Il grande vecchio della letteratura araba se n’è andato, portandosi dietro quasi un secolo di storia egiziana. Lo conoscevo da una quindicina di anni e cercavo di incontrarlo quando mi trovavo al Cairo. Andavo a salutarlo al Farah Boat (La nave della felicità), uno dei tanti battelli-caffè che si trovano lungo il Nilo. E ogni volta ero sorpresa di trovarmi davanti un vecchietto sempre più esile, e sempre vigile e divertente. Sì, perché Mahfuz, come tanti egiziani aveva uno spiccato senso dell’umorismo e si divertiva a sentire e a raccontare egli stesso le famose barzellette egiziane. Anche l’ultima volta che l’ho visto, a febbraio, se ne stava seduto sempre più piccolo in un immenso cappottone grigio, e all’inizio mi sembrò assente, ma dopo qualche minuto lo vidi come al solito partecipare con sagaci battute alla conversazione degli ospiti, anzi dei fedelissimi amici che una o due volte la settimana si occupavano di lui; andavano a prenderlo a casa, dove viveva con l’anziana moglie, e lo portavano al caffè dove ogni tanto erano ammessi anche ospiti stranieri. Gli stessi amici di sempre, che lo trattavano con devozione più che filiale: lo scrittore Gamal Gitani e il poeta Abnudi erano tra i suoi fedeli amici. Non si scherzava soltanto, ma si parlava della situazione internazionale che Mahfuz sembrava conoscere bene. Ricordo la sua battuta sugli occidentali che esportano con le armi la democrazia nel resto del mondo… Ma naturalmente anche sulla situazione egiziana, che invece lo vedeva più cauto, soprattutto davanti agli stranieri. Era cosciente della strumentalizzazione a cui poteva andare incontro. Non era la prima volta che si attribuivano allo scrittore dichiarazioni provocatorie, probabile frutto di abili manipolazioni, come quelle di chi lo vedeva di recente troppo vicino alle posizioni dell’università islamica di al-Azhar. Ma Mahfuz era sempre stato un grande laico, come tanti, tantissimi arabi. Solo che il laicismo nel mondo arabo non interessa gli occidentali, sempre pronti al facile trinomio arabi/musulmani/integralisti. Al mio ultimo incontro con lo scrittore abbiamo parlato di un suo romanzo che avevo tradotto anni fa, Miramar, e ricordo di avergli ripetuto una frase che gli avevo detto altre volte: «Ya ustadh, hazzak hazzi». Ringraziavo il maestro: «la tua fortuna è la mia fortuna», riferendomi al fatto che se lui non avesse vinto il Nobel, io, e come me tanti altri arabisti in Europa, non avremmo potuto diffondere la letteratura araba in Occidente, così come stiamo facendo. Per me sarebbe stata un’altra vita e per questo gli sarò per sempre riconoscente.
L’articolo di Isabella Camera d’Afflitto è raggiugibile sul sito del Manifesto