L’aspetto più strano dell’alterco con le forze dell’ordine in cui è stato di recente coinvolto Mel Gibson non riguarda le ingiurie contro gli ebrei. La nozione che «gli ebrei di merda» sono «responsabili di tutte le guerre del pianeta» (e di tutto il resto si direbbe) non è né nuova né insolita. È stato un cliché antisemita per secoli. Più preoccupante è quel particolare miscuglio di sentimentalismo religioso e di arroganza hollywoodiana che è affiorato dopo che Gibson ha smaltito la sbornia in galera. L’attore ha dichiarato che desiderava «incontrare i capi della comunità ebraica, con i quali instaurare un dialogo diretto, per scegliere la via migliore verso la guarigione». Come se nessun altro, al di fuori dei «capi religiosi», potesse fare al caso suo; come se questi presunti «capi» fossero preti, o psichiatri, o guru appositamente addetti alle cure dello spirito. Come se l’antisemitismo fosse un morbo inflitto a Gibson dal mondo esterno. […] Uno dei grandi poteri di cui si sono impadronite le organizzazioni delle varie comunità, come pure i governi nazionali autoritari, è il potere sull’uso del linguaggio. Esse stabiliscono i termini in cui le loro comunità possono essere discusse dagli altri. L’intimidazione è più efficace quando i timori aleggiano in superficie e le minacce restano sottintese. Un esempio è l’attuale timore di dire qualunque cosa che possa apparire antisemita, specie negli Usa, dove gli ebrei si sentono più al sicuro che in ogni altro Paese in qualsiasi momento della loro storia. Di nuovo, è una cosa buona stare in guardia contro l’antisemitismo. Ma questo allarme è squillato così spesso e con reazioni talmente spropositate da provocare un’ansia esagerata che soffoca ogni dibattito serio, e non soltanto per quel che riguarda la posizione attuale di Israele. […] Nel clima attuale uno scrittore di origine ebraica, o islamica, o sikh può essere accusato facilmente di aver offeso la sua «comunità» dal di fuori. L’esempio più famoso è Salman Rushdie, ma ce ne sono tanti altri. A Birmingham, in Inghilterra, la rappresentazione di un’opera teatrale intitolata Behzti («Disonore»), di un autore britannico di origine sikh, Gurpreet Kaur Bhutt, su delitti e abusi sessuali nella sua comunità, è stata sospesa quando i sikh hanno inscenato violente proteste davanti al teatro. Ben pochi, o forse nessuno, di loro aveva letto l’opera, ma i leader della comunità, invitati ad assistere alle prove, si erano sentiti offesi dalla «rappresentazione negativa» dei sikh. La polizia si è rifiutata di garantire la sicurezza e l’opera è sparita dal cartellone. […] Malgrado tutto il bene realizzato in passato dalle organizzazioni delle varie comunità, la visibilità sempre maggiore dei cosiddetti «capi della comunità» e di altre figure che si appropriano del diritto di definire come gli altri devono parlare delle loro comunità, sta minacciando seriamente il diritto alla libertà di espressione. Rushdie ha fatto una distinzione importante tra l’attacco alle persone e la critica rivolta al loro modo di pensare. Se è indispensabile trattare con rispetto il singolo individuo, sia esso musulmano, cristiano, ebreo, sikh o altro, credenze od opinioni non devono essere esonerate dalla critica, né dalla satira. Il problema è che molti credenti sono incapaci di tali distinzioni. Theo van Gogh, il regista olandese, è stato assassinato due anni fa da un fondamentalista islamico per aver «insultato il Profeta». Van Gogh, benché spesso offensivo, o addirittura scandaloso, non ha mai preso di mira l’individuo di fede islamica, ma solo la fede religiosa. Per il suo assassino però non c’era nessuna differenza. E i nostri leader si rivelano sempre più insicuri e timorosi e finiscono per cedere a queste pressioni. […] La maggior parte delle persone, superato il disagio iniziale, vogliono essere identificate come cittadini del Paese di accoglienza, piuttosto che come membri di una comunità etnica o religiosa, anche se questo non esclude la possibilità di appartenere a entrambi. L’ideale del multiculturalismo nasconde un aspetto reazionario. Si presume che le minoranze siano più contente di farsi rappresentare da leader etnici o religiosi piuttosto che da esponenti nazionali. Questo concede troppo potere ai capi delle comunità, il cui status dipende dalla loro abilità nel controllare il modo in cui parliamo delle persone da loro rappresentate, e questo impedisce proprio ai loro protetti di pensare a se stessi come singoli cittadini. Anzi, impedisce qualunque dibattito razionale. E il dibattito è un aspetto vitale dell’educazione politica. Nelle società democratiche è stato necessario educare la maggioranza al rispetto delle minoranze. Ma oggi gli immigrati e i loro figli devono imparare che l’offesa è il prezzo che dobbiamo tutti pagare per la libertà di pensiero e di espressione. Poiché molti immigrati vengono da Paesi dove tale libertà non esiste, dovrebbero essere i primi ad apprezzarne i benefici.
Il testo integrale dell’articolo di Ian Buruma è stato pubblicato sul sito del Corriere della Sera
E’ molto interessante che in questo articolo non vengano mai citati i cattolici e i loro pregiudizi che , nell’occidente dove noi insieme a buruma viviamo, sono molto forti.
Comunque credo che l’identità non è un valore immutabile. L’identità dovrebbe essere sempre in movimento, una entità plurale e creativa che deve potersi aprire all’identità degli altri. Però mi sembra che oggi prevalga, nel conformismo di sinistra che purtroppo domina a spese del pensiero liberale, una tradizione semplicistica ed infantile dell’identità, costituita sull’idea di una tradizione immutabile.