Un bel giorno una giornalista opinionista del Washington Post, Karen Attiah, diffonde la fake news secondo cui la Francia vorrebbe schedare gli alunni musulmani. «I francesi non bianchi suonano l’allarme per Macron da anni», ha dichiarato allarmata in un tweet poi rimosso, «ma i media mondiali vogliono consacrarlo come un santo centrista, la persona che ha salvato la Francia da Marine Le Pen. Adesso vuole dare dei numeri identificativi ai bambini musulmani per andare a scuola». Cosa è successo in realtà? I gendarmi francesi hanno rastrellato i bambini musulmani nel Velodromo d’Inverno? Niente di tutto questo. Ma tanta foga è bastata a spingere le istituzioni francesi a rispondere chiarendo che il progetto, corollario della legge contro il separatismo, è quello di facilitare l’identificazione di tutti gli alunni. A prescindere dalla religione, per arginare la dispersione scolastica e intervenire sulle famiglie negligenti. Non contenta, Attiah ha avuto il coraggio di aggiungere nella “rettifica” che «è sciocco ignorare la probabilità con cui questa norma creerà un clima in cui i musulmani soffriranno in maniera ancora più sproporzionata».
Una piccola storia indice dello sbrigativo e barricadiero giornalismo ai tempi dei social: ennesimo frutto malato di quella narrazione che dipinge la Francia come uno stato “islamofobo” e “razzista”, intrinsecamente discriminatorio verso i musulmani, alimentata in maniera pregiudiziale ormai dai mass media e dagli opinionisti di cultura anglosassone. E che fa da contraltare, sul versante pseudo “progressista”, all’aspra campagna di odio e boicottaggio montata ad arte dagli stati islamici fondamentalisti, che ripete il falso mantra secondo cui i musulmani oggi in Francia sarebbero trattati come gli ebrei sotto il nazismo. La questione del numero identificativo per gli alunni è suggestiva per chi vede una persecuzione istituzionale sistemica in Francia: numeri, come quello che i nazisti tatuavano sulle braccia degli ebrei internati nei campi di sterminio.
È bene inquadrare il contesto per capire come si sia arrivati a questa diatriba. Nelle scorse settimane, le vignette di Charlie Hebdo sull’islam sono state ripubblicate dalla stessa rivista come gesto simbolico in occasione del processo per la strage che nel 2015 ha colpito la redazione. Per tutta risposta, è montata la protesta diplomatica di diversi paesi musulmani e i fondamentalisti si sono scatenati. Un fanatico ha accoltellato alcune persone di fronte alla vecchia sede di Charlie Hebdo per lavare l’onta. Un altro giovane estremista, aizzato da personaggi noti, ha decapitato Samuel Paty, un professore che aveva avuto l’ardire di mostrare quelle vignette durante una lezione sulla libertà di espressione. Qualche giorno dopo uno sbandato estremista ha ucciso alcune persone nella basilica di Nizza. Intanto il presidente Emmanuel Macron ha lanciato la sua lotta al “separatismo islamista”, suscitando le ire dei paesi musulmani integralisti capeggiati dal turco Erdogan, che l’hanno accusato di difendere la libertà di satira e di vessare i musulmani.
Questo il quadro. Ma in tutto questo marasma che ha subissato la Francia i media anglosassoni, mentre edulcoravano fatti gravi come l’assassinio di Paty, alludevano al victim blaming: insomma, i francesi e Charlie Hebdo con la loro odiosa laicità se l’erano cercata. Tanto che lo stesso Macron e il portavoce del governo Gabriel Attal erano intervenuti per rispondere ad alcune famose testate in merito ad alcuni articoli imbarazzanti, alcuni dei quali – come quello del sociologo Farhad Khosrokhavar su Politico – poi ritirati. L’antipatico interventismo francese sui giornali come il piglio dirigista che sa di censura possono essere contestati, come fa il filosofo Kenan Malik, ma con argomenti seri. Meno titolati a farlo paiono personaggi legati agli apparati islamici. Basti dire che Khosrokhavar – come chi ne ha preso le difese – figura nella fondazione di un principe del Marocco. Reputato moderato, fa parte di una linea regnante che si fregia del titolo di “comandante dei credenti”.
Persino dal Pakistan la ministra per i diritti umani Shireen Mazari ha ripetuto la farneticante accusa “nazista” con la variante sui bambini nei confronti della Francia. Venuto fuori che era un fake dopo le proteste francesi, ha cancellato il tweet. Ma anche in questo caso ormai la pietra è lanciata e compone l’ennesimo tassello della campagna di odio orchestrata contro la Francia laica. Infatti il governo pakistano, assecondando le pressioni di migliaia di manifestanti integralisti scesi in piazza, ha ufficializzato il boicottaggio commerciale contro i prodotti francesi e l’espulsione dell’ambasciatore. Stiamo parlando dello stesso paese dove predomina l’islamismo politico che discrimina sistematicamente chi musulmano non è, il potere è connivente o succube rispetto agli estremisti violenti, i diritti e le libertà (come quella di espressione) sono molto limitati, la mafia islamista ha campo libero fino a gambizzare e uccidere senza che le istituzioni intervengano mentre vengono invece condannati a morte dalla giustizia gli apostati dall’islam e chi “offende” la religione. Si veda, tra i tantissimi, il caso della cristiana Asia Bibi, fortunatamente assolta ma solo dopo un lunghissimo processo e una campagna internazionale, per anni nel braccio della morte.
Di fronte alla portata della discriminazione sistemica in Pakistan e paesi di simile impostazione verso categorie come i non musulmani o le donne, qualcuno si ferma al dato cosmetico di avere un ministro donna, come in questo caso. Ma la libertà e la democrazia di un paese non si misurano dalla mera presenza di donne privilegiate in posti autorevoli. Mazari, formatasi in prestigiose università inglesi e americane, senza velo e con tinta ai capelli, è la classica foglia di fico. I paesi musulmani hanno tantissime donne affermate con incarichi istituzionali o accademici. Basta adeguarsi al confessionalismo o esserne complici, come si fantastica ne Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood o come avvenuto davvero con la Rivoluzione iraniana (cui quel libro in parte si ispira). Fare gare su questo terreno con i paesi occidentali significa guardare al dito delle “quote” mentre si ignora la luna del confessionalismo che in modi diversi schiaccia uomini, donne e persone lgbt.
Ora, è vero che in Francia ci sono annosi problemi relativi al razzismo frutto anche del tragico passato coloniale. Così vero che l’ha ammesso persino il vituperato presidente Macron. Gli abusi e la brutalità della polizia d’Oltralpe sono noti, il disagio sociale è vivo. Proprio per sospette minacce di morte a un direttore scolastico e apologia di terrorismo dopo il caso Paty alcuni dodicenni sono stati fermati. Anche qui è partita la grancassa indignata sugli “arresti di bambini”, ma la realtà appare un po’ diversa, per quanto faccia un certo effetto l’intervento delle forze dell’ordine con annesso trauma. Non si tratta di celebrare Macron, ma di confrontare criticamente i fatti e soppesarli. Diventa mistificatorio sostenere, accodandosi a una campagna fomentata da paesi molto meno titolati a discettare di diritti, che i musulmani in Francia siano vessati in quanto tali. Perché i musulmani sono liberi di professare il culto, hanno la possibilità (burocrazia permettendo) di costruire moschee, predicare la propria religione, sono tutelati dalle forze dell’ordine, gli atti di violenza o vandalismo nei loro confronti vengono sanzionati, le istituzioni hanno un rapporto consolidato con i rappresentanti religiosi, diverse forze politiche e organizzazioni ne difendono le istanze e si impegnano a sanare le ingiustizie in un quadro di pluralismo democratico. Proprio grazie a uno stato laico e democratico. Tutte cose che, a parti invertite, sono impensabili in paesi come il Pakistan.
La realtà è che le istituzioni in Francia hanno avuto il coraggio di ingaggiare una difficile – e pure ingrata – battaglia contro il montante islamismo politico, infiltrato e sostenuto in Occidente da grandi e ricchi potentati islamici, con la chiave della laicità. Senza accomodamenti fallimentari o chiusure d’occhi in stile multiculturalismo tanto amato dal mondo anglosassone. Dove la fanno da padrone ormai la tolleranza grottesca verso i ghetti identitari (e relative storture illiberali) e il tatto estremo per non passare da “razzisti” o “trumpiani”: due cardini di quello che oggi è diventato il “politicamente corretto”. Già, perché tra i motivi che spingono molti media americani e inglesi a non trattare certi argomenti, per loro stessa ammissione, è non fornire potenziali armi alle destre.
Una impostazione che si allontana sempre più dall’universalismo laico illuminista, secondo cui la stessa legge deve valere per tutti, senza privilegi per il fatto di adorare qualche divinità. Solo così si può sperare di arginare l’invadenza integralista, particolarmente deleteria per rapporti sociali, convivenza civile, scuola e diritti. Le prove sono proprio le discriminazioni spesso citate a sproposito in cui annegherebbe la Francia. Il divieto dei simboli religiosi in classe o di indossare il velo integrale in pubblico rappresentano una manciata di norme che riguardano aspetti marginali della fede, interessano poche persone e hanno avuto l’approvazione dei più alti gradi di giudizio. Opportuno e mai superfluo ricordare che indossare il velo non è un obbligo della dottrina islamica, ma è feticcio in stile virtue signalling abbracciato dalle frange più integraliste, tornato in auge negli ultimi decenni.
Per sgombrare il campo, è bene dirlo chiaro e forte: gli stati che trattano certe categorie di persone come gli ebrei sotto il nazismo non sono tanto quelli europei come la Francia ma piuttosto quelli islamici confessionalisti, come appunto il Pakistan. Su cui cala l’omertà di tanti benpensanti occidentali, pronti però ad agitare i forconi spuntati contro la laicité. I paesi che pretendono di fare la morale e lamentano persecuzioni “islamofobe” sono gli stessi paesi islamisti dove intere categorie di persone – come gli appartenenti a minoranze, gli apostati dall’islam e i non credenti, le persone lgbt – vengono discriminate, arrestate e persino condannate a morte per il solo fatto di essere tali.
Valentino Salvatore