Se oggi il recente affossamento del Ddl Zan rappresenta uno stop per i diritti civili in Italia, non bisogna dimenticare che sul lungo periodo i passi avanti ci sono stati e sono stati decisivi. E ci spronano ad andare avanti per un paese più laico e civile. Lo storico attivista Franco Grillini parte dalla rivolta di Stonewall Inn del 1969 e ripercorre l’avanzamento dei diritti lgbt nei cinque decenni successivi. La sua preziosa testimonianza sul n. 1/2020 della rivista Nessun Dogma.
Per leggere tutti i numeri della rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
New York, domenica 30 giugno. In occasione del cinquantesimo anniversario della rivolta dello Stonewall Inn (un bar frequentato da gay e transessuali in Christopher Street nel Greenwich Village) mezzo mondo era nella grande mela.
Perché la rivolta del 1969? Era vietato somministrare alcolici alle persone omosessuali, considerate malate, e in un regime proibizionista gli unici che potevano gestire questi bar erano ovviamente i mafiosi che passavano mazzette alla polizia (che, cinquant’anni dopo, si è scusata per le prepotenze dei colleghi di allora). Dopo l’ennesima incursione fatta di arresti, schedature, violenze gratuite e inammissibili scoppiò la rivolta, che durò tre giorni e che fu anche contro la mafia, non solo contro la polizia. Da quella scintilla è nato il movimento lgbt moderno. L’anno successivo, sempre a New York, si svolse il primo Gay Pride, a cui fecero seguito le celebrazioni dei Gay Pride in tutto il mondo.
Mentre sfilavo con la mia carrozzina (un tumore cronico mi ha regalato una disabilità al 100%) guardavo quella folla enorme in strada e ai lati, perché negli Usa e in tante altre parti del mondo si può partecipare anche tifando dietro le transenne per un’organizzazione che è stata perfetta. Il sindaco Bill De Blasio ha parlato della presenza nei giorni del Pride del cinquantenario di oltre cinque milioni di persone.
Ma anche in Italia non si è scherzato: il giorno prima a Milano, in una manifestazione che è stata definita da tutti i giornali come “mastodontica”, avevano sfilato più di 300 mila persone di tutti i tipi, di tutte le sessualità, di tutti i credi e convinzioni. Quest’anno, nel Bel Paese, nei 41 Pride hanno marciato più di un milione di persone dando vita alla più grande manifestazione di popolo per le libertà civili e, aggiungo io, per la laicità dello stato. Infatti, ora la manifestazione si chiama semplicemente “Pride” per dare a tutti la possibilità di riconoscersi in una battaglia di libertà che non può che essere universale.
La strada è stata molto lunga, in Italia ci sono voluti cinquant’anni per raggiungere quegli obiettivi di mobilitazione e quelle conquiste legislative che altrove erano storia consolidata da tempo. Qui da noi è stato tutto più difficile e qualche giorno fa sono letteralmente sobbalzato sulla seggiola leggendo una intera pagina di intervista a Camillo Ruini sul Corriere della Sera. Pensavamo che questo personaggio fosse sepolto per sempre dalla storia, e invece la mummia è stata fatta resuscitare dal principale quotidiano italiano, che forse non si è reso conto della marchetta a Salvini e al suo uso ridicolo dei simboli religiosi, branditi come la spada di Giussano contro immigrati e diversi dopo aver trafficato per anni con le ampolle del Po e i matrimoni celtici.
Noi conosciamo bene Ruini e il ruinismo, l’etica dei principi contro l’etica della responsabilità, l’odio verso gli omosessuali e le donne, la chiesa militante schierata con l’estrema destra, i «principi non negoziabili» che hanno bloccato ogni legge innovativa sui diritti individuali di libertà e che riemergono dalla pattumiera della storia. Nel 1994 decidemmo di dar vita alla prima manifestazione ufficiale del Pride a Roma e mi beccai una denuncia per offesa alla religione e a capo di stato estero per il mio veemente comizio in piazza Campo de’ Fiori davanti alla statua di Giordano Bruno. Avevamo stabilito l’asticella del successo a 500 presenti, ci trovammo in 15mila e lì capimmo che il mondo, Italia compresa, stava cambiando sul serio.
Sei anni dopo, l’imponente Pride svoltosi durante il giubileo del 2000. Dopo innumerevoli tentativi di stopparlo, con la richiesta esplicita del papa polacco di vietarla in quanto «offesa alla sacralità della capitale», oltre mezzo milione di persone percorse le vie di Roma. Evidentemente Karol Wojtyla non si era ancora abituato al fatto che Roma è la capitale dello stato laico e non più di quello vaticano, finito una volta per tutte con la presa di Porta Pia il 20 settembre 1870 per mano dei bersaglieri del nuovo stato unitario. Non è un caso che una delle prime proposte di legge che ho presentato nel corso della mia attività parlamentare è quella di ripristinare il XX Settembre come festività nazionale. Lo era stata per cinquant’anni poi, è bene ricordarlo, fu abolita dal regime fascista in occasione della firma del concordato istituendo la festa della marcia su Roma e dell’11 febbraio, anniversario della firma del concordato stesso. Due festività giustamente abrogate ma senza riparare la ferita del XX settembre.
Perché laicità e diritti civili non possono che essere un’unica battaglia? Per un motivo molto semplice: in democrazia la maggioranza garantisce i propri diritti in quanto tale, mentre rimangono da garantire i diritti delle minoranze che, a quel punto, diventano diritti universali perché vivere in un mondo dove i diritti sono garanzia collettiva rende la democrazia stessa inverata fino in fondo.
Da quando assunsi la leadership dell’Arcigay, diventata organizzazione nazionale nel 1985, ho sempre insistito perché il discorso sui diritti civili delle persone lgbt fosse rivolto non a piccole élite ma fosse in grado di parlare a 60 milioni di italiane e italiani. Manifestazioni di massa e organizzazione di massa e di popolo. E alla fine ci siamo riusciti perché i Pride sono diventati manifestazioni di popolo che si celebrano in tutto mondo – persino nei paesi autoritari, dove sono ancora teatro di scontri con gli integralisti e i fanatici di ogni risma. Come a San Paolo del Brasile, dove c’è una vera e propria competizione tra il Pride e i fanatici evangelicali su chi porta più gente in piazza: in genere 3 milioni contro 2 (meno, ma sempre troppi).
Negli anni ’90 il compianto Arrigo Levi, ex direttore del quotidiano La Stampa, era promotore delle ricerche su simpatia e antipatia in Italia: gli omosessuali erano stabilmente al primo posto seguiti da zingari ed ebrei. Oggi il sondaggista Nando Pagnoncelli ci parla di un 66% di italiani che accettano in vario modo l’omosessualità e gli omosessuali, dati confermati da Eurobarometro che ci parla di un 68% su scala europea. Ciò non significa che l’omofobia sia scomparsa, tutt’altro purtroppo. Non a caso in parlamento è in corso il terzo tentativo in vent’anni di approvare una buona legge che estenda la Mancino-Reale anche ai reati commessi in base all’orientamento sessuale e l’identità di genere. Teoricamente i voti ci sarebbero con l’attuale maggioranza politica parlamentare, e questa legge sarebbe un importante tassello dopo le unioni civili e la legge sulla protezione internazionale delle persone lgbt perseguitate nei loro paesi – guarda caso, per lo più dittature islamiche o africane aizzate dal confessionalismo cristiano integralista finanziate dall’internazionale nera e omofoba.
Rivolgendo lo sguardo a cinquant’anni di lotte parlo spesso di «rivoluzione gentile» che ha cambiato, in modo speriamo irreversibile, mentalità e cultura. La sfida della laicità, e quindi in Italia dell’Uaar (giustamente sempre presente nelle manifestazioni dei Pride), può seguire la stessa strada, individuando il modo di parlare a tutti con una serie di obiettivi precisi, ben identificabili e ben comunicati attraverso le moderne tecnologie (di cui purtroppo la destra si è spesso impadronita gestendole col massimo profitto), e promuovendo una grande alleanza laica sui diritti di libertà. Battaglie come l’eutanasia sono ormai condivise dalla maggioranza della popolazione. Lo spazio politico culturale è enorme e nessun congresso mondiale familista come quello di Verona può invertire il corso della storia che ci vede protagonisti.
Il grande Sandro Penna in uno dei suoi versi più belli ci dice che «passano gli anni lieti/lieti di bell’età/non passano i divieti/alla felicità». Ma la laicità come spazio libero per tutti è la strada maestra per la felicità individuale e collettiva. Proviamoci!
Franco Grillini
Consulta il sommario Acquista a €2 il numero in pdf Abbonati
Sei già socio? Entra nell’area riservata per scaricare gratis il numero in digitale!
Ciò che l’uomo, particolarmente in Italia, teme nella bisessualità (che, sovente non è altro che una fase di transizione verso l’omosessualità esclusiva !), è che avrebbe la dimensione omosessuale. Teme che un desiderio o il comportamento omosessuale contamini la sua (pretesa) eterosessualità e, a sua volta, comprometta seriamente la sua (fasulla) identità maschile. Come manovra difensiva, può di conseguenza mostrarsi molto ostile o sospettoso ma anche agressivo a riguardo degli omosessuali. Ed è proprio quello che capita negli uomini –sia cattolici che atei devoti (ma non solamente !)- che pretendono di non avere nessuna tendenza omosessuale….Non dobbiamo quindi essere sorpresi di constatare che l’omofobia è molto più accentuata negli uomini, pretesi eterosessuali o considerati tali, che nelle donne !
Come già detto in altre occasioni, un uomo puo’ pretendere dimostrare di essere un « maschio » tramite i suoi ipotetici successi fallici di ogni genere nella realtà, ma i suoi più grandi successi, li vive soprattutto nelle sue costruzioni fantasmatiche, (a volte con l’aiuto della pornografia) : l’immaginario è il regno dell’illusione. Nella sua immaginazione, egli abbozza scenari in cui afferma la sua pretesa, e più che dubbia, virilità. (E questa regola è valida sia per atei devoti che cattolici particolarmente gli omofobi i più accaniti, ma non solamente….Purtroppo