non a caso più di un secolo prima della Hack Thomas Huxley, il filosofo e biologo altresì noto come il mastino di Darwin, definiva proprio l’agnosticismo la base di ogni scienza antica o moderna che sia.
Un agnosticismo contrario ai dogmi, nemico delle teologie ma né scettico radicale né multiculturalista: proprio perché anche i valori sono relativi e non assoluti, non sono tutti uguali al raffronto con l’unico parametro garantista di tutti e ciascuno, cioè i diritti umani fondamentali. E non è quindi forse solo l’atteggiamento agnostico, antiautoritario e antidogmatico, quello più idoneo a selezionare valori e criteri maggiormente conformi tanto alla libertà individuale quanto alla convivenza civile nel suo insieme?
In tal senso Marco Martelli parlava qualche anno fa dell’agnosticismo come unica via alla felicità, altro che dolenti sofferenze dell’assetato nel deserto che dipinge Floridi.
L’agnostico, tirato per la giacchetta da chi vorrebbe che la probabilità della non esistenza di dio si trasformasse in certezza irrazionale da un lato, da chi è convinto sia nella migliore delle ipotesi solo un credente a sua insaputa dall’altro, forse non garantirà la felicità. A se stesso o ad altri. D’altronde se non ne dubitasse non si sarebbe agnostici. Ma che sia un infelice cronico, un mancante di qualcosa, un imbelle o un credente in incognito resta solo e soltanto una vana speranza altrui.
Adele Orioli
Ma ci vuole così tanto a dire “non credo” e a comportarsi di conseguenza come persone adulte che non necessitano di un padre celeste e dei suoi interpreti in terra? Perchè macerarsi come questo povero Floridi (che forse lo deve fare visto che è un filosofo) che scrive di agnosticismo e ateismo sull’Osservatore Romano? Comprendo sia difficile per un prete e una suora rendersi conto di essere agnostici, visto che dovrebbero cambiare mestiere o vivere nella menzogna, come la suora di Calcutta, ma non capisco perchè un laico dovrebbe farsi tanti problemi.
Floridi, ripeta con me: non c’è. Si sentirà subito molto meglio.
…E mo’ basta con ‘sta st… della ‘propensione dell’essere umano alla credenza in entità sovrannaturali’!
In un mondo dove da millenni si condizionano sistematicamente generazioni su generazioni è possibile parlare ancora di ‘propensione’? La propensione alla religione è naturale quanto la propensione di un ragazzino di otto anni verso la play-station. La desidera perché esiste. Probabilmente la mancanza di una play-station provoca nel ragazzino gli stessi attacchi di gastrite che sono immaginati dai teotalebani per tormentare chi non crede. La differenza è che la play-station esiste, dio no. Il dio dei teotalebani è il babau inventato per dominare l’uomo, ma finisce per dominare solo i credenti, ai quali dà molto fastidio che ci sia gente libera dalle loro paure.
Poi ci sono quelli che soffrono di una specie di sindrome di Stoccolma all’incontrario: gli piace sentirsi amati dal loro ‘nemico’ e così frequentano i loro salotti discutendo amabilmente, facendo capire che presto cadranno come pere mature ai loro piedi. Tipo Scalfari e altri. Ci metterei anche Sgarbi.
La vera felicità è finalmente non pensare più a un dio.
Secondo la Hack “L’uomo veramente razionale è agnostico, stante l’impossibilità di stabilire l’esistenza o l’inesistenza di dio”. Non concordo affatto: fino a prova contraria, se qualcosa non è dimostrabile non esiste, punto. Altrimenti siamo agnostici anche nei confronti di Manitù, Belzebù, Macramè, Colabrodi, Teiere, Unicorni e così via.
Appunto. Se in seimila anni di civiltà umana non si è trovato uno straccio di prova dell’esistenza di un qualsiasi dio, ebbene, cos’altro si cerca?
L’agnosticismo in particolare mi ha sempre lasciato perplesso: se non neghi l’esistenza degli dei ammetti indirettamente l’esistenza dei fantasmi? dei miracoli?
“[…] fino a prova contraria, se qualcosa non è dimostrabile non esiste, punto.” Che sciocchezza… molto simile a: “la verità assoluta non esiste, punto.” Ma si può?
Ammiro la Hack, ma non mi innamoro di nessuno. Se non condivido una affermazione, fosse pure di Einstein, mantengo la mia autonomia di giudizio.
Quindi tu ritieni che ciò che non si può dimostrare invece esista? Complimenti.
Il problema è che non possiamo sapere se una cosa è veramente indimostrabile oppure sia semplicemente troppo presto per raggiungere la certezza. La materia oscura non era nemmeno ipotizzabile nel passato. Il problema dell’esistenza degli dei è diverso perché qualcuno ne ha dato descrizioni e definizioni ‘prima’ che se ne potesse lontanamente supporre razionalmente l’esistenza, il che è indice di sicura fanfaronata. Infatti razionalmente li rifiutiamo, solo con la fede si possono accettare; e con questo si chiude il discorso.
Quante cose ci sono ‘là fuori’ che non conosciamo e di alcune sarà impossibile averne conoscenza? E non per questo saranno ‘dio’. Quindi non concordo con l’essere agnostici nel dubbio, ci sento lo stesso odore stantio della ‘scommessa di Pascal’. Quando succederà, se succederà, ne prenderò atto.
“la verità assoluta non esiste, punto.” Ma si può?
Infatti !
Anziché “verità” (evitando assoluta) direi REALTA’ che ovviamente esiste anche se in continuo cambiamento. La scienza crea solamente modelli della realtà, dal momento che quest’ultima è irriducibile alla sua rappresentazione.
Le “leggi della natura” non esistono in quanto tali: quelle che nominiamo sono solo codici di accesso alla realtà, ma non la strutturano realmente.
Quindi, fino prova contraria, il miglior modello scientifico non potrà mai dare una descrizione esaustiva della realtà.
NB : Ad ogni momento l’informazione non è contenuta nei segnali provenienti dal mondo, ma nelle corrispondenti risposte elaborate, o interpretate dal nostro cervello, che tutto sommato ha di tutta evidenza i suoi limiti ! La persona più erudita o geniale del mondo sa di sapere quasi niente su quasi tutto…..
I ragionamenti che, nell’ambito in particolare della filosofia Occidentale, si fanno su “Dio” risentono dell’ambiguità di tale parola. Essa infatti è un nome comune che serve per indicare un Ente “soprannaturale” o “perfetto” , ma è anche usata come nome “proprio” indicante il dio dei cristiani, ebrei e islamici. Ai teologi piace giocare su tale ambiguità: “Non puoi dimostrare l’inesistenza di Dio (inteso come concetto filosofico)? Ergo, non puoi dimostrare l’inesistenza di Dio (inteso come l’Essere soprannaturale dotato di particolari caratteristiche cui credono gli appartenenti ad una particolare religione). Un critico di tale ambiguità, molto sfruttata ai suoi tempi dai Gesuiti, si chiamava Pascal, che distingueva fra il “Dio dei filosofi” e il “Dio di [Innominabile], di Isacco e di Giacobbe”: egli preferiva la fede sul secondo, e diceva che all’uomo pio non deve importare nulla del primo. In altre parole: si può credere all’esistenza del secondo per fede, l’esistenza del primo non si può dimostrare.
Dello stesso avviso, con una argomentazione più completa è stato Kant, che ha definito come deismo la credenza nell’esistenza del dio filosofico, e come teismo, o, meglio, una forma di teismo, la credenza nell’esistenza del dio di [Innominabile], di Isacco e di Giacobbe.
Sull’esistenza del primo si può essere agnostici, anzi dal punto di vista razionale lo si deve, visto che non se ne può dimostrare l’esistenza in modo razionale.
Sull’esistenza degli dei del teismo, o si è teisti o si è atei: si può credere all’esistenza di Zeus o si può non credere alla sua esistenza. Mi sembra poco razionale essere agnostici sulla sua esistenza: abbiamo mai incontrato qualcuno, recentemente, che abbia detto “sono incerto sull’esistenza o meno di Zeus”? Perché adesso è così facile non credere all’esistenza di Zeus?
Si tratta di un tema che affascina alcuni studiosi della religione da un punto di vista cognitivo (Pascal Boyer, Whitehouse, & Co.) .
Io taglio un po’corto, e ritengo che le ragioni principali sono due: 1) l’esistenza di Zeus non è stata proclamata da testi ritenuti sacri o ispirati . 2) Zeus stava sull’Olimpo: adesso possiamo sorvolare l’Olimpo e costatare che non ci sono Zeus e compagnia.
L’esistenza del “Dio di [Innominabile], di Isacco e di Giacobbe” è invece basata sulla fede nell’esistenza di un testo sacro, divinamente ispirato. Basta dimostrare che tale testo contiene manipolazioni, errori, e che insomma non è perfetto come sostengono coloro che su di esso basano la loro fede, per dimostrare che il “Dio di [Innominabile], di Isacco e di Giacobbe” ha le stesse probabilità di esistenza dello Zeus di prima.
Forse sarebbe bene, chiarezza, chiamare “Dio” il dio dei filosofi e con il suo nome proprio, YHWH, il “Dio di [Innominabile], di Isacco e di Giacobbe”. Anzi, senza forse.
Ma il dio dei filosofi è un guscio vuoto: se gli si danno delle caratteristiche di ‘qualità’ – nel senso filosofico del termine – diventa immediatamente il dio della genesi. Il dio dei filosofi, senza qualità e attributi è un dio patafisico, condannato a una immaginaria inesistenza. Che poi è la condizione normale per un dio.
Infatti si può rilevare che esiste una sorta di continuità fra deismo e teismo: quanto meno si definiscono le caratteristiche dell’Ente in questione ci si sposta verso il deismo, quanto più le si definiscono si procede nel teismo.
Credo che un esempio di deismo ante litteram su cui è difficile essere agnostici è quello di Spinoza: Deus sive Natura. Se “Dio” si identifica con l’Universo, allora non si può dire che non esista; d’altro canto, se non si può conoscere la Natura nella sua essenza, non si può nemmeno conoscere “Dio”.
Altro discorso è quello su YHWH: basta leggere criticamente la Bibbia per accorgersi che è una proiezione dell’idea di capo-branco che l’Homo sapiens ha nelle zone più profonde del suo cranio. Ma per leggere criticamente la Bibbia ci vuole un po’ di studio e un po’ di discussione e l’UAAR, per ammissione del suo CC, non è pronta a farlo.
Interessante disamina. Personalmente tendo a snobbare i cervellotici panegirici dei filosofi di qualche secolo fa. Ho letto Kant e lo trovo inutilmente complicato. Pascal? Un furbetto imbroglione (conviene scommettere? Ma va’…). Tutti pronti a ipocriti giri di parole per non dire (o non poter dire) chiaramente una scomoda verità.
Grazie , Maurizio.
Una nota su Kant e su Pascal: ambedue soffrivano del disturbo ossessivo-coatto, verosimilmente per carenza di serotonina, condizione che si riscontra anche nei ludopatici compulsivi ( e Pascal infatti scommetteva). Aggiungiamo anche qualche attacco di panico:
è lecito aspettarsi la catena di reazioni che nell’encefalo porta a galla l’idea del capo-branco assoluto (vedasi pagg 100 e segg. di Theism as a Product of the Human Brain, scaricabile da.
unipa.academia.edu/MErnandes
e si completa la fede in un dio “cazzuto”, quale quello di Pascal e, prima di lui, per fare un altro esempio, Lutero (anche lui reduce da un bell’attacco di panico). E sia Lutero che Pascal odiavano gli Ebrei, di cui adoravano il dio YHWH
Refusa corrige:
al sesto rigo, dopo la parentesi, chiudere virgolette.
Al decimo rigo, dopo “completa” ci vuole una virgola.
Al penultimo rigo, prima di “chiarezza”, si deve mettere “per”.
Come ho già scritto, postulare (o rifiutare) l’esistenza di Dio è (solo) il prodotto dell’attività di un organo, il cervello umano.. Quest’organo è per gran parte deputato a elaborare stimoli fisici concreti, ma in parte, con l’astrazione, la fantasia, crea scenari immaginari: l’infinito per lo spazio, l’eterno per il tempo, il nulla, l’Essere, l’anima e coì via. Se queste fantasie possono dare sollievo ad alcune menti, perché impedirlo? Ci riesce perfino un bicchiere di vino! Pensare che abbiano un valore diverso è invece un circolo vizioso, perché chi misura questo valore è lo stesso cervello che le ha create. Come se la miss che partecipa al concorso di bellezza fosse anche il giudice che premia. Con un’osservazione: quest’organo è l’evoluzione, nel corso di tanti anni, di un organo simile dei nostri antenati scimmieschi, che a loro volta lo hanno rimodellato da uno simile, ereditato dai loro antenati. Se abbiamo presente questi due limiti, cioè l’origine esclusivamente mentale di certi postulati e l’origine biologica della mente che li postula, ciascuno si dia pace come meglio riesce. Che poi un lavaggio del cervello precoce o interessi concreti siano determinanti in certi convincimenti è un fatto innegabile
Ricordo una serie comedy di qualche tempo fa: in un episodio tutti i personaggi dichiaravano la propria fede – non fede. Il protagonista, certo non un bel personaggio con cui tutti noi vorremmo identificarci, si definiva agnostico e gli altri lo insultavano definendolo un ateo pigro. Per fortuna non è proprio così…Sono agnostica ma a differenza di Floridi propendo più verso l’ateismo che il teismo. Sono stata la classica bambina che ha cominciato a provare un profondo tedio nei confronti della fede proprio perché esposta ad un contesto in cui la religione è sempre stata l’unica via: battesimo, catechismo, madre tendente al bigotto. Un contesto fastidioso ma non soffocante al punto da non lasciarmi scelta. In effetti nel mio caso devo ammettere di avere un carattere piuttosto indeciso, ma il mio disinteresse e la mia “ignavia” non si estendono a molte altre aree oltre a quella religiosa. Semplicemente, non credo che la religione possa fornire le risposte su quello che banalmente chiameremmo “senso della vita”, né credo che l’agnosticismo porti necessariamente ad un relativismo assoluto secondo il quale chiunque può credere a qualsiasi cosa; per quanto mi riguarda mi ritrovo nela necessità di credere nell'”unico principio garantista, ovvero i diritti umani”. Se essere agnostici corrispondesse ad una fase dell’esistenza che in futuro tenderebbe naturalmente verso un’altra condizione non è detto che non possa essere così anche per fede o ateismo convinto.
Quello che c’è di sublime nello spirituale è incarnato nel sublime biologico che da tempo incominciamo a capire tramite i processi sottostanti in termini, NON metafisici, (o teologici) ma biologici !
A mio parere, la definizione migliore della religione l’ha data Freud: un’illusione, una nevrosi collettiva. Nelle scuole non si insegnano a sufficienza le scienze, ma ancor meno la storia e la psicologia, troppo pericolose per essere approfondite: fanno riflettere su chi siamo.