GENOVA – Chi sale queste scale, prima o poi diventa qualcuno nella Chiesa. In una stanza ovattata dell’arcivescovado di Genova raccontano un episodio per capire chi sia, nel profondo, il nuovo presidente della Cei. «È in primis un genovese vero, riservato, di origini semplici; e poi non dimenticatelo, è il religioso che fu ordinato sacerdote da Giuseppe Siri in persona». Era il 20 giugno del ‘66, lo storico arcivescovo di Genova aveva 60 anni, Bagnasco 23. Siri l’aveva conosciuto sei anni prima, in una delle frequenti visite al Seminario in via Porta d’Archi, dove il giovane seminarista frequentava il liceo, già appassionandosi al “De anima”; e aveva imparato a volergli un bene particolare, ne apprezzava la misura, l’inclinazione allo studio, persino certa evidente timidezza; che vince però, ancora oggi, quando si ritrova coi suoi antichi amici scout.
Da allora molte cose sono cambiate, a Genova, tranne la timidezza di Bagnasco. La si vede anche adesso, alle sette e mezzo di sera, alla fine della messa celebrata in cattedrale con un po’ di raffreddore e naso chiuso, Pater noster in latino, nella quale ha ammonito i fedeli sui rischi di un «cristianesimo senza Cristo e di una religione senza Dio». Ora, assieme ai francescani che in questi giorni sono riuniti ad Arenzano, Bagnasco – che in giornata ha riletto i passi su Sorella Morte del Cantico delle Creature – si trattiene un po’. Affettuoso con tutti, ma con una ritrosia che per alcuni è anche autocontrollo; tutt’altro spirito rispetto all’inclinazione estroversa del suo predecessore, Tarcisio Bertone, che ha giocato un ruolo nella sua nomina alla Cei, ma anche rispetto al tratto talora veemente di Dionigi Tettamanzi, chiamato a succedere a Milano al cardinal Martini. Nessuno come Bagnasco, tuttavia, aveva di Siri quasi l’impronta fisica addosso; e come Siri resta «genovese», cioè continuerà a vivere nelle stanze al terzo piano della curia di piazza Matteotti. «Mi recherò a Roma una volta alla settimana, solo che qualche volta il segretario generale potrà venire a Genova», spiega il successore di Camillo Ruini, finita l’epoca dei viaggi in Iraq e Afghanistan in veste di ordinario militare delle truppe italiane. Si emoziona visibilmente alla domanda sull’Afghanistan e il giornalista italiano rapito. Ringrazia ovviamente chi l’ha preceduto: «Ruini resta fondamentale per la Chiesa». […]
Don Gianni Baget Bozzo, che di Siri fu allievo al liceo Doria, e conosce bene Bagnasco, analizza: «È ancora presto per capire quale significato avrà la sua nomina; in Tettamanzi a Milano tutti si aspettavano il progressista prosecutore della linea di Martini, invece lui si è mosso in autonomia. Però Tettamanzi è imprevedibile, Bagnasco lo è meno. Direi che dal punto di vista dottrinario sarà un ortodosso, della più pura linea-Siri, ispirata a una visione tradizionale del compito e del ruolo della Chiesa; dall’altra le sue posizioni politiche sono sempre state più defilate, perciò bisognerà aspettare. Bertone lo gradiva in quell’incarico, ciò può significare che con Bagnasco la Cei conserverà un filo diretto col Vaticano». […]
Insomma, tra la Tradizione genovese (Siri) e l’impronta sociale genovese (evocata da Tettamanzi), Bagnasco eredita i due puntelli simmetrici di questa autentica fabbrica di vescovi di prestigio che è la curia genovese. «Sono felice anche perché la città conferma di essere una fucina di leadership, nella politica come nella religione», sorride Marta Vincenzi, la candidata sindaco dell’Ulivo; che elogia l’«equilibrio» di Bagnasco, anche se si augura «che la laicità possa essere tenuta in gran conto da questo presidente della Cei». Di certo già l’intransigente Siri – Papa mancato per tre volte, dal ‘58 al ‘78 – sapeva come parlare col mondo dei non credenti. C’è un episodio che anche Stefano Zara, ex presidente degli industriali, ulivista cattolico, ottimo amico di Prodi, narra: «Bagnasco è un vero erede di Siri anche perché, come lui, è un uomo che sta dentro la vita genovese. Genova con Siri fu la prima città a creare la figura del cappellano del lavoro, il sacerdote di fabbrica che discuteva coi delegati della Fiom, che cercava un equilibrio tra i mondi. Siri era la dottrina, ma anche l’uomo del confronto coi camalli».
Accadde, è un ricordo di Giulio Andreotti, nel marzo dell’87, quando Siri andò a mediare nella crisi dell’industria genovese e, alla fine, disse: «L’Italsider doveva essere rasa al suolo. Il cantiere di Sestri doveva sparire. E ora tutto è salvo. Mi sono battuto per questo. So che Romano Prodi rimase colpito. Gli dissi che aveva ragione nelle sue scelte, ma a me importava che quelle fabbriche non fossero chiuse». Tradizionalismo e appunto capacità di dialogo e ascolto: anche stavolta – sui Dico, e non solo – c’è di nuovo Genova sulla strada del Professore.
Il testo integrale dell’articolo di Jacopo Iacobini è stato pubblicato sul sito de La Stampa