Traduzione di “Atheism and the Need for ‘Sacred Spaces’ for Ritual: Are They in Conflict?” di Paul Fidalgo, pubblicato nel blog Friendly Atheist
Suzanne Moore scrive sul Guardian del processo mentale che l’ha indotta a realizzare una sorta di cerimonia celebrativa per la nascita del suo terzo bimbo (congratulazioni, tra l’altro!). Nel far ciò, ha scoperto che il proprio desiderio per una forma di rituale che solennizzasse l’evento entrava in conflitto con il desiderio di essere una “buona atea”.
Ecco come lei stessa spiega il problema: teme che il “nuovo ateismo”, qualunque sia l’interpretazione del termine, si possa “fissare sull’etica ignorando l’estetica” e che “l’ateismo ultraortodosso inizi ad assomigliare esso stesso a una fede rigida e patriarcale”.
Personalmente mi dà molto fastidio l’idea stessa di un “ateismo ultraortodosso”, e sospetto che molti di voi abbiano la stessa reazione, principalmente perché come concetto quasi non ha motivo di essere (come potrebbe?). Ma Moore presenta motivi solidi per riservare uno spazio assimilabile al “sacro” volto a contrassegnare gli eventi importanti della vita.
Abbiamo la necessità di creare uno spazio al di fuori della vita quotidiana per questo scopo. Possiamo chiamarlo spazio sacro, se vogliamo, ma la delimitazione di spazi o momenti speciali non è esclusivamente una prerogativa dei religiosi. Possiamo vivere senza Dio. Possiamo considerare inattendibile e inconsistente il pensiero new age che enfatizza la “natura” e lo “spirito”, ma considerare stupido il bisogno umano di esprimere trascendenza e condivisione con altri è a sua volta stupido.
Ho visto cerimonie unitariane per nuovi nati (e anche meno “nuovi”), prive di pesanti tratti religiosi, e le ho trovate piene di significato; un modo tenero di dare il benvenuto a un nuovo essere umano da parte di una comunità di persone benauguranti. Non offendevano il mio ateismo.
Questo è però motivo di spaccatura tra i non credenti, sul fatto che le cerimonie possano trovare posto all’interno del nostro movimento, della nostra comunità. Alcuni credono fermamente di sì: osservate per esempio il successo delle “Sunday Assembly” e il lavoro degli Harvard Humanists [all’università di Harvard c’è un cappellano umanista]. Altri respingono ogni tipo di “congregazionalismo”, come ad esempio Tom Flynn, uno dei miei capi al Center For Inquiry (CFI). Le ragioni possono essere di carattere generazionale oppure personale.
Per questo motivo il CFI di Los Angeles ha organizzato il 5 gennaio una conferenza sulla ritualità, non per la nascita ma all’opposto, sul commiato. In questa sede Caitlin Doughty ha parlato dei rituali di fine vita destinati alle persone laiche. In ogni caso, che si parli di morte, nascita, matrimonio o di incontri domenicali, stiamo tutti cercando di capire se e come inserire rituali e cerimonie nella vita degli atei.
La redazione
Anche l’Uaar organizza, per chi lo desidera (e solo per chi lo desidera), cerimonie laico-umaniste.
Si può festeggiare una nascita perché e come ci va.
Non è un rituale.
Si può ricordare qualcuno che è morto perché e come ci va.
Non è un rituale.
Quindi non mi pare che servano “rituali”.
Comunque la ccar i suoi “rituali” li ha sempre definiti “sacri” in quanto è il sacerdote (sacrum – do) che li rende tali.
Ogni ripetitività umana è rituale. Basterebbe mettere queste prima di quelle, cioè alla base. Poi chi vuol farsi benedire, vada pure a farsi benedire….
Prima l’uomo, civis. Che è già il massimo, l’apice, il fondamento di ogni bene dire.
…Sacro deriva dal latino sacer, la cui etimologia è discussa altrove (nb: sono andato a verificare su http://www.polemos.it/doc_abc/sacro.html), ma più che altro per dire che la parola indica anche qualcosa che è distinto (relegato) dalla quotidianità della vita di tutti i giorni. Può essere un luogo, un personaggio (sic!) o un evento della vita, ma è opportuno poterlo vivere – se uno vuole – con la valenza propria del “sacro”. Dissacratorio, semmai, può diventare l’appiattimento di ogni giorno uguale a sè stesso ed a tutti gli altri, ma questo lo si lasci a chi vuol vivere una vita “piatta” (se vuole) o “banale” (se lo desidera). Personalmente, ritengo che la bellezza della vita stia anche nell’eccezionalità di certi eventi, che appunto la rendono diversa, ed altrettanto appunto possono esser resti differenti (dunque distinti, quindi: sacri).
Non è che, per caso, anche noi atei cominciamo a soffrire per eccesso di “seghe mentali”?
Ed ho usato apposta quella espressione perché in uso, mi pare, tra i giovani cui io più non appartengo.
Io mi organizzo ciò che mi fa piacere…per esempio non rinuncio al pepe sulla minestra di fagioli con la cotica del maiale o il culetto del prosciutto. Non so se ciò sia un rito. Forse sì. Se sì non so più cosa sia un rito.
Si è giovani nel cervello non anagraficamente. 😆
seghe mentali.
anche questo sarebbe stato il mio commento.
E’ veramente uno strazio che le religioni impongono delle cose, uno sceglie di non esserlo e trova pure l’ateo – che mi sembra una altra religione se penso all’accanimento di questa organizzazione nel voler essere riconosciuta da certe istituzioni – Purytroppo constato che il libero pensiero è difficile da accettare. Qualche tempo fa uno spiritoso psicanalista stigmatizzò la scelta di Lucio Magri di ricorrere alla eutanasia in quanto la depressione è malattia curabilissima secondo lui. Vedi un pò che fra un pò dovrò giustificarmi perchè è poco razionale portare fiori sulla tomba di un amico morto. Quanto alla minestra di fagioli di
@Padovan
anche se è l’ora del croissant mi sta facendo svenire.
Non c’e’ assolutamente niente di nuovo in questo:
le ritualita “laiche” o pretese tali sono sempre esistite.
Basti pensare alle cerimonie militari,con alzabandiera,saluto sull’attenti e fanfare.
E sarebbe assurdo pretendere che non abbiano sempre una presa piu’ o meno notevole sulla maggior parte degli individui.
Infatti e’ tipico della natura umana il bisogno di aggrapparsi a qualcosa che trascenda l’individualita, e aquesto specialmente nei momenti
critici.
Con tutte le conseguenze postive e negative che e’ inutile ricordare.
Personalmente ho sempre trovato più “spiritualità” negli atei che nei credenti.
Forse perché l’ateo ha la voglia, la necessità di scoprire, conoscere, capire.
Fatto sta che per me, se da una parte è vero che esistono diversi “atei ultraortodossi” che fanno diventare l’ateismo stesso una sorta di religione, dall’altra parte credo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole come lo vuole (e concordo con il pensiero di Stefano). Non esiste il “giusto” e lo “sbagliato” in questo senso.
Anche i “riti” non sono una cosa sbagliata.
Se metto sempre il pepe (io no .. non mi piace 🙂 ..) sulla minestra, e mi piace, quello è un mio rito. E quindi?
E’ sta cavolo di religione, ma soprattutto la nostra ignavia, che oramai ha preso il sopravvento su tutta la nostra vita. Linguaggio compreso.
Buona serata.
“(…) teme che il “nuovo ateismo”, qualunque sia l’interpretazione del termine, si possa “fissare sull’etica ignorando l’estetica” e che “l’ateismo ultraortodosso inizi ad assomigliare esso stesso a una fede rigida e patriarcale”
La possibile deriva fideistica – a mio parere – è proprio riscontrabile nello stabilire criteri comportamentali generalizzabili in base a quali vivere il proprio ateismo. Discuterne, riferire e condividere esperienze, certamente utile… ma, ad esempio, ‘fissarsi sull’etica o sull’estetica’ credo debba essere una scelta esclusivamente personale.
Per quanto mi riguarda ogni rituale, quale che sia, religioso o laico, mi rimanda ad una qualche forma di culto il quale a sua volta mi rimanda alla pratica religiosa… rituale che ha posto in conflitto, nella Suzanne Moore, l’evento con il desiderio di essere una ‘vera atea’. Benissimo, certamente utile, riferire questa esperienza… ma i ‘timori’ che ha fatto sorgere in lei a mio parere non dovrebbero portare a parlare, sia pur per analogia, di ateismo ortodosso o eterodosso. Guarda caso concetti tipicamente religiosi…
Non si può che concordare. Esistono persone che sentono un bisogno ritualità comunitarie e in parte istituzionalizzata, altre che non hanno questa necessità. Sono semplicemente bisogni diversi, uno non è ne meglio ne peggio dell’altro.
Che ognuno celebri i propri momenti speciali come meglio crede, fintanto che non nuoce a nessuno.
Mi sembra assurdo assegnare patentini di “ateosità” in generale, su queste cose poi mi sembra si entri nell’assurdo.
non ho capito una sega
@ parolaio
Se ti riferisci a me.
Più che legittimo il tuo ‘non capire una sega’ (sarà perché non mi sono ancora abituato al linguaggio dei blog) … ma non ti viene il dubbio che invece qualcun altro potrebbe aver capito e magari forse non è poi tutta colpa mia (e mi permetto di associare anche Senjin, che evidentemente qualcosa ha capito)?
E se non hai capito nemmeno questo… cercherò di farmene una ragione.
.
E dov’è la novità?
Scusa, non volevo offenderti.
Quando dico che non capisco significa che, per quanto rilegga, non riesco a fare una sintesi del tuo pensiero.
E’ senza dubbio un mio limite, ma forse il commento ti può servire se pensi sia utile far partecipe del tuo pensiero anche persone di cultura o intelligenza limitate.
L’esigenza di ritualità secondo me ci appartiene come specie: è ritualità il modo di consumare i pasti, è ritualità la formalità nel presentarsi con un altro, è ritualità anche lo sport, è ritualità darsi il buongiorno la mattina.
In fondo, l’Uomo è animale abitudinario, e il rito e l’abitudine sono stretti parenti.
Sono le religioni che hanno ripreso e riadattato ai loro contenuti le tendenze rituali umane, non il contrario, giacchè una religione che non assorbe e sussume la dimensione del rito difficilmente produce una comunità coesa, giacchè è proprio attraverso i riti che la comunità si cementa e si conosce.
Dunque, che male c’è se un ateo ha dei riti? Cambia tutto se si crede che quei riti influenzino la realtà esterna, ma finchè ciò non avviene io direi che possiamo goderci serenamente le nostre ritualità.
L’esigenza di ritualità secondo me ci appartiene come specie: è ritualità il modo di consumare i pasti, è ritualità la formalità nel presentarsi con un altro, è ritualità anche lo sport, è ritualità darsi il buongiorno la mattina.
In fondo, l’Uomo è animale abitudinario, e il rito e l’abitudine sono stretti parenti.
Sono le religioni che hanno ripreso e riadattato ai loro contenuti le tendenze rituali umane, non il contrario, giacchè una religione che non assorbe e sussume la dimensione del rito difficilmente produce una comunità coesa, giacchè è proprio attraverso i riti che la comunità si cementa e si conosce.
Dunque, che male c’è se un ateo ha dei riti? Cambia tutto se si crede che quei riti influenzino la realtà esterna, ma finchè ciò non avviene io direi che possiamo goderci serenamente le nostre ritualità.
Infatti, quella che noi chiamiamo “ritualità” non è altro che la ncessità di formalizzare, strutturare le nostre interazioni verso i nostri simili, di creare un linguaggio comune (non solo a livello linguistico). Se non ci fosse tale liguaggio comune non riusciremmo a far funzionare le nostre società: è un rito anche l’apertura di un conto corrente, bisogna seguire dei passi ben definiti, usare certi termini e firmare su certi moduli e non su altri.
@ Ermete
Credo che come si saluta o come si mangia, l’abitudine insomma, possa essere chiamata rito in modo metaforico, rifacendosi in modo analogico ai riti intesi come procedure canonizzate. Qui si parla di riti in questo senso, mi pare. Non è la stessa cosa.
@ Stefano
Sì, Ste, quel che dici è vero e ne prendo volentieri atto, ma i riti formalizzati, parlo di quelli laici, non sono secondo me indipendenti dalla tendenza a ripetere.
Lo sport, a gusto mio e di tanti altri, sarebbe meno bello senza il rito, poi ufficializzato, del saluto dei giocatori al pubblico; il pasto sarebbe meno bello se le pietanze non fossero servite con l’ordine che c’è ma fossero buttate alla rinfusa; le parate civili e militari sono riti che servono a creare legami emotivi tra una comunità e l’esercito (o le istituzioni).
Va da sè -almeno sempre a mio modesto parere-che una forma mentis simile, tantopiù in situazioni di gruppo e di collettività, tende produrre riti formalizzati; va da sè che un fenomeno comunitario per eccellenza, ovvero la religione, non possa fare a meno della centralità del rito, ma dire che noi atei non dobbiamo avere riti perchè li ha la religione secondo me è errato perchè pone come causa fondante un aspetto che non lo è.
Poi il bello dei noi umani è che ci sono sempre delle diversità, e sicuramente esistono menti meno gregarie della mia che detestano i riti, anche quelli laici e civili. Beh, in questo caso penso che l’elemento di laicità centrale sia non obbligare mai nessuno, nemmeno attraverso il sottile stigma della comunità, a partecipare a riti ove non desideri farlo.
@Ermete, Stefano
Penso che sia chiara la differenza fra un gesto ripetuto nella vita quotidiana e un gesto o una serie di gesti e pratiche ripetuti in contesto esclusivamente religioso. Ora, c’è chi considera un rituale la rasatura giornaliera, il caffe dopo pranzo e così via.
Ma se ci spostiamo in ambito religioso, il culto assume ben altro significato, ne diventa parte essenziale. Durkheim, ad esempio, ha definito i riti come valori che prescrivono come ci si debba comportare in presenza di oggetti sacri. Sono modelli di comportamento nei confronti del sacro e del soprannaturale, che potrebbero anche non avere particolari significati religiosi. A casa mi faccio la doccia, in chiesa, l’acqua in testa ha ben altro significato.
Penso, quindi, che la distinzione sia fondamentela sul piano dei significati atribuibili ai gesti.
Adesso non saprei ripeterlo bene, ma Magnani ha definito a mio parere in modo molto esaustivo il gesto religione e di rito religioso nel suo libro Filosofia della Violenza. Specie in relazione, appunto, alla violenza e quindi alla morale (e viceversa: morale quindi violenza).
Bisognerebbe darci un’occhiata.
Cercherò 😉
Sì, certamente le religioni si appropriano del rito e gli attribuiscono spesso anche valenze oggettive, ma il rito in quanto tale – e qua si differenzia dai piccoli gesti del quotidiano di cui dicevate sopra (anche se entrambe figlie di una tendenza gregaria dell’animale-uomo) – si produce in un contesto collettivo e serve a cementare un gruppo. E’ proprio perchè ha bisogno fondamentale di cementare un gruppo che la religione attribuisce un’importanza esagerata al rito, dunque mi sembra che da parte vostra si sia data un po’ poca importanza alla fondazione e alla continuazione comunitaria che ha il rito, in tutte le forme sociali che la storia ha prodotto.
Non è un caso che le religioni protestanti del nord Europa, che si sviluppano in società che danno la centralità all’individuo, e che sono meno fondate sull’identità comunitaria dell’islam ma anche dello stesso cristianesimo in salsa cattolica e ortodossa, tendono a dare meno importanza ai riti.
Non è un caso, all’opposto che tutte le epopee fondanti delle civiltà laiche, che avevano bisogno di cementare una comunità, hanno dato grande importanza ai riti civili (vedi le rivoluzioni americana e francese, per non parlare del bolscevismo).
In sostanza, mentre il piccolo ripetersi di gesti del quotidiano rimane un riflesso semi inconscio e di poco interesse, la presenza dei riti in contesti in cui la comunità ha fortissima importanza rispetto al singolo ci fa capire che la presenza di riti -ovviamente privati dell’elemento centrale del sacro come dimensione esterna alla realtà, ma ancora forti del loro valore comunitario- non deve mai sembrare strana anche se la facciamo noi atei (nel senso alcuni di noi), sempre a condizione che non sia imposta.
@Ermete
Io parlo per me, non a nome dell’associazione 😉
Comunque, penso di poter concordare con te 🙂
Ah ah ah, Gmd, non so perchè mi è venuto di rivolgermi a te al plurale.
Forse era perchè, parlando di riti, ci stava un certo sussiego; o forse era l’ora tarda e qualche libagione serale. Chissà… 😉
@Ermete
😉
@gmd
Be’, trovato; in pratica il concetto prende come base Durkheim, da te citato: la differenza tra un rito comune e uno religioso, così come tra il dire “Credo che Gesù sia il Cristo figlio di Dio” e “Credo che Apocalypse Now sia uno dei migliori Viet-movie degli ultimi tempi” è fondamentalmente il sacro. Il sacro che ha un valore privativo, esige cioè un sacrificio; il sacrificio in quanto privazione può essere cruento, il più conosciuto, simbolico (come il privarsi di sostentamento), o di comprensione (il sacrificius intellecti); la privazione è essenzialmente il rinunciare che l’oggetto appartenga al proprio dominio di controllo, “questo mondo qua”, per cederlo al totalmente Altro, cioè al dominio magico, altero e in una certa misura violento.
Ciò detto, non penso che il rito, inteso come festa, se è questo quello che si intendeva, sia per forza di cose “sacro”. Casomai è il rafforzamento di un’abitudine.
FSMosconi
Non ho letto Durkheim ma è quello che cercavo di dire a John.
La chiesa usa la ritualità per spacciare il sacro.
Come un uovo di cioccolato senza la sorpresa, ma il prete
riesce a far credere che c’è.
@Mosconi
Si, ottima interpretazione anche questa, non c’è che dire. Poi, ovvio, una celebrazione scevra da questo aspetto (ovvero, in generale, il rapportarsi al sacro) non è minimamente assimilabile al rito religioso, per quanto non escluderei l’aspetto legante, come diceva Eermete.
@Diocleaziano
Ah, beh, hai presente la religione atomica di Asimov? 😉
La vita stessa è ritualità. Per questo è innanzitutto qualitativa in sè. Emergente arte, bellezza, ecc… E per chi lo desidera per sè anche sacralità.
“”ATEISMO ULTRAORTODOSSO “” ?? Che significa ? Che c’è chi nega l’ esistenza di Dio, in toto…..e chi solo un po’ ???
🙂
@ tommaso
🙂
Anche una conferenza stampa è un rito, al tavolo dove sono i microfoni sta quello che vuole dire qualcosa, di fronte ci sono quelli che vogliono sentire quello che ha da dire. Nulla di strano. Strano è quando qualcuno pensa di essere tramite tra i comuni mortali e una divinità di cui ha il monopolio, e con un ‘rituale’ omologato (dalla sua casta) condiziona coloro che assistono e accettano come sensato l’evento. Nel primo caso il rapporto interpersonale è corretto, nel secondo c’è la volontà di prevalere e subornare la volontà altrui.
Comincio a stufarmi di sentir dire che l’ateismo sia una fede: l’ateismo nega delle affermazioni indimostrate e non inventa nulla, un astronomo negherà sempre con gli stessi argomenti le affermazioni degli astrologi. Se teologi e astrologi vogliono ascoltare argomentazioni nuove, ebbene, inventino baIIe nuove…
@ Diocleziano
La più bella sull’ateismo come religione, a mio parere, è quella di Bill Maher:
L’ateismo è una religione come la castità è una posizione del Kamasutra 🙂
Dipende la signora cosa intende per rituale, se per rituale intende una festa per festeggiare il figlio che nasce non vedo incompatibilità con l’ateismo.
Se poi per rituale vuol dire che sente il bisogno di recitare una serie di formule, invocare la benedizione di qualche Forza positiva etc, be’ allora mi sembra che si tratti di neopaganesimo o panteismo il suo e non ateismo.
Poi non so io oltre che ateo sono materialista e a me i riti intesi in senso stretto piacciono poco. Per me c’è una profonda differenza tra rito e festa.
La ritualità non è un fenomeno solo religioso, questo è pacifico. Riguarda molti aspetti del vivere sociale, alcuni dei quali totalmente scollegati dalla dimensione religiosa, ai quali tantissimi atei aderiscono senza remore. Si pensi al mondo del calcio. Quanti sono gli atei che all’interno di uno stadio, subito prima della partita, assistono in silenzio, partecipi, alla vista dei calciatori schierati che stanno allineati e fieri sulle note dell’inno nazionale? E quella non è ritualità allo stato purissimo? E non coinvolge anche persone atee? Quindi direi che il problema della ritualità va trattato come problema a sé, non come problema religioso. Magari qualcuno di voi, ateo, considera ridicola (ed è libero di farlo) un’assemblea che sta attorno ad uno che versa dell’acqua sulla testa di un bambino, ma si sente partecipe alla scena dello stadio. Io, viceversa, considero seriamente la prima ipotesi, ma reputo del tutto ridicoloa e irrazionale ciò che avviene nello stadio.
Insomma, far coincidere la ritualità con la religiosità è fuorviante. La ritualità c’è da molte parti e coinvolge credenti e atei in modo molto simile, come mostrano gli esempi che ho proposto.
L’unica abitudine che da ateo ho quando guardo in TV una partita di calcio e bere una bottiglia di birra giacciata e imprecare contro il povero arbitro.
La differenza tra rito e rito è data dalle intenzioni di chi lo esegue; faccio due esempi molto simili nell’apparenza: un uomo infila la mano in un sacchetto e ne estrae un gettone numerato che poi mostra ai presenti; un altro uomo estrae da un calice un dischetto di cialda di farina e lo mostra ai presenti: il primo uomo sta giocando a tombola, il secondo avrebbe transustanziato la cialda nel corpo di un dio-uomo morto duemila anni fa. La tombola è reale, il gettone prima e dopo dell’estrazione non ha mutamenti; la transustanziazione non è reale e anche la cialda non ha avuto mutamenti. Il biscazziere è più reale del prete. Questo per dire che conta soprattutto l’oggettività del gesto. Non è che un rito, purchessia, dia vita agli dèi. Tu davvero trovi serietà in un tizio che pretende di togliere dal corpo di un neonato un ipotetico peccato commesso (forse) da altri? E trovi ridicolo e irrazionale partecipare emotivamente all’esecuzione dell’inno nazionale?… (Che suppongo eseguito solo in occasione delle partite della nazionale, dunque legittimamente).
No: io trovo ridicolo che una persona possa osservare (allo stadio o in tv) – senza rendersi conto di quanto sia assurdo e avere l’impulso di andarsene a fare altro -, undici miliardari dopati, allineati all’ascoltare una canzone non particolarmente bella di cui non sanno il senso, che per caso è diventata inno (provvisorio) della “nazione” anziché essere consegnata all’oblio.
Tutto qua. Se c’è qualcosa di razionale in tutto ciò…
”… di cui non sanno il senso…”
Allora figuriamoci quanto ne capiscano del senso dei gesti e delle parole pronunciate durante un battesimo. Ma soprattutto degli effetti asseriti… A me farebbe più senso osservare il prete, e cercare di capire se è davvero convinto di fare qualcosa che abbia reali effetti. Certo, in questo caso la razionalità non è un requisito necessario.
(Per inciso, non ho mai visto una sola partita di calcio, ma se dovessi scegliere, obtorto collo, tra un battesimo e una partita… )
Il disgusto per i sopravvalutati miliardari in mutande è bilanciato, per me, dal kitsch di certe cerimonie in ambienti pseudo romanici e costumi da sacerdoti etruschi.
Non posso che darti ragione: anche io sono terribilmente infastidito quando vedo quella grande maggioranza di riti religiosi compiuti da persone “ignoranti nel senso che ignorano”.
Dunque siamo abbastanza d’accordo: io infatti non intendevo giocare un ping pong sulle irrazionalità dei riti altrui, ma casomai proporre un esercizio di immedesimazione reciproca, dato che il mio atteggiamento ipercritico verso la ritualità del calcio è simmetrico a quello di tanti atei che partecipano con convinzione alle cerimonie dello sport.
(però mi sembra un po’ forzata la tua preferenza per i miliardari in pantaloncini al centro di giganti arene in cemento armato, rispetto a uomini in vestiti etruschi dentro cattedrali romaniche… io penso che, anche se fossi ateo, in base al solo fascino estetico, fra i due preferirei comunque il secondo scenario).
@John
Visto che è tardi, ti propongo il mio commento in risposta a Stefano ed Ermete. Penso che funzioni in risposta anche per le tue considerazioni. ‘Notte.
john,
non è male il paragone con il mondo dello sport, però è scorretta la proporzione, il calcio “miliardario” non è il battesimo di un nipote: la partita della nazionale andrebbe più correttamente paragonata a una GMG! Ovviamente il coinvolgimento emotivo di un grande evento è enorme, nel sentirsi parte di una grande massa che intona compatta lo stesso inno. Poi gioca il condizionamento, e si trova ridicolo l’altro rito, semplicemente perché si è abituati al proprio e non lo si percepisce più con occhio critico: i protestanti trovano ridicoli i paramenti cattolici che trovano ridicoli quelli ortodossi che trovano ridicoli quelli musulmani…..
Lo sport, calcio compreso, ha i suoi “riti” perché è una disciplina, con un protocollo di inizio partita, tipo stretta di mano tra avversari, anche nelle partitelle tra bambini. Le attività di gruppo che si danno un regolamento finiscono per avere dei rituali, però non so se un’abitudine consolidata all’interno di un’attività si possa definire rito: una cerimonia religiosa E’ un rito, una partita di calcio preceduta dall’ inno di rito non lo è.
Sandra:
accolgo pienamente il discorso sulle proporzioni: il battesimo del figlio dell’amico è una partita di terza categoria.
Relativamente alla ritualità del calcio (collegandomi un po’ alle conversazioni di gmd85, Ermete e altri), vorrei osservare che in tale contesto il “rito” non è solo ripetizione di gestualità, ma che vi è una vera e propria dimensione di sacralità, nell’atteggiamento dei tifosi.
Io spesso, se mi capita di sapere che c’è una partita della nazionale ai mondiali (che di per sé non seguo), tra me e me, spero che l’Italia perda, non per acredine, ma perché ritengo che non meriti successi un sistema corrotto, torbido e irrazionale come il calcio italiano. E se poi perde davvero, mi allieto per queste ragioni.
Beh, pensate che siano molti i contesti (al di fuori di una discussione con persone razionali come voi) in cui io possa liberamente esprimere questo punto di vista ed essere rispettato? (E pensate che, se lo dicessi in un bar con partita su megaschermo, non vi sarebbero tifosi atei fra coloro che non mi rispetterebbero?).
Questo per dire che anche il senso del sacro, o meglio, il diventare ciechi, sordi e arroganti di fronte a qualcosa che si ritiene sacro, non è affatto da ricondursi solo a persone credenti.
“quanto sia assurdo e avere l’impulso di andarsene a fare altro -, undici miliardari dopati” a parte che esistono pure patite di club, senza inno o altri riti, ma a me piace il calcio, l’inno e il riscaldamento è la parte che potrei saltare tranquillamente, come salto volentieri la cerimonia del battessimo per arrivare direttamente al rinfrescò!
bardhi:
io invece penso che l’inno sia solo l’atto di ingresso, ma che anche tutta la partita sia un rito.
Il tifoso, nel seguire la partita, comunque alimenta il sistema. Il calcio vive grazie al tifo, e ai soldi che provengono dai biglietti degli stadi, dai diritti tv (e purtroppo anche dalle nostre tasse, comprese le mie). Quindi penso che ogni tifoso che segue una partita sia connivente con un sistema macero e pesantemente arrogante quale è l’organizzazione del calcio, e gli da la legittimazione che poi porta a sottrarmi soldi, a costruire strade vicino agli stadi anziché nel percorso che mi porta al lavoro, a programmare in tv partite anziché seri programmi di informazione, a pagare miliardari-calciatori anziché giovani lavoratori.
Chi guarda una partita senza indignarsi e cambiare canale sta partecipando ad una messa di questa religione, e va a costituire la base su cui essa è legittimata. Ragioniamoci insieme, ma non credo di sbagliarmi in ciò.
Anch’io spero che l’Italia perda, perché riesco a addormentarmi quando voglio e non devo aspettare la fine di caroselli e clacsonate varie… 🙂
“non meriti successi un sistema corrotto, torbido e irrazionale come il calcio italiano.”
O come la Chiesa cattolica, dal mio punto di vista. D’altra parte posso testimoniare che ci sono tante brave persone nel mondo del calcio dilettantistico che dedicano il proprio tempo libero allo sport giovanile…. Dove c’è tanto potere c’è corruzione, e nel calcio, non solo italiano (tipo la scelta di Dubai per i mondiali), girano tanti tanti soldi ormai. Se però un tifoso non è in grado di accettare un discorso motivato sulla evidente corruzione del sistema, poco importa che sia ateo: di fatto ha la sua religione, con tutti i tabù e i dogmi del caso: un fanatico, del calcio o altro, ha un suo oggetto di culto. Di fanatici del genere, atei o credenti, non ne conosco personalmente. Ho solo un flash di quando il Napoli vinse lo scudetto, e delle scritte sul cimitero “cosa vi siete persi”: non credo che fossero atei quelli che pensavano che i morti potessero leggere!
John,
e così?
“La Chiesa vive grazie alla fede, e ai soldi che provengono dai fedeli, dai diritti tv (e purtroppo anche dalle nostre tasse, comprese le mie). Quindi penso che ogni fedele che segue una messa sia connivente con un sistema macero e pesantemente arrogante quale è l’organizzazione della Chiesa, e gli da la legittimazione che poi porta a sottrarmi soldi, a costruire strade vicino agli stadi anziché nel percorso che mi porta al lavoro, a programmare in tv messe anziché seri programmi di informazione, a pagare miliardari-cardinali e vescovi anziché giovani lavoratori.”
La differenza, non sottile, è che il calcio, la tv il cinema, sono intrattenimento, sono spettacoli: se fatti bene, hanno pubblico, vendono biglietti, abbonamenti, gadgets, e via andare. Sono pagati in proporzione al giro d’affari che creano. E anche ai posti di lavoro che creano, qualcuno li produrrà e li venderà i gadgets, no? Non hanno pretese di superiorità morali. E gli allenatori che non sono capaci di ottenere i risultati che vogliono i tifosi vengono licenziati. Non trasferiti di nascosto.
Sandra,
ovviamente quando ho scritto quella frase stavo volutamente traslando nel mondo del calcio le accuse che voi rivolgete alla chiesa, quindi la sostituzione “chiesa-calcio” l’avevo già operata io mentre scrivevo.
D’altra parte io sostengo tranquillamente che sono contrario a trasmissioni religiose in tv, che cambio subito canale se c’è “a sua immagine”, che preferisco che in chiesa ci vadano solo pochi intimi, e che l’uso distorto del denaro in ambienti ecclesiastici sia da condannare.
Infine: il tuo ragionamento finale è troppo semplice se ha come premessa quel “se fatti bene”. Mi sembra una frase che salva con troppa facilità il sistema torbido e compromesso del calcio. Secondo te il campionato di serie A italaiano, a giudicare da quelle tue ultime considerazioni con cui cerchi di salvarlo, è “fatto bene”?
In definitiva, io condanno sia la corruzione nella chiesa che la corruzione nel calcio. Tu, con quella tua difesa finale, condanni la prima ma salvi la seconda, che secondo me non è certo meglio della prima… quindi forse sei un po’ più religiosa di me.
Mi sembra che tu stia sbandando un po’ qua e un po’ là sul fatto del ‘rito’. Sempre restando nella metafora calcio-battesimo, faccio notare che, mentre una partita di calcio può anche essere manipolata così come può essere assolutamente corretta, invece un battesimo è sempre basato su false premesse, il rito, la ripetizione di gesti e parole ormai cristallizzati nulla hanno a che fare con la potenzialità dell’atto: la forma non È la sostanza. C’è pur sempre una certa differenza tra ascoltare un brano musicale e poterlo criticare, e assistere a un sortilegio a cui si deve credere dogmaticamente.
Forse il problema si porrà quel giorno in cui in un incontro laico diventato tradizionale, cioè ‘rituale’, si vorrà far credere che stia succedendo qualcosa di sovrannaturale; per adesso non facciamoci problemi, soprattutto se… segue rinfresco!
Diocleziano,
non sto sbandando: il discorso si sviluppa e assume diverse articolazioni. E quindi hai ragione sul fare ordine, e distinguere tra la dimensione fisioligica del rito e quella patologica (la corruzione del sistema), per quanto esse siano legate.
Quindi va bene, mettiamo da parte la seconda e sofermiamoci sulla prima.
Mi sento di replicare su un punto:
tu metti sullo stesso piano i concetti di “rituale”, “spirituale”, “sovrannaturale”, “magico” (parli di “sortilegio”).
L’ultima dimensione la escludo: un sortilegio, una magia, è un qualcosa che agisce sul mondo materiale… il battesimo sarebbe un sortilegio se si pensasse che guarisce il bambino dal raffreddore, che gli cambia il colore dei capelli o che gli permette di stare sospeso a mezz’aria. Invece non è così: l’atto materiale è simbolo di qualcosa che ha che fare con la sfera spirituale (a cui si può credere o non credere), senza sortilegi o magie su quella materiale-fisica-fattuale. Ogni credente serio sa che materialmente c’è un versamento di H2O sulla testa del bambino e niente di più.
Invece, sicuramente nel battesimo c’è la sacralità, che però c’è anche nei riti non-religiosi di cui parlavo, e coincide proprio con il fatto di non “poterlo criticare” (cito te) . Torniamo all’esempio di me che entro in un bar con il megaschermo ed esulto ad ogni goal dell’avversario… non so quale sarebbe la fine che farei… anche lì c’è dogmatismo, c’è l’assunto di base che una posizione sia quella giusta, almeno nel gruppo sociale che segue il rito.
Infine: che cosa vuol dire che al battesimo “si deve credere”? Se fosse così, tutti voi ci credereste perché obbligati da qualcosa o qualcuno, invece non è così. Mi pare che ad un battesimo chi vuole, ci crede, chi non vuole (come voi) non ci crede… tutto il contrario del “dover credere”.
“il calcio, la tv il cinema, sono intrattenimento, sono spettacoli: se fatti bene,”
Mi riferivo al calcio italiano con “fatti bene”? Non direi.
qualunque sistema con molto potere e molto denaro è quasi per definizione soggetto a, diciamo, compromessi. Ma il calcio è spettacolo, come il cinema, e non hanno pretese di moralità. (Guarda, per me è spettacolo e occasione sociale anche la Chiesa) Devono rispondere soprattutto a criteri di gradimento del pubblico, “fatti bene” si riferiva alla qualità degli spettacoli in generale: non è che non mi gusto più un film perché non magari mi piacciono i criteri di selezione, e il mondo dello spettacolo è duro e falso. Mi guardo il mio film e basta. Mi leggo il mio libro anche se so che nel mondo dell’editoria non sono tutte verginelle.
Tu hai condannato la corruzione del calcio italiano, chiamando complici gli spettatori, e va bene. Hai fatto lo stesso per i fedeli cattolici che vanno a messa? Non mi sembra.
L’uso del denaro è sempre distorto in situazione di monopolio e di assenza di controllo. La Chiesa cattolica è sempre stata corrotta e sempre lo sarà, ma a differenza del mondo del calcio continuerà a chiamare se stessa santa. I calciatori corrotti non hanno uno Stato dove correre a nascondersi per un processo “canonico”. E questa è una bella differenza, e non mi sembra che ci siano state grandi proteste da parte degli spettatori cattolici.
Sandra,
scusami, con un po’ di ritardo rispondo alle tue domande con una replica di chiusura:
«Tu hai condannato la corruzione del calcio italiano, chiamando complici gli spettatori, e va bene. Hai fatto lo stesso per i fedeli cattolici che vanno a messa? Non mi sembra».
È vero, non lo faccio. Perché io non vedo la chiesa come realtà monolitica interamente corrotta ove sono tutti conniventi. Qui arriviamo al punto in cui la mia visione differisce radicalmente dalla vostra.
Nel caso del calcio di serie A, credo che non vi sia oggettivamente nulla di buono:
Lo sport dovrebbe avere come scopo quello di migliorare i propri parametri corporei attraverso l’esercizio fisico, ed è oggettivo che questo non lo compia né il tifoso seduto in poltrona, né il miliardario-calciatore che ottiene le proprie prestazioni grazie al doping.
La religione dovrebbe avere come scopo per aiutare i più deboli a star meglio, e questo, che lo si voglia o no, magari in modo imperfetto, avviene, perché le mense per i poveri, le case-famiglia per i minori, le comunità per tossicodipendenti, la semplice condotta di persone sconosciuteche vivono mettendo in primo piano il bene altrui, sono realtà autentiche. E dicendo questo non voglio né dire che la chiesa abbia il monopolio di ciò, né giustificare nulla della componente degenere e corrotta della chiesa.
Nel vi è una dimensione positiva che confligge e combatte, all’interno, con una dimensione negativa.
«La Chiesa cattolica è sempre stata corrotta e sempre lo sarà»
No: non è “la chiesa cattolica” ad essere corrotta, ma è una sua parte. Identificare la chiesa con la sua parte più degenere e corrotta è esattamente come identificare la popolazione di un Paese con la sua parte più degenere e corrotta. Se parlate di “maggioranza” ci sto anche io, e davvero allora il mio pensiero arriva a differire pochissimo dal vostro, ma vedo che continuate a dire “la chiesa cattolica” senza alcun distinguo di alcun genere, e allora non ho problemi ad affermare con convinzione che, secondo me, tale approccio in questo caso è sbagliato.
“Secondo me”: non intendo convincere nessuno a pensarla come me, casomai mi sforzo di capire dove posso sbagliare io.
(la parte in corsivo è data da un tag di chiusura sbagliato… purtroppo non c’è l’anteprima sui commenti).
Prima di essere Società eravamo Tribù e prima di essere Tribù, io ne sono convinto, eravamo Branco.
Le Società moderne soffrono di alienazione. Viviamo dentro a scatole chiamate stanze che sono, a loro volta, dentro a scatoloni chiamati appartamenti o case. Ci muoviamo dentro a scatole con le ruote chiamate automobili.
Abbiamo il problema dei giovani, il problema degli anziani e il problema dell’infanzia.
Rischiamo di sentirci per categorie e, inevitabilmente, di provare un qualche senso di solitudine anche quando siamo insieme in tanti.
Certo, questi problemi vengono molto meno sentiti nei piccoli paesi e nelle piccole città, tutti conoscono tutti.
Pensate un pò a quando si era tribù … tutti insieme appassionatamente!
Se poi si faceva parte di una tribù nomade … un campeggio globale.
La ritualità deriva dalla nostra origine tribale, dalla necessità non solo di condivisione ma di consolidare l’identità del gruppo attraverso gesti ripetuti che connotavono le abitudini della tribù specifica e che davano ad ogni individuo un senso di sicurezza e protezione.
Servivano a perpetuare la tradizione.
Non vedo nessun problema nel voler individuare dei gesti da ripetere nelle occasioni in cui ci si ritrova come gruppo, qualsiasi gruppo e così dare una maggior identità a quel specifico gruppo.
Specialmente nelle occasioni importanti della vita: la nascita, la morte, oppure quando due individui dichiarano e chiedono al gruppo di sancire la loro convivenza, come dire “non stiamo scherzando!”
Alienazione? Ma BENEDICIAMOLA allora!!
Questa società alienata è l’unica che di un valore all’individuo, a differenza dei clan\famiglie di una volta nella quale l’unico valore di una persona era la sua sfruttabilità. Quandi si facevano 10 figli per avere braccia da mandare a zappar nei campi, senza nessuna prospettiva di migliorare la propri condizione.
Il ragionare per tribalismi che tutt’oggi perdura è una delle principali fonti di violenza, sia esso di tipo etnico (vegli scontri in africa) o religioso. Per non parlare delle giustificazioni che fornisce all’abuso di donne e bambini
sarà… ma io tutto sto bisogno di “rituali” e di “tradizione” non lo sento…
semmai di festeggiare la nascita del bambino, quello si! Ma mi darebbe fastidio farlo sempre allo stesso modo, diventando appunto un rituale tradizionale… mi piacerebbe di più farlo ogni volta in modo diverso, o come viene meglio… o come ci pare!
Non è che magari lo stiamo scambiando per il bisogno che hanno GLI ALTRI di inquadrare anche gli atei, o gli anticonformisti, o gli anti-tradizionalisti, in qualche schema preconfezionato?
Credo che tu ci abbia preso.
@Kundalini
Intendi dire un effetto di adattamento all'”etichettamento”?
Non lo escluderei.
D’altronde chi vuol far riti (sapendo di farli) son affaracci suoi…
Ma questo è proprio, esattamente, lo spirito delle cerimonie laiche!
Una cerimonia laica ha il grande merito, anzi vantaggio, rispetto alla sua analoga religiosa, di essere preparata con ampia partecipazione del committente, o dei committenti, i quali scelgono le musiche, la scaletta, eventuali interventi, e così via. Tutto diverso da un prete che dice sempre le stesse cose con aria assente.
Ad esempio, si può scegliere un pezzo di Vivaldi, o dei Led Zeppelin. Far recitare una poesia di Leopardi, o un pezzo di prosa scritto da un filosofo. Il tutto con il consiglio del celebrante laico. La BHA in Gran Bretagna effettua dozzine di cerimonie: e se si guarda nel sito, si trova addirittura una cartina con segnate le locazioni dei loro celebranti.
https://humanism.org.uk/
Insomma, secondo me, parlare di “rituale” è completamente riduttivo, ed equivocabile (lo vedo dai molti interventi qui).
Queste cerimonie sono qualcosa di ben più vasto, profondo, ed emozionante allo stesso tempo. Io ne ho viste alcune, e ve lo posso assicurare. Perfino parte del pubblico, alla fine, risulta molto soddisfatto e sorpreso. Anche credenti. Io stesso ho fatto un intervento, in chiesa, per la morte di un caro amico di mio padre (dopo aver chiesto al prete). Un intervento preparato e studiato con attenzione in precedenza, con impronta totalmente aconfessionale e laica. Beh, che ci crediate o no, la figlia del defunto, in lacrime, ha abbracciato me, non il prete. E io avevo un nodo in gola.
” mi piacerebbe di più farlo ogni volta in modo diverso, o come viene meglio… o come ci pare!
Ma questo è proprio, esattamente, lo spirito delle cerimonie laiche!
”
E’ anche lo spirito (e lo stile) delle donne libere. 🙂
I riti servivano a consolidare lo spirito del clan nelle società primitive e perpetuarli altro non è che restare ancorati a schemi vecchi e coercitivi. Che poi le debolezze umane, psicologiche in questo caso, vadano supportate da schemi o formule o timbri o celebrazioni o candeline sulla torta o altre amenità trogloditiche è il più delle volte solo ridicolo.
O forse è solo troppo poco il tempo trascorso da quando abbiamo assunto la posizione eretta.
Vedendo bene la discussione, capisco che l’argomento di cui discutevo sopra è un po’ riduttivo rispetto a fenomeni come matrimoni civili o simili ma riguardano più un altro aspetto, che riguarda la società civile.
Praticamente mi stavo domandando questo: è strano che un ateo si emozioni alla parata militare o a quella della croce rossa, o davanti all’inno della propria squadra che viene cantato all’inizio di una partita, con una ritualità puntuale da orologio svizzero? 🙂
Per me no, perchè rimane parte dell’istinto animale più profondo, e finchè viene vissuto con l’emozione del momento, senza che divenga una fissazione per me rimane sempre un modo di cementare gruppo (a parte le parate militari, che non mi piacciono granchè, ma alla commemorazione del 25 aprile ancora talvolta un po’ mi commuovo, ma quello soprattutto per una serie di motivi umani e familiari).
Se avessi bisogno di rituali, pubblici e collettivi, allora diventerei pastafariano o mi darei alla religione gedj.
Certo che comunque non sarebbe male avere agenzie che organizzino riti matrimoniali (o comunque di unione di coppia) o funebri su base areligiosa, questo aiuterebbe col tempo il consolidarsi di una ritualizzasione civile non più religiosamente connotate, ma darebbe comunque modo alle persone di vivere quella consocialità che certi eventi della vita per molti di noi richiedono, non dimentichiamo di essere esseri sociali, con quindi il bisogno di condividere con gli altri le nostre gioie e i nostri dolori.
Proprio l’inizio della riflessione di questa Susanna è stupefacente: “Nel far ciò, ha scoperto che il proprio desiderio per una forma di rituale che solennizzasse l’evento entrava in conflitto con il desiderio di essere una “buona atea”.
Ora, se è naturale e anche doveroso per un credente chiedersi cosa fare per essere un buon credente, per un ateo questa domanda è incomprensibile, ai miei occhi almeno.
Data la mia ignoranza e incapacità di analisi profonde, ribadisco semplicisticamente che anche per me queste sono davvero seghe mentali, tipiche probabilmente di chi ha anche tempo da perdere e, forse forse, nascondono un complesso di inferiorità mai risolto da parte di certi atei rispetto ai credenti; infatti a volte sembra che gli atei per primi, certi atei, abbiano una considerazione di sè quasi come subumani.
CHE BISOGNO c’è di scrivere “Abbiamo la necessità di creare uno spazio al di fuori della vita quotidiana …… la delimitazione di spazi o momenti speciali non è esclusivamente una prerogativa dei religiosi. Possiamo vivere senza Dio. Possiamo considerare inattendibile e inconsistente il pensiero new age che enfatizza la “natura” e lo “spirito”, ma considerare stupido il bisogno umano di esprimere trascendenza e condivisione con altri è a sua volta stupido” ? E’ NATURALE, pacifico, ovvio, dunque porsi la questione e star lì a scervellarsi è assurdo.
Molti atei secondo me non vivono serenamente il loro ateismo e si perdono anche in queste riflessioni inutili e abbastanza ridicole: ho festeggiato la nascita di un mio figlio, ho organizzato una cerimonia allo scopo, oh mamma mia cosa ho fatto, sarò una buona atea?
Di questo passo allora un ateo dovrebbe domandarsi se è lecito l’affetto, il sesso, l’allegria…
Penso che il miglior modo di porsi dell’ateo sia quello di mostrare, con leggera ironia e gentilezza, che comportamenti morali e civili sono prerogativa di tutti, anche di chi non crede ad alcuna divinità.
Per questo ad esempio non concepisco nemmeno il bisogno di una campagna come quella del “viviamo bene senza Dio”.
anzi, di questo passo, sono tante le domande che un ateo dovrebbe porsi con angoscia:
– sono uscito a cena con un amico cattolico praticante, sarò un buon ateo?
– ho partecipato a un matrimonio religioso e ho pure messo piede (solo per pochi minuti eh) in chiesa, sarò un ateo degno?
– ho letto l’Avvenire, cosa mi succederà?
– sono di destra, sarò un bravo ateo?
– mi piacciono i film di Vanzina, lapidatemi!
e via dicendo ………….
Be’, in effetti, sui Vanzina… 🙂
Su, non essere così acerba Engy, forse la Susanna è un tipo impressionabile e si esprime con tono emotivo, forse era ferventemente credente e ora si sente in colpa a ogni piè sospinto per un nonnulla…
Come dicevo qui sopra, l’importante è non dare al rito pretese di interventi soprannaturali, poi chiamali se vuoi happening… rinfreschi… happy hour… 😉
Praticamente, non riesci a capire che il dubbio è riferito a quelle forme di ritualità che ho descritto a Ermete poco più sopra. Personalmente, non mi pongo di questi dubbi.
La campagna ha ben altro significato, non so neanche se valga la pena ripetertelo.
guarda, gmd85, io non ti ho nemmeno letto.
E no, non ne vale la pena, so’ dde coccio so’!
😉
E ce ne siamo accorti.
Diocleziano, mi piace sempre molto l’uso della parola italiana che riesci a fare: “acerba”, bello, così come bello il termine “surrettizio” che una volta hai tirato fuori.
Non che siano termini così astrusi, però sono poco utilizzati (credo).
E va bene, sarò meno acerba.
(a proposito dei riti) Tu chiamale se vuoi ….. Emozioniiiii
E ti devo dare una notizia, perchè sono una ragazza sincera: @fab mi sta diventando simpatico quasi quanto te 😆
Uhm… prima bisogna capire se non si è già passati di maturazione 😆
Engy
Mi vuoi ingelosire? 😉
gmd85
Non strapazzarmi la Engy, eh!
@gmd85
🙂
@Diocleziano: ma tu 6 sempre ze best 🙂 🙂
Leggo tanti commenti che tendono a minimizzare il dubbio della Moore, ma a mio modesto parere sottovalutano leggermente il problema.
Tutti + o – d’accordo sul bisogno dell’uomo di ritualità, ma la ritualità di solito è per la condivisione, la condivisione prevede un gruppo, il gruppo che condivide un rito di solito implica un’etica comune o dei valori di riferimento.
Non è una religione, ovvio, ma qualcosa che qui ho spesso sentito cassare in nome della priorità dell’individuo sul gruppo.
In molto paesi i non credenti si definiscono Freidenker o Freethinkers, cioè liberi pensatori. Il libero pensiero porta inevitabilmente ad avere visioni ed esigenze differenti. In Germania si faceva notare come a fronte di quasi un 40 % di persone non aderenti ad una religione, valore in continuo aumento, il più grande gruppo umanista contava solo poco più di 20 mila iscritti. Si evidenziava come questa sia una caratteristica degli atei, cioè di non sentire l’esigenza di appartenere ad un gruppo, nè di avere posizioni comuni e omologate.
L’esigenza della Moore è sua e di alcuni non credenti, così come uno può sentire la necessità di una festa, che però non ha rituali standardizzati come per le religioni, ma individualizzati.
La ritualità non presuppone affatto una condivisione; soltanto la ritualità cristiana lo fa. Chiunque di noi compie gesti rituali indipendentemente dagli altri, come (invento) aprire la porta prima di infilarsi le scarpe per uscire o riempire il bicchiere d’acqua prima di spezzare il pane. Questo è dovuto semplicemente al fatto che, mentre le api fanno il miele e i ragni fanno la tela, noi facciamo le regole.
Infatti ho scritto ‘di solito’ .
Ma se la ritualità simboleggia qualcosa, è evidente che chi simboleggia cerca di comunicare, e quindi di interagire con altri.
Aprire la porta prima di uscire non porta con se nessun simbolo. In generale le regole non rimandano a simboli. I riti invece si, quasi sempre.
Aprire la porta per uscire più che altro è una necessità… 🙂
Immagino che anche aprire la porta prima di mettersi le scarpe, pur non essendo un gesto sociale, rimandi a qualche genere di simbolo inconscio.
Personalmente, sono convinto che i simboli siano semplicemente le “cose” che stanno nei miti: un mito coinvolge una quercia e un cavallo? La quercia e il cavallo sono simboli per chi dà valore a quel mito. Ma i miti possono benissimo essere personali; diventano sociali soltanto se vengono comunicati; e quanti miti che ci siamo fabbricati non abbiamo il coraggio di comunicare agli altri, che ci prenderebbero per “strani”…
i riti cristiani servono per lo più da ansiolitico, servono per placare l’angoscia del credente di tutti le volte che ha infranto le regole del buon credente.
Comunque è vero che non ha senso chiedersi se si è “buona atea”, semmai una si può chiedere “sono veramente ateo?” se ogni due per tre mi ritrovo sempre a credere se dio esiste, o cerco continuamente la compiacenza di qualche credente, veti tipo gli atei devoti, o uno che sente il bisogno di confrontarsi col Papa in un imbarazzante scambio dialettico in cui alla fine sembra uno in cerca di dio, piuttosto di uno che banalmente se ne infisca dell’esistenza di un dio.