Il 17 dicembre cadrà il decennale dello scoppio della rivoluzione tunisina, avvio della breve stagione nota come “primavera araba”. Nell’ultimo numero di Nessun Dogma (n.6/2020) ne ha scritto Paolo Ferrarini intervistando la cineasta Nadia El Fani. Pubblichiamo integralmente l’articolo.
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Cosa resta delle primavere arabe: Nadia El Fani e il caso Tunisia.
È sin troppo facile, a dieci inverni dalla prima scintilla che le ha scatenate, guardare con occhio critico all’esito delle insurrezioni popolari che la stampa occidentale ci ha abituato a chiamare “primavere arabe”. L’Egitto ripiombato nella dittatura militare, la Libia smembrata e fuori controllo, la Siria e lo Yemen teatri di morte e atrocità senza fine. La storia sembra dare ragione a scettici e pessimisti della prima ora, e a tutti coloro che, affetti da bias di negatività o dal diffuso pregiudizio orientalista secondo cui «la mentalità araba non sarebbe compatibile con la democrazia», possono oggi compiacersi di averlo predetto.
Tuttavia, per rimarcare l’anniversario di un evento che ha cambiato il corso della storia recente, proviamo a concentrarci, almeno per questo numero, sugli aspetti relativamente positivi. Innanzitutto, va notato che l’originale spirito rivoluzionario, con il suo senso di rinnovamento, di giubilo, di ritrovato entusiasmo per la vita politica e per la riappropriazione degli spazi democratici, è qualcosa che persiste ancora, come dimostrano le mini-primavere a cui abbiamo assistito ultimamente: in Algeria, con la ribellione dell’anno scorso contro il presidente Bouteflika, e in Sudan, con un cambio di regime che ha aperto la strada a una stagione di riforme tra le più progressiste della regione.
Soprattutto, non va dimenticato che se la rivoluzione non si fosse diffusa con catastrofiche conseguenze oltre i confini del paese che l’ha originata, limitata a quel paese sarebbe stata una storia di successo: a tutti gli effetti, la Tunisia ha completato la transizione da un regime dittatoriale a uno democratico, senza scivolare nell’incubo islamista o militare.
Come è stato possibile? Gli ingredienti per la ricetta di questo successo sono molti, unici e per lo più irriproducibili altrove. C’è la geografia del paese: piccolo, orientato al Mediterraneo e quindi all’Europa più che ai lontani paesi del Levante e del Golfo; privo di risorse e quindi fuori dalle sfere di influenza straniere che spesso determinano dall’esterno i destini delle nazioni; etnicamente omogeneo e non afflitto dal problema della sovrappopolazione. C’è il retaggio culturale dell’islam malikita, che apre maggiormente al pensiero razionale rispetto alle altre principali scuole giuridiche in cui si declina il sunnismo. C’è una storia post-coloniale che non ha espulso i valori illuministi insieme al paese dominatore che li aveva portati: il Codice dello statuto personale introdotto nel 1956 dal padre fondatore e per trent’anni presidente della Tunisia, Habib Bourguiba, conteneva disposizioni sui diritti della donna che non solo erano inauditi in altri paesi a maggioranza musulmana, ma anticipavano addirittura riforme su divorzio, aborto e contraccezione su cui all’epoca la Francia stessa non aveva ancora legiferato; Bourguiba ha altresì modernizzato l’istruzione, rendendola gratuita, universale e indipendente dai tradizionali insegnamenti religiosi. La Tunisia conta anche su una società civile partecipata e organizzata, con sindacati di lavoratori e industriali fortemente presenti sulla scena politica nonostante i tentativi del dittatore Ben Ali di sottometterli: non a caso, è stato grazie alla mediazione del quartetto per il dialogo nazionale, cui è stato assegnato il Nobel per la pace nel 2015, che si è riusciti a superare un’impasse che, come in Egitto, avrebbe potuto concludere prematuramente l’esperimento del paese con le libere elezioni.
Abbiamo pensato di ricordare e fare un bilancio della Rivoluzione della Dignità (o dei Gelsomini) insieme a Nadia El Fani, regista e attivista atea tunisina, conosciuta e sostenuta dall’Uaar per il documentario Ni Allah Ni Maître (Laïcité, Inch’Allah!) che ha girato a Tunisi nelle settimane immediatamente precedenti e successive alla rivoluzione.
«All’epoca dei fatti – racconta El Fani – ero genuinamente ottimista, persino utopista. Credevo nell’opportunità storica di instaurare una repubblica democratica e laica. Mi aveva colpito che sui muri della città fossero improvvisamente comparsi dei graffiti (cosa già di per sé inaudita, sotto Ben Ali) con uno slogan che poi abbiamo urlato durante le manifestazioni: “Liberté, Démocratie, Laïcité”. La laicità, un’idea che in certa misura fa da sempre parte del modo di essere e di vivere dei tunisini, soprattutto della parte più istruita della popolazione, era diventata una parola tabù sotto il regime. Io stessa avevo qualche perplessità nell’usarla, nei primi dibattiti, preferendo parlare genericamente di separazione della religione dallo stato. Nel mio documentario, girato durante il ramadan, ho insistito su quanto fosse diventata ipocrita la società, sottomessa di fatto al volere degli islamisti: se essere non credenti, bere alcolici e mangiare durante il mese di digiuno erano tutte cose tollerate e all’ordine del giorno, si era arrivati al punto in cui, nonostante la legge non si esprimesse in alcun modo sulla questione, per farlo era necessario nascondersi. I ristoranti e gli alimentari abbassavano le tendine come fossero sexy shop. Allo stesso modo, parlare apertamente di laicità ha subito suscitato forti reazioni da parte degli islamisti, che hanno impugnato il termine, creando strumentalmente confusione sul suo significato per spaventare le persone con lo spettro dell’ateismo, e accusandoci di servirci della rivoluzione per attaccare la religione. Rached Ghannouchi, leader del partito islamista Ennahda, ha dichiarato per esempio che il mio film faceva passare l’idea che la rivoluzione non fosse stata fatta contro Ben Ali, ma contro Maometto. Ho dovuto ripetere fino alla nausea che al contrario la laicità serve a proteggere tutte le religioni, per evitare che i fondamentalisti ne impongano una a tutti».
Ghannouchi, figura riabilitata e rimpatriata dopo un lungo esilio al momento della cacciata di Ben Ali, è considerato dai politologi uno dei fautori della transizione democratica: non solo nel 2013 ha accettato pacificamente di fare un passo indietro e lasciar cadere il governo retto dal suo partito a fronte delle proteste popolari, ma è anche responsabile della secolarizzazione di Ennahda, che ha formalmente rinunciato alla pretesa di introdurre la sharia nella costituzione, dichiarandosi per un islam pienamente democratico e non violento. «Su certi argomenti – spiega El Fani – Ghannouchi oggi è più progressista dei liberali. Nel dibattito sulla decriminalizzazione della sodomia, per esempio, è arrivato ad affermare che nonostante la religione prescriva l’esclusività del rapporto tra uomo e donna, l’omosessualità è un fenomeno naturale e che né lui né il suo partito hanno alcun diritto di giudicare o interferire nella vita privata dei cittadini. Tuttavia, rimango scettica sulle reali motivazioni del partito. Non c’è una vera separazione tra loro e i jihadisti responsabili degli attentati di Susa e al museo del Bardo, o dei salafiti responsabili degli omicidi di Belaïd e Brahmi, terroristi che Ghannouchi ha dichiarato di considerare come figli, perché gli ricordano com’era lui da giovane. Una volta capito che la democrazia è l’unico gioco in città, gli islamisti ne stanno scaltramente sfruttando le regole per realizzare in futuro il loro reale obiettivo: la restaurazione del califfato. Solo il giorno in cui Ghannouchi dichiarerà che la libertà di espressione è un valore non negoziabile, senza dover aggiungere ‘Va bene la libertà, ma questa regista ha esagerato’, crederò che è diventato democratico».
Nel film successivo, Même Pas Mal, Nadia documenta le fortissime pressioni, le denunce legali e i violenti attacchi personali che ha subito dopo l’uscita di Ni Allah Ni Maître. Per l’edizione francese del film è stata costretta a cambiarne il titolo e, in Tunisia, un cinema dove doveva essere proiettato è stato preso d’assalto e vandalizzato dai fondamentalisti. Nonostante tutto, Nadia esprime il suo entusiasmo per una grande conquista politica intervenuta nel frattempo, ossia l’inserimento nella nuova costituzione di un articolo, il sesto, che garantisce esplicitamente la libertà di coscienza. «È fantastico, è più della semplice libertà di religione. Non esiste nulla del genere in nessun altro paese musulmano. E se è vero che il primo articolo, non modificabile, ribadisce che l’islam è religione di stato, altrettanto non modificabile è l’articolo due, che consolida definitivamente la legge civile come unica fonte del diritto, escludendo qualsiasi possibilità di deriva sciaraitica. Ciò che manca realmente in questo momento è una Corte costituzionale, che dopo sei anni ancora non siamo riusciti a nominare. Senza questa supervisione è ancora possibile che leggi liberticide vengano approvate dal parlamento, dove gli islamisti godono di una maggioranza relativa e incontrano un’opposizione insufficiente da parte di un fronte progressista debole e frammentato. È in questo contesto che è possibile che una ragazza come Emna Chargui venga condannata per insulto alla religione e istigazione all’odio per aver condiviso un post satirico sul Corano, una provocazione del tutto innocente e sicuramente molto meno sovversiva, per dire, dei contenuti diffusi online dai nostri rapper».
Per sei anni, Nadia non è più potuta tornare in patria per motivi di sicurezza. I colleghi nei circuiti dell’industria cinematografica hanno preso le distanze da lei e non l’hanno sostenuta nel momento del bisogno. La sua vicenda è diventata un monito per chiunque voglia arrischiarsi a parlare pubblicamente di ateismo e laicità. «Molte cose sono peggiorate, rispetto ai tempi del regime. C’è meno stabilità, la corruzione è onnipresente. I giovani, disillusi, sono disinteressati alla politica e non vanno a votare. La gente è più povera e meno alfabetizzata. La religione è entrata nei programmi scolastici. Lesbiche e gay, che un tempo potevano aspettarsi al massimo di essere apostrofati per strada, ora rischiano aggressioni fisiche. L’articolo 230 che criminalizza la sodomia, della cui esistenza non ero nemmeno a conoscenza, è stato rispolverato da alcuni giudici che accettano referti pseudoscientifici sulla dilatazione anale come prova di reato. Abbiamo anche perso la battaglia sul velo: gli islamisti sono riusciti a convincere le loro donne che si tratta di un simbolo irrinunciabile di identità. Dobbiamo farcene una ragione. Ciò non significa che il paese, nel suo insieme, rischi un’involuzione islamista. Casi come quello di Emna Chargui espongono gli integralisti al pubblico ludibrio, e quando minacciano di toccare leggi a tutela delle donne, tutta la Tunisia è pronta a scendere in piazza a protestare, uomini e donne insieme. La fondamentale aspirazione del popolo alla modernità e al progresso è sempre presente, e non c’è donna che accetterebbe mai di rinunciare ai diritti che ha acquisito. Incluse le musulmane. Le tunisine fanno qualsiasi lavoro, occupano le cattedre universitarie, dispongono liberamente del proprio denaro, decidono chi vogliono sposare, quando divorziare, se avere figli, cosa vogliono studiare… Sono troppo evolute per retrocedere, e questo fa di loro le vere custodi della rivoluzione».
Arriva un messaggio proprio durante il nostro colloquio. Estatica, quasi commossa, Nadia mi informa: «Sono appena stata invitata come ospite d’onore a Tunisi per le Giornate cinematografiche di Cartagine, con una retrospettiva sui miei film. Visto? Qualcosa sta cambiando».
Paolo Ferrarini
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E se il “diffuso pregiudizio” sulla incompatibilita tra mentalita araba e democrazia non fosse affatto un pregiudizio,ma una “scomoda” realta” ?
Scomoda in quanto “politicamente scorretta”,come qualunque critica all’islamismo del resto,che secondo la corrente di moda deriva semplicemente da una “fobia” patologica.
Non dimentichiamo che stiamo parlando di “mentalita”,che non dipende dalla discendenza genetica,ma semplicemente dall’influenza dell’ambiente dove un individuo passa i primi 15-20 anni di vita.
E la cultura islamica non sembra proprio tendere all’equalitarismo,che e’ alla base della democrazia : basti pensare al ruolo secondario che riserva alle donne.
E modificare una cultura degradata e’ un’impresa improba,basti pensare al lascito
del malgoverno borbonico secolare nel sud Italia,i cui effetti deleteri si fanno sentire pesantemente anche oggi : mafia,camorra, ‘ndrangheta non sono altro che
“fatti culturali” che ne sono derivati.
Con buona pace di quanti vedono nel termine “cultura” e “fatti culturali” qualcosa di sacro e intoccabile a priori,ingannati dalla trappola semantica che si verifica nella lingua italiana in questo caso ,e che istintivamente richiama alla mente cose rispettabilissime come scuole,universita,biblioteche ecc.
«…modificare una cultura degradata è un’impresa improba…»
Infatti in questo cristianesimo e islamismo si somigliano: il condizionamento fin dalla più tenera età e ‘dosi’ di mantenimento per tutto il resto della vita.
È la famosa teoria della ‘montagna di m…’ che, in mancanza di una lucida volontà, non è difficile: è proprio impossibile ripulire.