L’occasione è la celebrazione dell’«Anno europeo contro le discriminazioni», che cade nel 2007: usando la scadenza, il ministero italiano del Lavoro ieri ha presentato a Roma un «progetto» per «comprendere» e affrontare il «complesso fenomeno dei differenziali retributivi» fra uomini e donne, e il «persistere di discriminazioni di genere nella transizione al lavoro stabile». Va detto che la data del 2007, per l’Italia, segna un anniversario non glorioso: vi cade infatti il trentennale dell’entrata in vigore della legge sulla parità tra uomini e donne (l. 903 del 1977), seguita nel ’91 dalla legge 125 sulle pari opportunità e le «azioni positive» per rimuovere le «discriminazioni». Trent’anni, e stando ai dati forniti ieri sulla situazione attuale, pare siano passati invano nelle politiche istituzionali.
Non accenna esplicitamente al trentennale Rosi Rinaldi, sottosegretaria al Lavoro – che presenta il «progetto» assieme al ministro Cesare Damiano -, ma quando afferma che «bisogna andare oltre la retorica della parità», e definisce gli obiettivi, in primis «conoscere analisi e studi nei diversi paesi dell’Unione europea», e insieme raccogliere un «repertorio delle esperienze italiane», sembra abbastanza eloquente nel significare, indirettamente, che tutto è da rifare.
Oggi, è la situazione di fatto a confermarlo, nei dati forniti ieri in via Flavia. «Una donna su cinque fa un lavoro che richiede una formazione inferiore a quella di cui è in possesso». E sul punto Rosi Rinaldi segnala la necessità di «affrontare i paradossi» di una situazione in cui le donne risultano più acculturate, con un titolo di studio più elevato, spesso più competenti dei «colleghi uomini», eppure le loro retribuzioni nette sono inferiori in ogni tipologia di contratto: si va da una differenza di 3800 euro per il lavoro dipendente a tempo indeterminato, a oltre 10 mila euro nel lavoro qutonomo. E troppo spesso svolgono «professioni senqualifica». Riassumendo: gli uomini hanno in media redditi superioi alle donne del 23% nel lavoro dipendente; del 40% in quello autonomo, del 24% nelle collaborazioni. In particolare, nella zona ambigua dei «lavori parasubordinati» le donne sono la maggioranza, il 54%, e nella galassia del lavoro precario sono quelle più «intrappolate», con una permanenza doppia di quella maschile. Dal dato dell’intrappolamento in una precarietà duratura – imposizione rigida che contrasta con le scelte soggettive – discende che nei contratti di lavoro «atipici» c’è una minor possibilità femminile di accedere a «assunzioni stabili», ancorché desiderate, e, appunto, comunque, anche nel precariato, livelli retributivi più bassi.
Pare, dalla voce delle aziende, che uno dei «problemi» sia la maternità. I dati del ministero del Lavoro segnalano che «la nascita di un figlio toglie ancora oggi più di una donna su 10 dal mondo del lavoro»: il 40% delle donne che non lavora dichiara che lo fa «per prendersi cura dei figli» (soprattutto «nel nord, nelle classi centrali d’età e tra le meno istruite»); mentre il 35% è «scoraggiata» dall’assenza di «opportunità lavorative»: in particolare fra le donne più istruite, o che risiedono al sud. Altro capitolo, il reddito in tarda età: pensioni risibili per le donne. Ma il triste primato di troppe donne sotto la soglia di povertà (7 mila euro annui) comprende ogni stagione della vita, soprattutto per le single o «capofamiglia».
Rosi Rinaldi, rispondendo a più di una domanda, conferma che, certo, il ministero del Lavoro deve intervenire su un segmento di una realtà che si determina in un «nesso sociale» ben più complesso. Cesare Damiano sottolinea come nella finanziaria – compresi gli ultimi emendamenti in presentazione fra camera e senato – il lavoro esce come un «robusto pacchetto»: sulla maternità, così come per i periodi malattia, annuncia passi avanti per i «parasubordinati» (ma come saranno «esigibili» per i prestatori d’opera, senza cancellare la legge 30?; e per gli apprendisti. E segnala gli sgravi del 3% sull’imponibile Irap per le aziende che assumono «stabilmente», che arrivano al 12% per ogni «nuova assunzione femminile al sud». Il ministro nel suo discorso ritiene che i problemi riguardino «l’universo femminile». Ma di quale sia la «qualità» del lavoro interpellata per tutti, e il senso di che cosa si intenda per «sviluppo» – pure oggetto di tante riflessioni di pensiero e sapere di donne a livello globale – sembrano questioni di cui è ignaro.
Lei e lui nel lavoro, un rebus per la politica
2 commenti
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Se poi si aggiunge il fatto che alla donna è proibito fare lavori molto ben remunerati quali il prete, il vescovo, il cardinale ……. 🙂
la discriminazione di fatto è ben radicata, si deve fare un enorme sforzo culturale per cambiare le cose e certo che la chiesa frena enormemente ogni progresso culturale