Marina Sozzi è filosofa e studiosa di scienze sociali. Ha lavorato nel non profit occupandosi del tema della morte e dell’aiuto al lutto e della raccolta fondi. Scrive un blog per Il Fatto Quotidiano. Il suo ultimo libro è Sia fatta la mia volontà. Ripensare la morte per cambiare la vita, edito da Chiarelettere.
Lei si dice “convinta che un mutato atteggiamento nei confronti della mortalità sia un ingrediente irrinunciabile per la costruzione di un futuro migliore”. E che “la morale laica non può che fondarsi sulla consapevolezza reciproca” della rispettiva vulnerabilità: “solo se ci sentiamo mortali possiamo essere sensibili al destino umano”. Veniamo da molti secoli in cui la morte era continuamente evocata a fini morali, e da pochi decenni in cui l’argomento sembra quasi divenuto tabù. Com’è possibile cambiare nuovamente — e radicalmente — paradigma?
Come tutti i mutamenti di “mentalità”, non possiamo attenderci che sia rapido. Tuttavia, nell’atteggiamento novecentesco di negazione della morte si nasconde un grave problema: la sofferenza che coglie chi si trova inaspettatamente di fronte alla perdita. In questo caso la morale non c’entra, è una questione di efficacia. Tutte le società hanno sempre avuto strategie per reagire alla ferita inferta dalla morte: la strategia del XX secolo, volta all’oblio e alla dilazione, è perdente perché inefficace. Non abbiamo forse mai avuto così paura della morte.
Uno degli aspetti della funzione “vitale” della morte che sottolinea con più vigore è lo sprone a trovare piacere in ogni attimo della propria esistenza. Scrive che “il godimento dell’istante, il famoso carpe diem, che è la ricetta principale della felicità, non esiste senza la consapevolezza della mortalità”. E ricorda che già Petronio narrava dello scheletro che veniva portato a tavola durante i banchetti, per invitare i convitati “a coltivare ancora più intensamente l’appagamento del momento presente”. Non teme di esporsi ad accuse di edonismo fine a se stesso, di egoismo, di promuovere una società “che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”, per usare le parole di Joseph Ratzinger?
Al contrario. Coltivare l’esperienza del presente, lo “stare nel presente” è tutto fuorché edonista. L’edonismo è rincorsa del piacere, individualità concentrata nella realizzazione dei propri desideri: fuga in avanti, appunto, non profondità del sentire. Il buddismo, ad esempio, ha una grande saggezza su questo tema: fonda tutta la sua filosofia sul raggiungimento della consapevolezza piena del qui e ora, e lo fa sulla base dell’avvertire che tutto è transeunte, impermanente. Rifacendomi non tanto al buddismo, quanto a una filosofa femminista americana, Judith Butler, anch’io penso che l’etica laica non possa che basarsi sulla consapevolezza della nostra umana e condivisa vulnerabilità. Se non ci fermiamo nel presente, però, non possiamo sentirla. La neghiamo, ci illudiamo di essere immortali e onnipotenti, e emarginiamo chi ce la ricorda: gli stranieri, i poveri, i vecchi, i malati, i morenti.
Lei ha un’approfondita conoscenza delle cerimonie laiche. Sull’argomento scrive che “forse dobbiamo solo creare dei riti adatti al nostro tempo, alle nostre priorità, a ciò che riteniamo importante”, perché “pensare al rito può aiutarci a ritrovare i valori per cui siamo disposti a vivere”. Ciononostante, questo è un argomento che incontra forti resistenze sia dalle confessioni religiose, sia in ambienti laici. Eppure, “basta poco perché la situazione cambi”, e anche le sale mortuarie diventino un luogo dignitoso dove ricordare un defunto. Come vede il futuro, in Italia, dei riti laici?
Io in realtà non ho mai celebrato una cerimonia, ma ne ho inventata una. Un contenitore, appunto, uno spazio-tempo rituale (sempre uguale), il cui contenuto varia, perché ciascuno può parlare di chi non c’è più ma ci ha lasciato eredità d’affetti e di pensieri, di emozioni e di momenti condivisi. I riti laici diverranno, lentamente, un’esigenza ovunque riconosciuta anche in Italia. Non so, naturalmente, se quelli che prevarranno e diventeranno tradizione saranno simili alla cerimonia che ho pensato io (sulla scorta di quelle celebrate nel nord Europa) o diversi: ma questo non ha alcuna importanza.
La soddisfazione di un’esigenza di personalizzazione, che è propria del rito laico, trova conferma, a suo dire, anche nei cimiteri, nel numero crescente di tombe che “parlano” del morto. È un effetto della secolarizzazione che, tuttavia, si può ricollegare direttamente alle iscrizioni funebri romane. È un caso, oppure un’insopprimibile esigenza umana che quasi due millenni di cristianesimo avevano messo in sordina?
Più che di un’esigenza “umana”, nel senso di “universale”, parlerei di una necessità culturale: la nostra società dà molto valore all’individuo e a quello che ha realizzato in terra, indipendentemente dalla credenza o meno in un mondo superno. Da questa visione della persona discende il desiderio di ricordarne le azioni, le passioni, i sentimenti.
Già nel titolo, e ovviamente anche nel libro, afferma in maniera netta il primato della libertà di scelta. È tuttavia molto prudente su un’eventuale legalizzazione dell’eutanasia, ricordando il ritardo del nostro paese nell’assicurare cure palliative ed evidenziando il rischio che le scelte individuali possano essere condizionate da troppo entusiastiche suggestioni nei confronti della dolce morte e del suicidio. Come si possono salvaguardare le diverse esigenze, in un paese peraltro ancora largamente condizionato dalla cultura dolorista?
Procedendo per gradi. Lavorando con pazienza, e insieme (laici e cattolici) per la diffusione della filosofia palliativa e per l’applicazione piena della legge 38 del 2010 sulle cure palliative. Aprendo un dibattito pubblico non viziato da ideologia, e ricco di informazione, che si astenga da strumentalizzazioni politiche. Ragionando al contempo su cure palliative e eutanasia, senza dimenticare il contesto culturale in cui riflettiamo e agiamo. Esaminando, per ora, caso per caso.
“il godimento dell’istante, il famoso carpe diem, che è la ricetta principale della felicità, non esiste senza la consapevolezza della mortalità”
Non esiste perché il ‘carpe diem’ – come sembra poi sostenere la stessa autrice – può (non necessariamente, ma ‘può’) diventare solo un modo per esorcizzare la morte. E anche il buddismo (ma qui bisognerebbe specificare ‘quale’ buddismo’), nel momento in cui intende valorizzare il ‘qui e ora’ facendo riferimento alla precarietà della condizione umana, alla sua caducità, opera una rimozione della morte DI FATTO, non a caso ricorrendo a rituali alienanti, ‘stordenti’.
In generale, non credo comunque che esista una ‘ricetta della felicità.
In quanto poi alla consapevolezza della morte… dipende da cosa si intende per consapevolezza. Indubbiamente consapevolezza significa visione chiara, lucida, razionale, di una situazione… ma – per usare un ossimoro – può esistere anche una consapevolezza inconscia, nel senso che vivere la condizione umana non può non costringere a fare i conti con la morte, direttamente o indirettamente, salvo poi accettarne o rifiutarne le conseguenze. In ogni caso credo che è sulla base del tipo di ‘risposta’ data alla ‘consapevolezza’ della morte nel tentativo sostanzialmente di esorcizzarla che hanno origine le religioni. Dalle più primitive alle più elaborate.
C’è una stagione della vita in cui la morte non esiste realmente nonostante tutti i possibili rinvii alla morte che ci vengono dal contesto culturale. È la stagione della giovinezza in cui non possiamo credere realmente che la morte ci riguardi: i giovani hanno ancora davanti a sé tutta la vita, una quasi eternità. Poi a poco a poco il pensiero della fine comincia a invaderci e a partire da una certa età la morte ci è sempre vicina e compagna, più o meno sgradita. I credenti sono convinti (o sperano) che la morte non è la fine, ma anzi l’inizio di una excelsioris vita. Questo aiuta, può aiutare a ridurre la paura della fine (ma sappiamo che anche molti credenti erano e sono terrorizzati all’avvicinarsi della morte). E i non credenti – che aumentano ormai di numero una volta caduto il terrore delle religioni ufficiali (ridicolo papa Bergoglio che minaccia l’inferno ai mafiosi) – come se la caveranno? Non ho una risposta univoca, non l’ho nemmeno trovata per me. Mi piace pensare a Margherita Hack sempre attiva fino alla fine, non per esorcizzare il pensiero della morte, ma semplicemente perché la vita e lo studio continuavano a piacerle, aveva ancora dei progetti, dei desideri (e “i desideri sono le gòmene dell’esistenza” – Alberto Savinio). Anche per questo M. Hack non aveva paura della morte. Più siamo vivi e operosi e meno la morte ci fa paura (non ci pensiamo, o ci pensiamo meno).
La consapevolezza della fine è però una cosa positiva (almeno credo io). Io ogni volta che uccido uno di quegli schifosi insetti che il buon Dio ha inventato (fanno evidentemente anche essi parte del piano divino, a noi ignoto), quando schiaccio una schifosa zecca o una zanzara penso che sto distruggendo un sistema raffinatissimo (come il microscopio rivela). Anche una zanzara è un portento. Ebbene, non c’è più. E sarà lo stesso di ognuno di noi, per quanto infinitamente più complessi di una zanzara. Cento anni fa non c’eravamo, presto non ci saremo più, piaccia o non piaccia. Bisogna imparare a convivere con questa realtà – che potrebbe persino aiutarci a vivere meglio. Altro che vita dopo la morte. C’è una vita ben reale e concreta – e a volte bellissima – pirma della morte.
Io reputo che quando si tratta di questioni relative alla morte… intesa come quella scadenza esistenziale alla quale nessuno può sfuggire, quale che sia il modo di affrontarla… ogni esperienza vera della stessa sia riconducibile alla storia personale di ognuno, cioè ad un’esperienze non generalizzabile. Quando, appunto, si vive non in astratto, ma in prima persona… possono giocare certamente tutte le riflessioni e le scelte fatte in precedenza (dalla scelta religiosa alla lettura o comunque alla conoscenza di narrazioni particolarmente coinvolgenti)… ma un dato si impone, questo sì generalizzabile perché sempre verificabile: la morte è dolorosa. Quale che sia, ripeto il modo di affrontarla, perché si può sempre considerare la morte un evento naturale, non separabile dalla vita, ma la morte è la negazione della vita, e questo è doloroso. E’ mai possibile assistere alla morte di un essere vivente, uomo o animale che sia, anche la più serena, la più accettata, la più ‘naturale’ che sia, senza che si assista ad una reazione fisica, ad una sorta di ribellione del corpo di fronte alle forze vitali che lo abbandonano… così come all’atto della nascita il segno che si è pronti ad affrontare la vita è il pianto, la prima conferma sia dell’esistenza che della sofferenza? E tanto più si è coscienti… cioè non se si è già morti in precedenza, prima della morte vera e propria… tanto più questa reazione fisica risulta dolorosa.
Ripeto, per un’ultima volta, quale che sia il modo di affrontare questa sofferenza, diciamo pure la capacità di ‘sopportarla’. E naturalmente questo vale anche per chi, ritenendo insopportabile la vita, sceglie di lasciarla: il momento cruciale non può che essere ‘vissuto” dal corpo come doloroso. E chi, per scelta o per l’avvicinarsi di una scadenza non più rinviabile, chiede di poter ‘vivere’ ‘un morte dolce’ – l’eutanasia – deve essere aiutato in questa sua richiesta. E’ l’atto più umano che si possa fare, come disumano è perpetuare il dolore.
Personalmente temo la morte, mi fa paura, mentre l’ultima cosa che mi può creare preoccupazione è il dopo morte.
A me accade qualcosa che sembra opposto.
Il dopo morte mi fa paura, in qualche modo. Paura o fastidio, non lo so, ma si tratta di una sensazione negativa in quanto completamente asimmetrica: adesso, da vivo, posso pensare a dopo morto, ma mi sconvolge l’idea che da morto non penserò più a come ero da vivo. Anzi, non penserò più per nulla, e questo mi infastidisce. Il tutto si ricollega a quanto leggevo sul dolore e sull’anestesia qualche settimana fa, non mi ricordo dove: se si potesse in qualche modo (e pare che si riesca, o meglio, certe patologie esistono) eliminare la memoria a breve termine, l’anestesia non sarebbe necessaria. Noi proviamo dolore, ma la sofferenza risiede nel fatto che ricordiamo quanto sta accadendo, istante dopo istante, e il dolore stesso, per manifestarsi, ha “bisogno” di questa memoria. Le patologie alle quali accennavo (e mi sembra di aver visto un film al riguardo) sono peculiari di persone che non ricordano nemmeno di aver vissuto le ultime ore o minuti, mentre si ricordano benissimo chi sono o che cosa era capitato il giorno prima, o anni prima.
Quindi, dicono i neurologi, se si eliminasse in un paziente la memoria a breve-brevissimo termine, questi non proverebbe dolore in quanto non si ricorderebbe di averlo provato istante dopo istante. A parte le questioni etiche che ne sorgerebbero (io potrei infierire su una persona così, senza che ne rimanga traccia in quanto ne sarebbe in qualche modo inconsapevole), una tale situazione, in qualche modo, sembra poter essere applicata al dopo morte, anzi, alle sofferenze pre-morte che spaventano così tanto. Lo so, non si tratta della stessa cosa, ma pensiamoci un attimo: quando me ne andrò, non rimarrà traccia alcuna in me del ricordo delle sofferenze; ergo, sarà come se queste sofferenze non ci fossero mai state. Ed anche le gioie vissute, purtroppo, saranno come se fossero mai state.
Ecco perchè, stranamente, mi spaventa di più il “dopo-morte” che il “pre-morte”: tutto sarà stato inutile e scomparirà, d’accordo, ma, nel primo caso, si tratta di cose belle, e nel secondo di cose brutte.
Più che comprensibile (e che per certi aspetti credo di condividere) la ripercussione che provoca in te il dopo-morte, il nulla che comporta e che può far paura proprio perché si vive… ma ciò può sempre essere ascritto alla paura della morte. Si tratta di una paura, come dire, psicologica… il che non fa certamente meno soffrire della paura fisica perchè è a tutti gli effetti una paura pur sempre fisica… ma la constatazione oggettiva, la ‘vista’ del dolore fisico che la morte procura come dato sempre riscontrabile nelle situazioni ‘normali’, può essere vista come la conferma definitiva, immodificabile, irreversibile, che la condizione umana implica la sofferenza. A me così capita… e mi fa paura perché non vorrei mai avere questa conferma in quanto è la vita che la rifiuta.
In ogni caso, due ulteriori considerazioni:
una scontata: che cosa si proverà veramente in quel frangente, difficilmente lo si può stabilire prima, sarà pur sempre l’esperienza soggettiva per antonomasia;
l’altra è che quanto riporti a proposito dell’intervento sulla memoria, credo – se ho capito bene – lo si posa pur sempre considerare un forma di eutanasia.
Più che eutanasia, sarebbe una insolita forma di anestesia, in quanto reversibile. Il blocco della memoria a brevissimo termine, effettuato artificialmente e farmacologicamente, viene eliminato dopo l’intervento (attenzione, non la memoria in sè, altrimenti sarebbe inutile, ma il blocco della stessa).
Quello che mi lascia molto interdetto, comunque, è che, filosoficamente, funziona in qualunque caso: se uno, per qualche ragione, dimenticasse completamente un’esperienza, sarebbe come se per lui non fosse mai avvenuta. Io, per esempio (mi raccontavano i miei genitori), avevo circa un anno, forse meno, e caddi dal seggiolone, battendo la mascella e tagliandomi la lingua con i denti. Beh, non me ne ricordo per nulla, e tanto meno mi ricordo del dolore: posso decisamente affermare che non sia mai accaduto, e quindi è a tutti gli effetti come se non avessi avuto male.
E, quando sarò morto, per me sarà come se non fossi mai vissuto.
“È la stagione della giovinezza in cui non possiamo credere realmente che la morte ci riguardi” dovresti dire quale giovinezza: la fanciullezza? perché già da adolescenti, purtroppo, si sperimenta sempre più spesso l’esperienza della morte.
Giorgio Pozzo, mi hai fatto riaffiorare le tue stesse ansie sul post mortem, mannaggia mannaggia …
A me l’idea del nulla più totale provoca angoscia vera, mi si chiude lo stomaco, anche di fronte a una bella fiorentina al sangue….
🙂
Ma no, Engy, non pensare alle tristezze;
pensare alla morte da vivi è come pensare al rientro
dalle vacanze mentre si stanno facendo i bagagli per partire…
Alla morte ci penserò a ragion veduta, cioè da morto. 😉
E n g y, io vado fuori di testa all’idea non andare mai in pensione dall’esistenza.
Papa ufficiale: El godimiento dell’eistante, el famoso “trote diem”…..
Segretario: Carpe diem…. Santità.
Papa ufficiale: Uffaaaa… siempre de piesci se tratta.
🙂
Io penso che in questo caso il Papa abbia ragione o no?. 😆
La paura irrazionale, o angoscia della morte, non puo’ essere altro che un’allerta dovuta a una distorsione culturale, amplificata dall’ignoranza e da ideologie assurde !
-Pensandoci bene, la morte non sembra essere più insopportabile di una grande sofferenza irreversibile, l’esilio, l’offesa narcisistica grave o certi tipi di follia, ecc…..
Va inoltre notato che qualsiasi funzione e qualsiasi organismo scompaiono non appena diventano inutili per la conservazione della specie ! In altre parole, esiste un limite oltre il quale il prolungamento della vita non è più redditizio in termini evolutivi.
L’utilità della morte è evidente : consente alla biosfera di trovare un posto su un pianeta, chiamato Terra, con una superficie non elastica, che rende possibile l’evoluzione biologica. A questo punto mi sia concesso dire che se la morte non esistesse dovremmo inventarla…..
“La paura irrazionale, o angoscia della morte, non puo’ essere altro che un’allerta dovuta a una distorsione culturale, amplificata dall’ignoranza e da ideologie assurde”
Concedere che ognuno individualmente possa temere la morte in base alla propria storia personale, alle proprie esperienze, alla propria sensibilità, alla propria cultura, e non necessariamente solo per ‘distorsione culturale amplificata dall’ignoranza e da ideologie assurde’… sarebbe troppo vero? Sarebbe un vero e proprio insulto alla scienza!
Non penso sia necessario cercare un’ utilità evolutiva alla morte, per il semplice motivo che un organismo indistruttibile non può esistere, quindi il problema dell’ immortalità non si pone.E’ la capacità di replicarsi ad aver permesso la diffusione e l’ evoluzione della vita.
Ho sbagliato il tasto rispondi, mi rivolgevo a Pendesini.
Bruno, io sono d’accordo con te sul fatto che ogni persona considera la morte a modo suo, indipendentemente dalle “distorsioni culturali” (ma che sarebbero poi?), ma qui la scienza non c’entra un banano di nulla. Si parla infatti, come dici tu, di emozioni, di personalità, di sensazioni, che sono tutte questioni che prescindono completamente dalla scienza (e dalla filosofia). Alla faccia di quelli come Wolf Singer, riduzionisti/meccanicisti che non vogliono rassegnarsi all’idea che un organismo possa essere soggetto invece che puro oggetto.
Per Alessandro Pendesini:
La paura, chiamiamola pure così, non è altro che un’emozione, un pensiero: e i pensieri non possono essere razionali al 100%. Quindi, è inutile voler affibbiare alla paura la qualifica assoluta di irrazionale: come non esiste la “paura assolutamente razionale” (sarebbe scientifica, ma non esiste allo stato puro), non esiste la paura assolutamente irrazionale. Dirò di più: rischiamo una contraddizione, in quanto, se vogliamo, allora, l’istinto di conservazione porta alla paura irrazionale, mentre invece potrebbe essere considerato paura razionale, o scientifica, in quanto utile per la conservazione della specie. Come la mettiamo allora? Semplice: non c’è nulla di scientifico nel pensiero individuale che ognuno ha verso la morte, per il semplice motivo che non c’è una universalità di pensieri.
Questa risposta di Bruno Gualerzi la dice lunga su come un filosofo interpreta « pertinentemente » quello che scrivo. Devo, più che probabilmente, essere un asino….Complimenti Bruno !
@ alessandro pendesini
Lascia perdere i filosofi (se mai parla di un filosofo scarso come me), ma per quanto rilegga ciò che hai scritto non mi viene altro commento di quello che ho postato.
Cosa vuoi che ti dica, sarà evidentemente dovuto alla mia ignoranza se, nonostante che la morte non sia ” più insopportabile di una grande sofferenza irreversibile, l’esilio, l’offesa narcisistica grave o certi tipi di follia, ecc…..” io continui ugualmente ad averne paura.
Né mi consola il fatto che “qualsiasi funzione e qualsiasi organismo scompaiono non appena diventano inutili per la conservazione della specie ! In altre parole, esiste un limite oltre il quale il prolungamento della vita non è più redditizio in termini evolutivi.”
Così come non mi consola il fatto che “la morte consente alla biosfera di trovare un posto su un pianeta, chiamato Terra, con una superficie non elastica, che rende possibile l’evoluzione biologica.”
Non tutti possono avere la fortuna di vivere, e soprattutto morire, come Dio… pardon, la scienza… comanda.
@Giorgio Pozzo
Quando parlo di paura “irrazionale” (squilibri mentali dovuti a fobie ecc..) faccio riferimento a dei comportamenti di certe persone che sono letteralmente terrorizate solo a sentire parlare della morte !
E’ ovvio che non abbiamo bisogno di imparare ad avere paura (siamo geneticamente attrezzati dalla natura per questo), ma dobbiamo imparare “di chi avere paura”, ma anche e soprattutto “da cosa non dobbiamo più avere paura” !
P.S. Non è perché un fenomeno è radicato nei circuiti neurosinaptici che è inamovibile. Ciò che funziona in una direzione -sensibilizzazione o amplificazione della paura- può, entro determinati limiti, funzionare nell’altra –la desensibilizzazione.
Io non sono un filosofo e la morte la vedo una necessità pratica come quando si va al cinema.
Finito il film se chi l’ha visto non esce altri non possono entrare per vedere la proiezione seguente.
La sala cinematografica non può contenere i nuovi se i vecchhi utenti non escono.
Per la messa la vita si allunga visto quanto ormai son diventato così pochi quelli che ci vanno 🙂
@ Stefano
Più che legittimo il tuo modo di considerare la morte, ma spero riconosca… e spero senza sarcasmo o ironia, e senza rivendicare il tuo non essere filosofo perchè la filosofia non c’entra… che possano scattare anche altri riflessi di fronte alla morte.
A me per esempio la metafora del cinema, anche se ne riconosco la bella efficacia, non consola.
Ti auguro la buona notte.
Ma io non voglio consolare me e nessun altro. Ho solo preso atto che non esiste altro sistema per far posto ai nuovi nascituri se non la morte.
Questo non è consolazione ma un dato di fatto. E se anche i nascituri non arrivasero più, le nostre cellule per unsmplice fattore biologico, invecchierebbero e morirebbero.
La morte fa parte della vita; lasciamo agli sciocchi creduloni la vita eterna, per favore.
@ Stefano
Ma perché consideri sciocchi creduloni chi… e non si tratta solo dei creduloni nella vita eterna, nella quale ovviamente nemmeno io credo… soffre proprio per questo ‘dato di fatto’? Non credi che il tuo sia un atteggiamento che non può essere generalizzato… e non solo perché si è sciocchi creduloni?
(Se ti interessa un discorso un po’ più complesso e argomentato, puoi seguire lo scambio tra me e pendesini… che naturalmente può lasciati, e anzi confortarti, nelle tue convinzioni)
Che si soffra all’idea della morte è chiaro: tutte le persone che abbiano un minimo di cervello vedono in fondo alla strada il patibolo che si avvicina sempre più.
Alcune se ne fanno una ragione pur soffrendo all’idea di dover lasciare ciò che amano. Altri vogliono illudersi che la vita continuerà in un altro mondo senza avere le prove che questo esista.
E tu pretendi che io non gli chiami sciocchi creduloni?
Come già detto in altre occasioni : anche se la morte è spesso considerata una tragedia per l’individuo , essa potrebbe essere apparsa nel corso dell’evoluzione come un avvenimento precisamente determinato nel tempo, che aumenta la capacità di adattamento e quindi la sopravvivenza della specie . Delle mutazioni che sono vantaggiose per l’individuo , consentendo una vita potenzialmente eterna, sarebbero più che probabilmente pregiudizievoli per la specie e condurrebbero alla sua estinzione.
Potremmo solamente immaginare una terra popolata da 80 miliardi di persone (o più) ? A questo punto capiaremmo, anche se amaramente, la “scelta” della natura : la morte !
La scienza deve cercare di prolungare la vita fino al suo termine “normale” nel miglior modo possibile , dimostrare che a questo corrisponde “un istinto di morte naturale”, aiutare le persone a capirlo e far si che si possa sviluppare in loro.
N.B.:-L’evoluzione e l’immortalità sono due concetti incompatibili . Se gli organismi devono migliorare e rinnovarsi ogni anno , la morte è un fenomeno tanto necessario quanto la riproduzione !!!
E, come diceva Arthur Schopenhauer,… “esigere l’immortalità dell’individuo , è voler perpetuare un errore all’infinito”…..
@ alessandro
Non ho nessuna difficoltà, non solo a capire ma anche a riconoscere che quanto dici della morte (senza entrare nel merito dal punto di vista strettamente scientifico) possa aiutare ad accettare la morte, a vedere nella morte un fatto naturale… come non ho nessuna difficoltà a riconoscere che la fede in una vita che continua anche dopo la morte del corpo possa aiutare a mitigarne la paura. Tu stesso però a un certo punto parli della morte come di ‘scelta della natura’ che procura (o può procurare) ‘amarezza’, e non capisco perché debba poi sostenere che la paura della morte – e proprio perché irrazionale, angosciante – “non puo’ essere altro che un’allerta dovuta a una distorsione culturale, amplificata dall’ignoranza e da ideologie assurde”.
E per quanto mi riguarda nemmeno il celebre aforisma di Epicuro (un filosofo) mi serve del tutto a mitigare la paura della morte, o mi serve solo in parte, cioè nella seconda parte (“quando c’è la morte non ci siamo noi”), mentre la prima parte (“quando ci siamo noi non c’è la morte”) non mi convince per niente, perché è proprio quando “ci siamo noi” che la morte può fare paura, in quanto, da vivi e coscienti, sappiamo del destino che spetta a ognuno.
E infine, perché anche l’istinto di morte’ di cui parla Freud, proprio perché istinto, cioè inscindibile dalla condizione umana, non può essere vissuto dolorosamente?
Il dolore, la paura del dolore, caro pendesini, non è necessariamente un fatto culturale… e se mai è proprio la cultura – per esempio la cultura religiosa, o quella scientifica intesa in un certo modo, a mio parere distorto – che può essere vista come un maldestro, innaturale, tentativo di esorcizzare la paura.
Io non riesco a vedere nessun consolatorio risvolto utile o necessario nella morte (a meno che non sia volontaria); la colgo (non l’accolgo!) solo nella sua ineluttabile (e spesso tragica) fatalità di evento che prima o poi ci colpirà tutti, così come ci ha colpito la vita, ma nulla di più.
La morte mi fa paura, mi spaventa, ma allo stesso tempo non mi angoscia, mi mette solo tristezza per il fatto di non poter essere io a decidere il quando: il potermi dire “basta! ora sono soddisfatto desidero addormentarmi per non risvegliarmi mai più”.
@Bruno Gualerzi
Tutte le persone hanno paura della morte, indistintamente tutte. Quelle che dicono di non avere paura (tranne certe eccezioni) mentono ! Conviene pero’ distinguere la paura « normale » da quella patologica. Ho conosciuto e conosco persone di una certa età che hanno paura di addormentarsi ! Evitano di andare a letto, si addormentano stressate su sedie o divani….Qui siamo nel patologico e non nel normale, cogli la differenza ? Ritengo inoltre che sia più utile cercare di sdrammatizzare la morte, accettarla come un evento naturale benefico, se non per sé, per l’avvenire e benessere della specie umana e non solamente….- La morte, che appare a certi così rivoltante o intollerabile, è dunque, vista dal punto di vista evolutivo, una novità, un vantaggio selettivo, una sorta di “progresso”. Infatti la morte degli individui non solo assicura la sopravvivenza della specie ma anche il suo ringiovanimento ; e proprio per questo non è solo una necessità ma anche un bene. Ed è qui che troviamo un significato biologico della morte (senza alcun senso metafisico), sensa del quale sarebbe da considerare un “puro scandalo”! -Quest’ultima frase dimostra quanto sia difficile evitare di amalgamare la moralità con la biologia ….E ritengo sia importante sapere che questo è la scienza che lo insegna !
P.S. -Mi ricordo che in Italia c’era chi cantava « son contento di morire ma mi dispiace »…e chi « mi dispiace di morire ma son contento »…Ad ognuno di noi trovare la sua consolazione !……
@ Alessandro
Anche se con reciproche ‘concessioni’ le distanze rimangono. E sta bene così. Distanze comunque che sono evidenti soprattutto quando scrivi:
“Ed è qui che troviamo un significato biologico della morte (senza alcun senso metafisico), sensa del quale sarebbe da considerare un “puro scandalo”! “Quest’ultima frase dimostra quanto sia difficile evitare di amalgamare la moralità con la biologia ….E ritengo sia importante sapere che questo è la scienza che lo insegna !”
Per quanto mi riguarda invece la morte è ‘uno scandalo’… e proprio perché è un fatto naturale! Provo a spiegarmi. L’evoluzione sta a rappresentare le tappe che hanno caratterizzato l”evolvere’ della vita sul pianeta, senza per questo rappresentarne un miglioramento, un perfezionamento, se mai un successiva complessità… a dare una valutazione della quale (valutazione, non descrizione), non credo sia la scienza come tale, ma la cultura. Che indubbiamente a sua volta ‘evolve’, e in relazione alle trasformazioni biologiche, e del resto anche la scienza è cultura… ma è poi l’evoluzione che ‘esige’ – come spieghi (e personalmente condivido) – la morte dell’individuo come condizione per la sopravvivenza della specie. E questo, per l’individuo umano… quell’individuo umano che sempre l’evoluzione ha dotato di una coscienza, cioè della possibilità di rendersi conto del proprio destino come individuo… è, ripeto, uno scandalo! Uno scandalo perché la morte – sempre per quanto riguarda l’individuo – è la negazione della vita ‘voluto’ dalla vita stessa. Questo è sì insegnato dalla scienza in senso stretto, la quale però, come tale, descrive un fenomeno, non lo valuta. Serve a valutarlo, certamente, e ancor di più serve per migliorare, nei limiti del possibile, l’aspetto strettamente biologico che ‘muta’ anche l’aspetto culturale… ma poi è quest’ultimo che ‘interpreta’ le conseguenze di questi mutamenti. E la cultura esiste perché c’è una coscienza… e la coscienza, è certamente un prerogativa della specie, ma opera concretamente nell’individuo.
E credo che sia proprio questo aspetto che distingue la scienza dalla, diciamo, morale (un aspetto per altro della cultura): la scienza considera l’uomo come specie, come ‘umanità’, che diventa un’astrazione se non si considera che l’umanità – per parafrasare Ockam – “sono gli uomini”… ed è l’individuo che veramente vive e soffre, non l’umanità! In modo, appunto, individuale, personale, non generalizzabile, ma è nel singolo individuo che la morta può veramente essere ‘vissuta’.
Io non sarei così assoluto. Critichiamo sempre la religione e il teismo per essere assoluti, e poi cadiamo nella stessa buca.
Come scrivevo sopra, l’esistenza di un sano e genuino “istinto di sopravvivenza” risulta essere in antitesi e contraddizione con l’utilità della morte. Se consideriamo che, come secondo me accade nella maggioranza dei casi, la paura della morte discende da un genuino istinto di conservazione che risulta necessario alla sopravvivenza della specie (in quanto l’individuo tende a sopravvivere per riprodurre i propri geni), allora ci dobbiamo necessariamente rendere conto che non possiamo elogiare la morte come una specie di benedizione divina….
Io personalmente mi appello allora a questo sano e biologico istinto di conservazione per giustificare appieno come “scientifica” la mia paura della morte.
Et voila’.
@ Giorgio Pozzo
Direi che sono d’accordo in tutto e per tutto. Posso dirlo, oppure in quanto sostengo c’è qualcosa che per te non torna?
Rispondi solo se sei d’accordo… 🙂
Scusa Giorgio, ma mi piaceva molto quanto avevo appena letto del tuo intervento… che ho dimenticato come, sul ruolo della scienza, difficilmente potremo essere d’accordo.
Così ti evito la risposta 🙂
Mah, diciamo che, semplicemente, io non vedo come la scienza possa avere a che fare con le emozioni e le sensazioni.
“solo se ci sentiamo mortali possiamo essere sensibili al destino umano”.
Per secoli, millenni la morte era onnipresente, visto che la gente moriva spesso giovane, la chiesa ne ha fatto un culto, eppure non mi pare che vi sia stata sensibilità verso gli altri, non mi pare che si siano risparmiate sofferenze ed uccisioni, massacri di intere etnie, persone di altre religioni e civiltà.
Addirittura si andava a vedere le esecuzioni capitali con l’intera famiglia come se si andasse al cinema.
Io credo che sia proprio la nostra civiltà che cercando di “ignorare” la morte dimostri maggior sensibilità verso gli altri e le altrui sofferenze perchè cerca di evitare che qualcosa del genere possa succedere agli altri, non riesce ad accettarlo come un fatto “normale” come in passato. Credo che si costruiscano troppo dei falsi miti sul passato e sulle maggiori sensibilità, un po’ come quelle del buon selvaggio.
@ Roberto V
Potrei essere d’accordo (e per quanto riguarda la mitizzazione del passato lo sono senz’altro)… ma non credo che questo ‘ignorare’ la morte dimostri maggior sensibilità verso gli altri, e ne sia invece solo una rimozione. E infatti non credo che si rispetti la vita più che in passato (dove non la si rispettava certo), o si abbia più ‘compassione’ (nel senso schopenhaueriano di com-patire, di ‘patire insieme’) per i propri simili. E spesso domina l’ipocrisia: pensa alla convenzione di Ginevra per cui in guerra non si debbono passare certi limiti, tipo l’uso dei gas tossici, come si trattasse di una competizione cavalleresca e si potesse regolamentare la morte, la quale se dovuta magari a una bomba intelligente sarebbe più accettabile! O, per altro verso, la stessa Croce Rossa, istituita a suo tempo (e ancora oggi) per soccorrere i feriti in guerra… rendendo così, ovviamente al di là delle nobili intenzioni, più ‘sopportabile’ la guerra. Insomma, di miti se ne inventano ancora: diversi, ma sempre miti!
Gualerzi
Sto leggendo un libro scritto da immigrati senegalesi sul rapporto con gli italiani.
Una cosa che evidenziano subito è il diverso approccio verso la morte degli italiani che tendono a rimuoverla mentre per i Senegalesi è parte della loro vita.
Non mi pare che questo differente approccio abbia portato ad una maggiore sensibilità verso le uccisioni e le sofferenze degli africani.
Io credo che proprio il fatto di non sopportare la sofferenza e la morte, di non considerarle normali compagne di vita, ci porti a non accettarla anche negli altri. Perchè sappiamo il fastidio che ci da.
Per chi è abituato, alla fine diventa cinico, ragiona sul concetto, meglio a te che a me, sul oggi mi è andata bene. Forse individualmente potrà anche cercare di assaporare meglio la sua vita, di acconteantarsi del poco, ma non credo che questo lo porti a condividerlo con gli altri.
Spesso ci viene raccontato quanto una volta sarebbero stati solidali, mentre quando si va ad approfondire si vede che è un mito creato sul passato dai soliti tradizionalisti.
In passato sono riusciti a creare sofferenze anche ai semplici mancini e non si sono mai preoccupati di come stesse una donna o un bambino. Quante donne sono state ammazzate o rinchiuse in manicomio per il semplice fatto che non accettavano il tipo di vita loro imposto (e questo senza che la società se ne interessasse).
Il cervello dell’Homo sapiens ha dispositivi che gli permettono di diventare consapevole della durata limitata della propria vita e paragonarla a quella degli altri. E’ l’unico animale che sa di essere mortale ! Questa componente emotiva aggiunta alla stabilità della memoria installata nelle nostre reti neurali, crea uno stato cerebrale di “ruttura” difronte alla morte. Ne consegue inevitabilmente una “sofferenza morale” (come giustamente certi di voi fanno notare). Possiamo vedere in questa sofferenza causata , ad esempio, dalla perdita irreversibile degli altri e, immaginando la propria morte, un brutale stato di “mancanza” (generatore d’ansia), l’assenza irrimediabile di “risposta gratificante”, una discrepanza violenta tra l’atteso e l’attuale. In altre parole le prospettive del futuro ci impediscono –anche se non sempre- di vivere in relativa armonia con il presente…
P.S. Avrei pero’ preferito evitare questo commento, il mio obiettivo consiste non nel drammatizzare la morte, bensi sdrammatizzarla ! Pazienza….
10 anni fa mi hanno tolto e curato chemioterapicamente un tumore maligno.
2 anni fa stessa procedura per una recidiva, in stadio più avanzato.
In questi 10 anni ho condotto una vita psicologicamente serena e – salvo i periodi ospedalieri e di chemioterapia – fisiologicamente pressoché normale.
Ovviamente non mi aspetto di arrivare a 80 o più anni e ritengo probabile, più presto che tardi, nuovi episodi che comportino sicuramente la fine di una vita accettabile o la fine della vita del tutto.
Mi godo la vita giorno per giorno riservandomi di affrontare i problemi quando e se si presenteranno, non prima.
Una delle componenti della mia serenità è da un lato la speranza, o l’illusione di poter – quando sia il caso – decidere di interrompere la mia esistenza e di essere in grado di farlo con i miei mezzi senza coinvolgere altri.
Dall’altro lato la certezza che con la mia morte cesseranno tutti i miei problemi:
ovviamente, al momento della decisione, prenderò in considerazione effetti e ricadute – positive e negative – sui miei cari, non certo valori immaginari quali il rispetto della legge naturale, di quella di dio, la rava e la fava.
mario
PS
Epicuro diceva:
– quando ci sei tu, non c’è la morte, quando c’è la morte non ci sei tu; quindi non c’è ragione di temere la morte
Purtroppo le attuali tecnologie diagnostiche e curative consentono condizioni di vita senza speranza di guarigione ben più temibili e insopportabili di una morte improvvisa.
E’ questo che mi illudo di poter evitare